Il bisogno e la necessità. In dialogo con Demetrio Paolin

A cura di Francesca Grispello

La mia colpa è mia, la colpa mi appartiene, la mia colpa non è il mio male, il mio male sarà lontano da me; io sono la mia colpa, ma io non sono il mio male…

Il bisogno e la necessità è un racconto che si espande, tra spirali e cerchi concentrici e ci cattura mentre ci respinge. L’ultimo racconto di Demetrio Paolin, inserito nella 21ma quartina di Tetra è scritto con una penna che dosa il suo inchiostro in modo esatto, ogni parola germina, fiorisce in sensazioni che pescano dalla nostra percezione più viva. Antonio Silieri è il protagonista: operaio per necessità, sindacalista, con un matrimonio finito, è padre disincantato e la sua vita è in verde come le cartelle esattoriali. Bisogno e necessità sono quel mantra che ci solleva da dove siamo, per compassione verso il protagonista e perché ci avvertiamo tutti stretti tra il bisogno e la necessità.

Avrei rotto la necessità con cui il mondo agisce su di me.

Dalle prime pagine del suo libro il corpo – corpo maschile – è esasperato, gravato, rotto o sul filo della rottura. Quanto è importante il peso del corpo nelle sue narrazioni?
Credo che la scrittura viva una sorta di aporia, per me interessante da analizzare, ovvero quella di essere uno strumento fatto di segni, di simboli, che non possiedono nessun tipo di legame con la realtà. Ne è un esempio appunto il “peso”: quanto pesa un corpo, come faccio a comunicare che un corpo è malandato, pensante, affaticato nel salire le scale? Come posso produrre una narrazione che descriva il piacere o il dolore delle membra, lo sciogliersi in bocca piacevole del cibo o lo sforzo di trattenere la vescica? Ci troviamo, quando discutiamo di corporalità, al limite del dicibile; e proprio a causa o grazie a questo limite è per me necessario che lo scrittore produca tutto lo sforzo possibile (sforzo – sia chiaro – destinato al fallimento) per produrre questa sensazione che ogni personaggio agente sulla pagina abbia una pelle, abbia un odore, respiri, si nutra. Solo così la sua morte, la sua nascita, il suo esistere nelle pagine del romanzo produrranno una sospensione dell’incredulità del lettore. D’altronde noi proveniamo da una tradizione che dice verbum caro factum est: parola e carne stanno attaccate, unite e in relazione. Non dovremmo dimenticarcelo.

 

Torino è una protagonista del suo libro, come mai ha scelto di far muovere il protagonista – operaio e sindacalista – in questa città?

Credo che per me Torino abbia una funzione simile a quella che Dublino ha per Joyce: è un luogo che in realtà ne sottende altri, è una allegoria di ogni posto, Torino è il mondo e il mondo si specchia in Torino. Torino è città geometrica e doppia, basta camminare per i portici del centro per rendersene conto, è una città piena di silenzi e di spazi che aprono una breccia – mi torna alla mente il barbaglio montaliano de La casa dei doganieri – su una entità metafisica. Ho pensato, penso tutt’ora, che sia il luogo adatto dove mettere in scena una sorta di slittamento e di duplicazione dell’interiorità del personaggio. Antonio, nel racconto, anche nel modo con cui l’ho costruito tipograficamente, senza segni che indicano lo stacco tra la mimesi del dialogo e da diegesi del narrazione, è sempre sempre in bilico tra due realtà: interno e esterno, dentro e fuori, scisso tra appunto il bisogno e la necessità, che si presentano così anche nei luoghi che abita e che vive.

Se mi perdoni, ti perdono e nel perdonarti perdono me stesso per ciò che ho fatto

Corpo e città, corpo e paesaggio, l’uno si trasfigura nell’altro, dal grumo di sangue come striscia d’asfalto, Notre-Dame e lo scheletro della balena…
Io credo che l’uomo esista nel suo abitare, nel suo entrare in relazione con un luogo, non siamo solo un essere parlante, ma siamo anche un essere abitante. La relazione tra un corpo e la città o il paesaggio è una sorta di rapporto panico, di confusione, di predominio vicendevole, i miei personaggi si muovono spesso, camminano, si spostano, sostano, sempre all’interno di un preciso perimetro, perché all’interno di quel perimetro esistono. Infatti a ben guardare cosa sono io? Come faccio a definire me stesso, se non attraverso le mie relazioni: il percorso che compio per andare a scuola in bici, l’entrare in classe e il dialogo con i miei studenti, ma anche la sosta alla libreria, o al supermercato? Torniamo a ciò che dicevo riguardo il peso corporale dei personaggi: esso si identifica con la qualità delle relazione che questi personaggi intrattengono tra di loro e con i luoghi; le relazioni sono la struttura dell’essere; ecco perché i miei personaggi sono colpiti ossessionati dalle ossature (siano intelaiature o tetti o scheletri), perché quelle linee che li uniscono gli uni agli altri, e tutti loro ai luoghi sono la testimonianza fragile del nostro esistere.

C’è un’estasi della disperazione, una trama di infelicità costruita prima da una certa inerzia della vita, poi con consapevolezza che diviene ebbrezza. “Il bisogno e la necessità” appare come un non farsi bastare la sconfitta comunemente intesa, ma cavalcarla.
C’è in Antonio una strana forma di esistenza, una non comprensione iniziale del perché fa le cose; se ogni storia è storia fantasmi e di formazione, anche questa è appunto il formarsi lento del fantasma della sconfitta, o meglio direi, il fantasma dell’infelicità; l’infelicità è qualcosa di molto diverso dal dolore, dal subire il male o dal compierlo, l’infelicità mi pare simile all’ombra che ognuno di noi stampa sul muro d’estate o l’orma che lascia mentre cammina sulla sabbia; è un dato del nostro esistere: siamo infelici, perché avvertiamo nostalgia di qualcosa che abbiamo perduto (chiamalo Eden o Età dell’oro), ma intuiamo un profondo senso di deprivazione e penuria. Antonio, molto egoisticamente, con un atteggiamento solipsistico, decide di essere all’altezza di questa infelicità cosmica, perché è consapevole che niente lo ripoterà a uno stato di felicità o di innocenza.

 

Come è nato il suo cameo verso la figura del sindacalista Luigi Macario?
Ho immaginato Il bisogno e la necessità come una sorta di evangelio, di annuncio, in cui si racconta la storia di “poverocristo”, ho riflettuto molto in questi anni, anche per altre cose che sto cercando di comporre, sul tema della narrazione dei vangeli e in particolare mi ha colpito il Vangelo di Marco, che sappiamo si conclude con la visione della tomba vuota (il che in parte getta un certa luce anche sul finale del mio testo). Nel vangelo di Marco, l’autore sente il bisogno di certificare la sua presenza, quasi a dire Guardatemi sono qui, io testimonio questi fatti che accadono. Per tale motivo si crede che lui sia il ragazzo che durante l’arresto di Gesù corre via nudo abbandoando un lenzuolo. Mi ha sempre colpito la nudità e inermità di questo ragazzo, che mette chiaramente in risalto la fragilità dell’autore di finzioni, il suo rendersi visibile e fragile, il suo darsi inerme nella scrittura; per questo motivo volevo che ci fosse anche un mio cammeo, come quello di Marco, a dichiarere un particolare momento, quando un autore guarda e osserva la sua storia e si spaventa.

Credo che non esistano narrazioni neutre, ogni azione umana è anche politica: cosa ne pensa in merito?
Non esiste nulla di meno neutro della narrazione, ogni narrazione ha un punto di vista, che presuppone una idea di mondo, una idea di essere umano, la letteratura come diceva Auerbach rappresenta “una possibilità di noi stessi”, nel senso che è sempre una scoperta di territori inesplorati e nuovi dell’essere vivente, questa è una funzione eminentemente politica della letteratura, che non si fa con proclami, petizioni, firme di appelli – beninteso in alcuni momenti e temperie anche queste forme hanno un senso profondo -, ma appunto producendo una narrazione, che interviene nel tessuto sociale, perché interviene nell’immaginario di ognuno di noi, niente è più sociale dell’immaginario di cui ci nutriamo, dal quale prendiamo le nostre storie al quale esse ritornano. Il romanzo, come diceva Kundera, odia le dittature, odia i totalitarismi, è per sua definizione una genere bastardo, per nulla ariano, che ha in uggia la purezza, è se vogliamo lo strumento perfetto per raccontare il complicato tempo presente.

Come nasce la sua idea, trama di racconto? In cosa differisce da un romanzo?
Io definisco Il bisogno e la necessità un romanzo (piccolo, breve, o anche potremmo usare un diminutivo), perché so di non essere a mio agio nel racconto, che vive una sorta di illuminazione, rapida, intuitiva e poetica (io non sono poeta) che non mi è congeniale. Il romanzo ha nel suo andamento e nel suo muoversi una immagine del mondo meno trascendente, e più orizzontale, il romanzo ama gli spazi ampi, la camminata, il muoversi: c’è una idea di mondo nel romanzo, che nel racconto è una intuizione quasi mistica, ecco io credo che il mio testo sia un romanzo perché è assolutamente chiara, al di là di ellissi reticenze che nutrono al narrazione e la fanno andare avanti, la idea che Antonio ha del mondo.

Quali sono gli autori che hanno nutrito la sua immaginazione ed educato la sua scrittura?
L’elenco sarebbe lunghissimo e complesso, posso dire che il primo stupore della scrittura mi è nato con Cavalcanti, ancora adesso non trovo lirica più misteriosa e inaccessibile di Chi è questa che ven, poi Emily Dickison, poi Manzoni, Levi, Pavese, Joyce, Dostoevskij, Morante, Sereni, Pomilio, Volponi, Dante, DFW, Céline, Ginzburg, eppoi Tasso, Berni, Tozzi e non so quanti altri, ma forse più di tutto sono le mani di mio padre quando collega i fili degli impianti della luce. Insomma è un guazzabuglio, un po’ come l’animo mio, in cui il desiderio di nitore e di chiarezza e di specificità convive, cozza e tenta una stravagante armonia con il difforme, il disordinato, il proteiforme…

Un brano musicale
All Apologies dei Nirvana

Un pasto
Una scodella di ramen mangiata in un tempio buddhista a Busan in Corea del Sud

Un odore
Il primo odore di mia figlia, Rebecca, appena nata.

Un viaggio
La Grecia in auto con la mia famiglia.

Un ricordo
La piccola mano di Samuele

Un sogno
Gerusalemme

Un colore
Bianco

Come se lo stupore e la casualità fossero stati aboliti e non esistesse sorpresa.

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