Un’inattesa sintonia: Émile Zola e Francesco De Sanctis

di Elsa Flacco

 

 

Tra gli scritti di quel gigante della critica letteraria e della cultura italiana postunitaria che è stato Francesco De Sanctis, quelli dedicati a Émile Zola spiccano per finezza e perspicacia, rivelando un lato moderno e audace della sensibilità di un intellettuale che immaginiamo rivolto allo studio dei grandi autori del passato, piuttosto che alla valorizzazione della letteratura europea contemporanea.

De Sanctis, una vita tra studi e impegno

Quando nel 1877 pubblica a puntate sul settimanale “Roma” gli articoli su Émile Zola e due anni dopo tiene al Circolo Filologico di Napoli la conferenza su Zola e L’assommoir, Francesco De Sanctis ha sessant’anni ed è ministro della Pubblica Istruzione, incarico che terrà fino al 1881 nel governo Cairoli. È alla sua seconda esperienza, dopo quella nei ministeri Cavour e Ricasoli all’indomani dell’Unità, tra il 1861 e il 1862. Tanti anni sono passati, trascorsi tra Parlamento, insegnamento e opere che restano un caposaldo della critica letteraria: la più celebre, Storia della letteratura italiana, risale al 1870.

Questo per dire che a occuparsi del “caso Zola”, negli anni 1877-79, è un’autorità della cultura e della politica, da decenni ai vertici delle istituzioni del Regno, sempre su posizioni avanzate e democratiche, in aperta opposizione ai governi della Destra e impegnato in una instancabile attività di educatore, di insegnante, di critico militante, attento alla crescita culturale delle masse soprattutto del meridione, consapevole dell’esistenza di una “questione meridionale” che solo l’istruzione avrebbe potuto contribuire ad alleviare.

Non è questa la sede per approfondire il pensiero filosofico di De Sanctis, il rapporto conflittuale con l’estetica hegeliana, la polemica anti-sistemica. Qui interessa soprattutto, per inquadrare l’atteggiamento nei confronti del “fenomeno Zola”, sottolineare i pilastri del suo pensiero, i nuclei della riflessione portata avanti lungo una vita di studi: il rapporto tra “scienza” e “vita” e quello tra “forma” e “contenuto”. Si tratta di binomi ricorrenti nelle opere del critico: La scienza e la vita è il titolo del celebre discorso inaugurale letto nell’Università di Napoli il 18 novembre 1872, che si interroga sul ruolo della scienza nella società e sulla sua capacità di interpretare e di indirizzare la “vita” dei popoli, dall’antichità all’età contemporanea. La risposta di De Sanctis è come sempre problematica e articolata e riflette il suo animo tormentato, dietro all’austera facciata di professore e uomo delle istituzioni. Il suo pensiero non indulge mai a semplificazioni rassicuranti, e questo vale anche per l’analisi dell’opera di Zola e il giudizio su di essa.

L’altro cardine della critica desanctisiana è la relazione tra forma e contenuto, che determina l’essenza stessa dell’opera d’arte. Un rapporto dinamico e complementare, strutturale, attorno al quale ruota ogni possibile considerazione sul testo letterario, centrale nella visione complessiva della Storia della letteratura italiana. È una prospettiva che verrà respinta dalla critica positivista e rivalutata da Croce e Gramsci, pur con i necessari aggiornamenti e aggiustamenti.

«La forma non è a priori, non è qualcosa che stia da sé e diversa dal contenuto, quasi ornamento e veste, o apparenza, o aggiunto di esso; anzi è essa generata dal contenuto, attivo nella mente dell’artista: tal contenuto, tal forma. Ma se il contenuto, bello, importante, è rimasto inoperoso o fiacco o guasto nella mente dell’artista, se non ha avuto sufficiente virtù generativa, e si rivela debole […] o viziato nella forma, a che vale cantarmi le sue lodi? In questo caso, il contenuto può essere importante per se stesso; ma come letteratura o come arte non ha valore. E per contrario, il contenuto può essere immorale, o assurdo, o falso, o frivolo; ma, se in certi tempi e in certe circostanze ha operato potentemente nel cervello dell’artista ed è diventato una forma, quel contenuto è immortale […] Il contenuto è sottoposto a tutte le vicende della storia; nasce e muore: la forma è immortale.»

Questo principio, come vedremo, sarà centrale per l’interpretazione che De Sanctis darà dell’opera di Zola. Ma per capire l’interesse e l’attenzione che il giovane scrittore francese (era nato nel 1840) teorico del nuovo “romanzo sperimentale” riesce a suscitare in uno studioso della generazione romantica ancora fedele a una concezione “manzoniana” del realismo, dobbiamo capire chi è Emile Zola alla fine degli anni ’70 dell’800.



Il ministro e il romanziere

Quando De Sanctis decide di occuparsi di lui, Zola è ormai una celebrità, non solo in Francia. Ha trentotto anni, alle spalle una già copiosa produzione romanzesca, ed è ritenuto il maggior esponente della corrente del Naturalismo, estrema derivazione del realismo balzacchiano e flaubertiano. Proprio da Balzac Zola ha tratto ispirazione per la composizione di un grandioso ciclo narrativo imperniato sulle vicende delle famiglie Rougon e Macquart, di cui da poco pubblicato il settimo romanzo, uno dei più celebri dei venti che porterà a termine: L’assommoir, cruda analisi della degradazione della protagonista Gervaise e spietata rappresentazione della vita e delle condizioni del proletariato parigino. Fin dagli esordi l’opera e le idee di Zola avevano suscitato riprovazione molto più che consenso, con scandalo e biasimo dei benpensanti, in Francia come altrove; in Italia in particolare, paese legato a un manzonismo impregnato di religiosità e stilisticamente espresso nell’ottica di un narratore onnisciente, che filtra le vicende dei personaggi attraverso il suo peculiare punto di vista.

In un saggio sulla Ricezione di Zola in Italia (“La ricezione di Zola in Italia”, in: Le due sponde del Mediterraneo: l’immagine riflessa, Trieste, EUT Edizioni Università di Trieste, 1999, pp. 123-135), Silvana Monti ripercorre i giudizi, quasi tutti negativi, che il naturalismo zoliano aveva suscitato soprattutto tra i critici e i letterati della generazione romantica. Per un Felice Cameroni che ne esalta l’amore per il vero e l’autenticità, si levano numerose voci di letterati e storici anche di area progressista, da Salvatore Farina e Ferdinando Martini a Pasquale Villari, che ne deplorano l’amore non per la verità ma per il brutto e l’osceno, e soprattutto la mancanza di qualsiasi spinta ideale: sotto accusa, più dei contenuti che pure vengono tacciati di indecenza e squallore, il “metodo sperimentale” che lo scrittore francese applica al romanzo, considerato svilente e inadatto alla creazione artistica. In realtà appare difficile districare, in questo bailamme di critiche e denigrazioni variamente argomentate, quanta parte sia indirizzata ai temi e all’oggetto della rappresentazione e quanta a un metodo percepito come una minaccia alla concezione risorgimentale di una letteratura nazional-popolare dai caratteri edificanti e patriottici, pur nella onesta e moderata denuncia degli aspetti problematici da affrontare con riforme che non intacchino gli equilibri sociali e la visione cattolica del mondo.

In questo panorama irrompe in modo sorprendente De Sanctis. Il suo intervento, attraverso undici articoli pubblicati nel giro di sei mesi (27 giugno, 20 luglio, 11 e 27 agosto, 13 e 27 settembre, 30 ottobre, 7 novembre, 7, 9, 20 dicembre 1877), riuniti l’anno successivo sotto il titolo Studio sopra Emilio Zola e infine raccolti nella seconda edizione ampliata dei Nuovi saggi critici, precede di un anno la conferenza su Zola e L’assommoir, tenuta in quel Circolo Filologico napoletano fondato dallo stesso De Sanctis tre anni prima (e la scelta di trattare di Zola proprio in quel consesso non è priva di significato, considerate le finalità educative del Circolo stesso) e risulta ancora più intrigante se si considera la tendenza dell’autore a non occuparsi di letteratura contemporanea. Già da più parti era stato rilevato il silenzio, nella Storia della letteratura italiana, sugli autori degli ultimi decenni. Luigi Capuana, ad esempio, rimproverava a De Sanctis il silenzio sui Malavoglia, sottolineando proprio il diverso atteggiamento tenuto nei confronti di Zola e dell’Assommoir, ed è difficile dargli torto.

«Scritti in francese, a quest’ora I Malavoglia avrebbero reso celebre il nome dell’autore anche in Europa, e toccherebbero, per lo meno, la ventesima edizione. In Italia, intanto, pare che pochi se n’accorgano o vogliano mostrare d’essersene accorti. Ecco, per esempio, io dubito molto che il De Sanctis voglia indursi a fare pei Malavoglia quello che osò per l’Assommoir dello Zola. Eppure mi sembra che pochi dei nostri libri moderni siano meritevoli quanto I Malavoglia che l’acuta analisi del critico napoletano s’eserciti a farne risaltare le bellezze di prim’ordine, profuse con larghezza di gran signore in quelle quattrocento e più pagine.»

Impossibile non notare questo diverso atteggiamento nei confronti di Verga e di Zola. Per qualche motivo, nonostante i giudizi demolitori che legge da parte dei propri connazionali, o forse proprio per quelli, De Sanctis decide di occuparsi del romanziere francese con due saggi che sono tra i più rilevanti, per profondità di analisi e acume critico, di quelli scritti in quegli anni. Evidentemente deve aver colto qualcosa di davvero speciale in questo Emilio Zola.

Undici articoli…

«Certo, a volte siamo diversi. Ma non ho ancora letto nulla di più completo o approfondito su di me. In Francia, ogni critica è morta. Dovete capire con quale potente interesse vi ho letto. Ho finalmente trovato lì pagine di studio sincero e di verità» (in Emile Zola, Correspondance, dir. da Bard H. Bakker e Henri Mitterand, Presses de l’Université de Montréal – Éditions du CNRS, t. III, Montréal-Paris 1982, p. 359. Traduzione mia).

Così il romanziere francese, nel 1879, ringraziava il critico italiano per lo studio dell’anno precedente e per la conferenza di Napoli su l’Assommoir. Il «magnifico studio» è quello che raccoglie gli undici interventi apparsi sul settimanale «Roma», che analizzano il “realismo” di Zola secondo De Sanctis e il suo “ideale”, così come si realizzano in due romanzi del ciclo Rougon-Macquart, La curée e Le ventre de Paris, che secondo il critico rappresentano vividamente la corruzione politica, sociale e naturale (per citare i titoli dei primi tre articoli della serie) della Francia del Secondo Impero.

Come premette lo stesso Zola, loro due non potrebbero essere più diversi: per generazione, cultura, formazione, sensibilità, concezione della letteratura. Considerato nella sua personalità di intellettuale, questo De Sanctis sessantenne ancora impregnato di valori romantici e affezionato al realismo manzoniano appare agli antipodi del Naturalismo spinto che porta Zola a teorizzare il romanzo sperimentale, una forma narrativa cioè che trasferisce il metodo scientifico alla scrittura romanzesca, applicando, anche se non sempre rigorosamente, il principio dell’impersonalità del narratore. E allora, cosa aveva trovato De Sanctis, in Zola, di tanto notevole e significativo da fargli dedicare mesi di lavoro a commentare l’architettura narrativa, i temi, lo stile così lontani dagli amati autori della tradizione letteraria italiana?

Il primo motivo che spinge il ministro a occuparsi della nuova stella del romanzo d’Oltralpe ha a che fare con una concezione etica della scrittura che i due hanno in comune. La Storia della letteratura desanctisiana si distingue per il poderoso afflato civile che la pervade e scorre sottopagina incessantemente, conferendo a questo libro un’energia e un fascino che vincono il tempo e lo rendono una lettura appassionante anche oggi. Ecco, De Sanctis riconosce in Zola la sua stessa fiducia nel potere rigenerante della narrazione, nella sua capacità di incidere sulla realtà attraverso uno sforzo sincero di verità.

Se seguiamo gli interventi pubblicati su “Roma” durante il 1877, vediamo come l’attenzione del critico si appunti su alcuni precisi aspetti della poetica di Zola: in primis la tensione etica che ne fa “il pittore inesorabile di quella vasta corruzione francese” del secondo impero. In secondo luogo la vividezza sanguigna della rappresentazione, incentrata sul “nuovo catechismo dell’avvenire” secondo Zola, sintetizzato con la consueta icasticità da De Sanctis nel “principio dell’elezione naturale e della lotta per l’esistenza e dell’adattamento e della eredità e dell’ambiente”, dove il polisideto scaturito dal singolare pone con efficacia sullo stesso piano le facce di quello che è individuato come un principio unico. Colpisce la precisione chirurgica con la quale l’esperto e sensibile recensore riesce con nonchalance a riassumere in cinque elementi primigenii tutta la poetica del Naturalismo, così come era stata teorizzata da Hippolyte Taine e ripresa dalla concezione zoliana e poi (o in concomitanza) verghiana: race, milieu, moment, ereditarietà, ambiente, momento storico, in un contesto di rapporti umani dominati dalla lotta e dai processi di adattamento necessari alla sopravvivenza.

Un approccio deterministico e meccanicistico, se restiamo all’impalcatura teorica che Zola ha eretto intorno al romanzo per adattarlo ai principi del positivismo, elaborando la definizione di “romanzo sperimentale” illustrata nel saggio omonimo. Ma un critico ancora impregnato di una visione romantica della creazione artistica non può valutare positivamente e trovare motivo di interesse in quella che doveva apparirgli come una diminutio: voler sminuire l’atto della creazione letteraria riducendolo a una mera applicazione di una teoria calata dall’alto, alla stregua di una combinazione di elementi chimici che produce una reazione obbligata. Su questo punto De Sanctis è chiaro: laddove Zola applica rigorosamente il metodo sperimentale alle vicende umane dei suoi personaggi, appare lontano da risultati artistici. Dove invece la passione, il temperamento, vincono sulla fredda elaborazione teorica, proprio quando lo scrittore fallisce la dimostrazione del suo assunto, quando i personaggi rifiutano di piegarsi al destino che l’autore ha deciso per loro, o, meglio, al destino cui li condannano l’ereditarietà e l’ambiente, contro il quale neanche il loro creatore può nulla, lì il romanziere raggiunge le vette dell’arte.

Questa distanza tra l’assunto e il prodotto finale, lo scarto tra teoria e realtà, l’incapacità di Zola di dare seguito e compimento a quel bel sistema che ha messo su, generano le opere nelle quali, a parere di De Sanctis, si configura quello che lui chiama “l’ideale” di Zola, il suo essere artista tanto più quanto meno riesce nell’intento che si era prefisso. “Dell’ideale ha Zola una mezza coscienza, perciò più poetica”: in questa frase è condensato il pensiero del critico, che riconosce la grandezza dello scrittore nei momenti in cui probabilmente è meno soddisfatto di sé, per non essere riuscito a dare seguito “scientifico” alle premesse del racconto. Lo scrittore dunque sarebbe solo a metà consapevole delle proprie potenzialità narrative, tanto più compiutamente espresse nei momenti in cui il controllo sulla materia narrata si allenta e i personaggi prendono vita autonoma, rifiutandosi di eseguire pedissequamente lo spartito predisposto per loro. Artista suo malgrado, si potrebbe dire: non sembra esattamente un elogio incondizionato, eppure, come abbiamo visto, l’oggetto di tale non tanto lusinghiero giudizio riconosce al pensatore irpino la capacità di aver visto nel profondo della propria ispirazione, rintracciandovi le note più autentiche.

Ideale, abbiamo detto, che De Sanctis pone in tensione dialettica con l’altro polo, quello del reale. Reale e ideale non sono in contrapposizione, a suo parere, e nemmeno è giusta la posizione di chi ritiene l’ideale superiore al reale. Al contrario: l’ideale acquista tanta più forza quanto più è innervato in una concretezza reale che gli dà significato e lo esalta. L’ideale fine a sé stesso è arido, asfittico, senza prospettiva. Solo i grandi, e Zola è uno di loro, riescono a riempirlo di carne e sangue elevandolo a dignità artistica: qui l’antico romanticismo desanctisiano rialza la testa, e noi ritroviamo gli accenti ardenti dell’autore di quella Storia della letteratura italiana che lo ha consacrato come grande scrittore, oltre che critico di altri scrittori.

I romanzi che in questo primo studio, diviso in articoli ma mirabilmente organico e compiuto, De Sanctis prende a esempio delle proprie considerazioni, sono La curée e Le ventre de Paris, rispettivamente il secondo e il terzo di quel ciclo dei Rougon-Macquart che era giunto in quell’anno al settimo episodio. Due romanzi che nella complessa architettura del progetto analizzano la corruzione delle alte sfere sociali e la degradazione della piccola borghesia bottegaia e artigiana. Gli ultimi due articoli che compongono la serie del “Roma” prendono il titolo dei due romanzi che nello spazio di qualche pagina vengono descritti con una precisione di tratto e di colore che stupiscono: i personaggi balzano fuori dalle righe in tutta la loro umanità, che di artefatto e deterministico ha ben poco, a disdoro del loro creatore, il cui fallimento ne consacra l’immortalità letteraria.


E una conferenza

Nella primavera del 1876 De Sanctis aveva fondato nell’antica via San Sebastiano di Napoli, nell’aula magna del collegio dei Gesuiti trasformato in Regio Liceo Vittorio Emanuele, il Circolo Filologico di Napoli, dove terrà fino al 1883, anno della sua morte, conferenze prevalentemente su temi legati al positivismo e al naturalismo, culminanti con l’intervento su Il darwinismo nell’arte.

Centrale nella serie di conferenze, per la rilevanza critica e l’eco che ebbe a livello sia accademico sia nella vita culturale della ex capitale, fu quella su Zola e L’Assommoir, tenuta il 15 giugno 1879, dopo che l’anno precedente gli articoli comparsi sul “Roma” erano stati pubblicati con il titolo Studio sopra Emilio Zola.

L’Assommoir, settimo dei romanzi del ciclo dei Rougon-Macquart, al suo apparire aveva suscitato reazioni accese di tenore opposto. Difficile restare indifferenti davanti alla cruda storia di Gervaise, della sua progressiva degradazione attraverso un processo inesorabile che non sembra possibile contrastare. Dopo il successo e le polemiche dei romanzi precedenti, L’Assommoir è quello che consacra Zola come l’erede del grande romanzo realista francese, ma con la svolta naturalista che assume il metodo sperimentale come elemento caratterizzante e l’impersonalità del narratore come tratto stilistico distintivo. Mai, fino a quel momento, l’analisi sociale e psicologica era stata condotta con tanto rigore e perspicacia, senza quasi alcun cedimento al sentimento, al coinvolgimento emotivo di chi regge e manovra i fili della narrazione.

Quasi, abbiamo detto, e non a caso. De Sanctis è a un tempo ammirato e scosso dall’audacia di Zola, dalla sua resistenza alla tentazione di piegare la vicenda a sviluppi meno tragicamente prevedibili, di individuare per i suoi personaggi una via d’uscita da un destino segnato da fattori indipendenti dalla volontà dell’individuo. Da una parte, il suo essere ancora romantico e spirituale si ribella: “Ci è in questo mondo qualche cosa di plumbeo e di monotono, e se ci è qualche cosa che è protagonista, è l’ambiente che assimila tutto”. Dall’altra, comprende che “l’arte non rappresenta la vita in un modo assoluto, ma la vita come è concepita e spiegata in questo o quel tempo”, e che “oggi un’arte prettamente psicologica non corrisponde più allo stato della scienza, […] che è lo spirito del secolo”. Procedendo per questa via, la funzione di Zola nella letteratura non solo francese ma europea gli appare necessaria: leggendo, nell’Assommoir, la storia di Gervaise, non può non ammettere che “questo processo evolutivo condotto con una coerenza ed una costanza unica desta la nostra ammirazione. E non è meno potente in questa evoluzione lo stile, che è impersonale, stile delle cose. La materia è calda da sé; non le è bisogno sguardo d’artista”. Eccolo, il paradosso di De Sanctis, che mentre analizza l’opera di un altro scrittore, svolge insomma il suo ruolo di critico, dà prova continua del suo essere scrittore che merita di ricevere le attenzioni della critica, come poi avverrà nei decenni successivi. “La materia è calda da sé; non le è bisogno sguardo d’artista”, ma “non perciò manca l’ideale. Gli è solo che l’ideale non nasce da una vita artistica soprapposta e mescolata colla vita naturale. L’ideale è nelle cose”.

E qui torniamo al filo conduttore che attraversa questi scritti su Zola. L’ideale, così caro al vecchio critico, quello stesso ideale la cui assenza i colleghi della sua generazione rimproverano allo scrittore emergente e scandaloso, De Sanctis lo trova tra le pagine di Zola, ma non è frutto di retorica, di bello stile, di una visione che si sovrapponga alla materia narrata: al contrario, “l’ideale è nelle cose”. Un concetto che con la usuale pregnanza assume il rango di sentenza, alla pari con il celebre emistichio virgiliano che lo stesso De Sanctis evoca in conclusione, a suggello di un discorso che è arrivato al nucleo dell’ispirazione zoliana: “Dico che il motto di un’arte seria è questo: poco parlare noi, e far molto parlare le cose. Sunt lacrimae rerum. Dateci le lacrime delle cose e risparmiateci le lacrime vostre”.

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Biografia

Elsa Flacco è nata a Guardiagrele (CH), insegna materie letterarie nel liceo scientifico ed è impegnata in attività culturali sul territorio. Ha pubblicato saggi e articoli sul patrimonio storico, artistico e letterario dell’Abruzzo, prima di esordire nella letteratura creativa con il testo teatrale Un palmo e mezzo sotto la terra (Sigraf, 2016). Negli anni successivi pubblica la biografia Giuseppe Dell’Orefice. Un canto interrotto sulla scena napoletana dell’Ottocento (Libreria Musicale Italiana, 2019), i testi teatrali Tre racconti per il teatro (Chiaredizioni, 2020), scritto insieme a Maurizio Colasanti, e Il giudice nero (Divergenze, 2021). È autrice dei romanzi storici Per Francesco, che illumina la notte (Oakmond Publishing, 2017),  ITALICO (Chiaredizioni, 2021) e AUGUSTEA (Chiaredizioni, 2023). Ha fatto parte per due anni consecutivi (2019 e 2020) della giuria del Premio Internazionale Ignazio Silone e ha ottenuto nel 2022 il Premio Arte e Cultura “Ruggero da Fraine”.

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