L’ “umiltà evoluzionistica” di Darwin e altre questioni filosofiche. In dialogo con Domenica Bruni

 

a cura di Ivana Margarese

 

 



Comincerei con un autore di cui ti sei a lungo occupata e che è certamente centrale all’interno dei tuoi corsi: Charles Darwin. Dando dimostrazione di una profonda sensibilità in qualche modo anticipatrice rispetto ai suoi tempi, lo scienziato scrive tra i suoi appunti: “Gli animali sono nostri compagni, fratelli in dolore, malattia, morte e sofferenza e fame; nostri schiavi nel lavoro più faticoso, nostri compagni negli svaghi; dalla nostra origine essi probabilmente condividono un comune antenato; potremmo esser tutti legati in un’unica rete (Barrett et al., 1987, trad. it. p. 218, B232). Mi piacerebbe una tua considerazione al riguardo.

Credo che esista un mondo prima ed un mondo dopo Charles Darwin. Ne sono convinta perché trovarsi di fronte a scoperte scientifiche che portano con sé un carico di potenza e di fascino intellettuale in grado di modificare concezioni, idee, teorie e mondi è una cosa davvero molto rara.
Il mondo dopo il naturalista inglese inizia nel 1859, anno di pubblicazione dell’Origine delle specie, un’opera che ha cambiato il corso della scienza moderna. Charles Darwin era solito annotare gli interrogativi sulla vita e sulla scienza nelle pagine dei suoi taccuini privati, tenuti segreti per circa vent’anni, riempiti in una Londra nebbiosa dei primi anni dell’Ottocento. I Taccuini sono una preziosa testimonianza del suo pensiero e del suo metodo scientifico durante la spedizione esplorativa del Beagle che durò dal 27 dicembre 1831 al 2 ottobre 1836 raggiungendo Brasile, Argentina, Cile e Isole Galapagos. Darwin ha tenuto dettagliati appunti su osservazioni, idee e speculazioni che alla fine hanno contribuito in modo significativo alla sua teoria dell’evoluzione, cuore dell’Origine.
Durante il suo viaggio intorno al mondo a bordo del Beagle, Darwin ha registrato osservazioni sulla geologia, la fauna e la flora che ha incontrato. Ha annotato dettagli riguardanti la varietà delle specie, le loro abitudini e l’ambiente in cui vivevano. Questi appunti sono diventati la base delle sue future riflessioni sulla selezione naturale e sull’evoluzione delle specie. I Taccuini di Darwin mostrano anche il suo impegno nell’osservazione diretta e nell’acquisizione di dati sul campo. La sua abilità nel raccogliere e analizzare informazioni è evidente nei dettagli delle sue annotazioni, che spesso erano accompagnate da schizzi e illustrazioni.
I suoi pensieri sparsi raccontano di animali che abbiamo reso nostri schiavi, che non amiamo considerare come simili a noi, proprio quegli stessi animali con paure, dolori, affetti, dispiacere per i morti, capacità imitative simili alle nostre. Charles Darwin ci invita a lasciar libere le congetture perché solo così gli animali saranno nostri compagni e fratelli. Il naturalista inglese ci propone, in fondo, un messaggio di “umiltà evoluzionistica”. Ma questo invito ha un impatto devastante sull’uomo poiché scardina il posto che egli stesso ama assegnarsi nel mondo della natura. Questo genere di prospettiva implica, infatti, la capacità di apprezzare l’idea che gli organismi viventi, compreso l’essere umano, sono frutto di un processo evolutivo che si è verificato su una profonda scala temporale.
L’umiltà evoluzionistica suggerisce che, nonostante la complessità e la diversità della vita sulla Terra, tutte le forme di vita condividono un comune antenato e sono il risultato di modifiche successive nel corso di milioni di anni. Questo concetto invita ad una visione potremo dire modesta del nostro posto nel mondo naturale e sottolinea la connessione tra tutte le forme di vita.
L’umiltà evoluzionistica può – e dovrebbe – influenzare anche il modo in cui affrontiamo la comprensione della vita, la biodiversità e il nostro impatto sull’ambiente. Adottare questo atteggiamento porta spesso a un rispetto più profondo per la natura e a un riconoscimento della fragilità degli equilibri ecologici. Inoltre, suggerisce che l’evoluzione è un processo continuo, e che l’adattamento e la diversificazione sono parte integrante della vita sulla Terra.
La citazione presente nella tua domanda evidenzia una prospettiva profondamente umanistica e sensibile di Darwin nei confronti degli animali, esprimendo un’affinità e una connessione profonda con il regno animale. Darwin sembra riconoscere un legame emozionale e sociale con gli animali. La sua affermazione suggerisce che gli animali non sono semplicemente risorse o oggetti da sfruttare, ma esseri che condividono con noi molte esperienze fondamentali, inclusi il dolore, la malattia, la morte e la fame. Questa visione anticipatrice è notevole, considerando che nel periodo in cui Darwin visse la concezione dominante era spesso antropocentrica e gli animali erano relegati a ruoli subalterni senza riconoscere loro una complessa vita emotiva e sociale.
La menzione di un “comune antenato” sottolinea il concetto chiave della teoria dell’evoluzione di Darwin. Secondo la sua visione, tutti gli organismi viventi, compresi gli esseri umani e gli animali, condividono un’origine comune.
Questo concetto ha profonde implicazioni non solo filosofiche ma anche etiche, suggerendo che tutti gli esseri viventi sono interconnessi e legati.
Questa prospettiva può influenzare la percezione dell’umanità nei confronti degli animali, spingendo verso un maggiore rispetto e cura nei loro confronti.
L’idea di essere “legati in un’unica rete” suggerisce una visione olistica dell’ecosistema. La vita sulla Terra è interconnessa, e le azioni umane possono avere impatti significativi sull’equilibrio ecologico.
Questa visione anticipa il concetto moderno di interdipendenza ecologica e della necessità di considerare le nostre azioni in relazione all’intero sistema vivente. Se accettiamo la visione di Darwin sulla connessione tra gli esseri umani e gli animali, emergono riflessioni etiche e morali sulla nostra responsabilità nei loro confronti. L’empatia e la comprensione della comune discendenza possono ispirare una maggiore consapevolezza delle nostre azioni e delle loro conseguenze sugli altri esseri viventi.
Per concludere, le parole di Darwin indicano una sensibilità profonda e fine rispetto al suo tempo, anticipando concetti che oggi sono fondamentali nel dibattito sulla relazione tra gli esseri umani e gli animali. Questa prospettiva ha contribuito a plasmare il modo in cui consideriamo e trattiamo gli animali, influenzando anche il pensiero filosofico ed etico riguardo alla nostra responsabilità nei loro confronti.

 


Le parole “pluralità” e “contingenza” sostituiscono, nel racconto delle storie naturali, quelle di “singolarità” e “necessità”. L’universo che ci circonda è un universo delle possibilità. Questo mettere l’accento sull’imprevedibilità e sulla contingenza potrebbe a tuo parere essere uno dei motivi, potremmo dire psicologici e culturali, delle resistenze che ci sono state e che ancora persistono ad accettare la spiegazione evoluzionistica?

La mia risposta è sì. Credo, infatti, che porre l’accento sull’imprevedibilità e sulla contingenza potrebbe essere uno dei motivi psicologici e culturali delle resistenze nell’accettare la spiegazione evoluzionistica. Le persone possono sentirsi più confortate dall’idea di un universo governato da singolarità e necessità, dove tutto è preordinato e segue un piano definito. Questa prospettiva offre una sensazione di ordine, sicurezza e prevedibilità, elementi che possono risultare rassicuranti dal punto di vista psicologico. L’idea che l’universo sia caratterizzato da pluralità e contingenza può essere più difficile da accettare per coloro che preferiscono un quadro più deterministico all’interno del quale collocare le proprie esistenze. La casualità e l’imprevedibilità possono suscitare ansia o insicurezza in individui che cercano spiegazioni chiare e inequivocabili per l’esistenza e la diversità della vita.
A tutto questo si aggiunge il fatto che molte culture e tradizioni religiose hanno storie di creazione che presentano il mondo come il risultato di un atto divino o di un piano cosmico. L’evoluzione, con la sua enfasi sulla pluralità e contingenza, può sembrare in contrasto con queste visioni del mondo, provocando resistenze da parte di coloro che trovano conforto nelle spiegazioni tradizionali.
L’evoluzione sfida le concezioni e le narrazioni antropocentriche dell’umanità, indicando che non siamo il risultato di un progetto speciale, ma parte di un processo naturale e casuale che coinvolge molte forme di vita. Questo potrebbe minare l’ego umano e incontrare resistenze da coloro che si aggrappano a visioni più centrali dell’umanità nell’universo. Accettare l’evoluzione, inoltre, implica accettare una mancanza di controllo percettivo sull’esistenza e sull’evoluzione umana. Questo può essere difficile per coloro che cercano sicurezza e controllo nelle loro visioni del mondo. Inoltre, va sottolineato che la resistenza all’evoluzione può anche derivare da fattori culturali e politici, oltre che psicologici. Alcuni individui potrebbero percepire la teoria dell’evoluzione come minacciosa per le loro credenze culturali o identità, e quindi resistere ad accettarla.
In realtà, non deriviamo né da una pura casualità né da un piano preordinato, ma piuttosto dalla contingenza, che si dimostra sicuramente più complessa e stimolante sotto molti aspetti. Ogni evento detiene una sua importanza nel flusso storico, poiché porta con sé un potere causale. È quindi lecito affermare che il passato è rimasto aperto. E se il passato è aperto, con maggior ragione lo è il futuro, su cui gli esseri umani, contemporaneamente specie biologica e culturale, hanno la capacità di esercitare un’influenza attraverso le proprie scelte, impartendogli una nuova direzione. La responsabilità emerge come una componente fondamentale nella nostra struttura sociale.


In Storia naturale dell’amore (Carocci, 2010) metti il fenomeno amoroso sotto il microscopio della scienza e lo analizzi come un fenomeno naturale capace sotto questa luce di rivelare alcuni suoi segreti. Nel corso della trattazione riporti anche alcuni studi in base ai quali l’attenzione degli uomini sembrerebbe per lo più rivolta verso caratteristiche fisiche, mentre le donne sarebbero attratte da qualità globali che riguardano lo status sociale del potenziale compagno. Ritieni che questo possa considerarsi valido anche adesso oppure col mutare del contesto in cui viviamo si sono delineate nuove forme e regole nell’attrazione?

La teoria secondo la quale, nelle dinamiche dell’attrazione e della scelta del partner, gli uomini siano più orientati verso caratteristiche fisiche mentre le donne siano attratte dalle qualità globali e dallo status sociale dei potenziali compagni è spesso associata alla prospettiva evoluzionistica. Secondo questa prospettiva, le preferenze possono riflettere strategie di accoppiamento che erano adattative nell’ambiente in cui gli esseri umani si sono evoluti, ossia l’ambiente di adattamento evoluzionistico della ormai mitica savana del Pleistocene.
Tuttavia, è importante notare che le preferenze di attrazione possono essere influenzate da molti fattori, tra cui la cultura, l’educazione, le esperienze personali e i cambiamenti degli assetti sociali. Nel corso del tempo, la società ha subito cambiamenti significativi che hanno influenzato le dinamiche di attrazione e i criteri di scelta del partner. Negli ultimi decenni, ad esempio, sono emerse nuove prospettive sulla parità di genere e sono cambiate le aspettative sociali. Questo potrebbe influenzare le preferenze di attrazione, spostandole maggiormente verso criteri che hanno a che fare con la personalità, interessi comuni, valori condivisi e rispetto reciproco, piuttosto che focalizzarsi esclusivamente su aspetti fisici o sullo status sociale.
Oggi, molte persone cercano relazioni basate sull’uguaglianza e sulla connessione emotiva profonda, indipendentemente dal genere. Le nuove forme di comunicazione, inclusi i social media e le app di incontri, potrebbero anche avere un impatto sulle dinamiche di attrazione, consentendo alle persone di connettersi in modi diversi rispetto al passato. Credo che quest’ultimo potrebbe essere un interessante campo di ricerca da esplorare per chiunque sia interessato al superamento dei vincoli di natura biologica che condizionano la scelta del partner.

Sempre nel libro Storia naturale dell’amore evidenzi come Byrne e Whiten, dell’Università di Saint Andrews in Scozia, abbiano studiato il comportamento delle scimmie antropomorfe mettendo in evidenza come, di fronte a complesse situazioni di natura sociale, i primati superiori riescano a raggiungere i loro scopi attraverso l’impiego dell’astuzia. Essi possiedono la capacità di usare l’intelligenza al fine di manipolare gli altri componenti del gruppo sia per la sopravvivenza che per la riproduzione. La filosofia a lungo si è espressa su verità, illusione e maschera, ma devo ammettere che questa corrispondenza tra intelligenza e manipolazione per quanto intuitiva mi ha comunque creato alcune perplessità dal punto di vista etico. Potrei chiederti un piccolo approfondimento sulla questione?

Gli studi condotti alla fine degli anni Ottanta da due primatologi scozzesi Richard Byrne e Andrew Whiten hanno introdotto il concetto di intelligenza machiavellica per i primati non umani (gorilla e scimpanzè) e mostrano la capacità delle scimmie antropomorfe di utilizzare l’astuzia nelle complesse dinamiche sociali, sottolineano la connessione tra intelligenza e capacità di manipolazione. Questi primati, in quanto animali sociali, spesso si impegnano in comportamenti strategici per raggiungere obiettivi legati alla sopravvivenza e alla riproduzione. L’intelligenza viene sfruttata per comprendere le dinamiche sociali, prevedere le reazioni degli altri membri del gruppo e adattare il comportamento di conseguenza.
La connessione tra intelligenza e manipolazione solleva certamente questioni etiche interessanti e complesse. In molte discussioni filosofiche ed etiche, la manipolazione è spesso associata a un comportamento moralmente discutibile, in quanto può coinvolgere l’inganno e la mancanza di trasparenza. Tuttavia, quando si parla di animali non umani, la valutazione etica diventa più sfumata.
Poi esiste una prospettiva antropocentrica della questione etica che tu poni. Da questa prospettiva siamo soliti attribuire un valore etico superiore alle azioni umane rispetto a quelle degli animali. Di conseguenza, la manipolazione intelligente da parte degli animali può essere valutata in modo diverso rispetto a quella umana. È importante considerare che questi comportamenti nelle scimmie antropomorfe sono spesso parte della loro natura e strategie adattative per la sopravvivenza. Dall’ottica della biologia evoluzionistica, invece, il comportamento manipolativo può essere visto come una strategia evolutivamente vantaggiosa per la sopravvivenza e la riproduzione. Tuttavia, questo non necessariamente giustifica automaticamente la manipolazione, ma evidenzia la sua origine come risposta adattativa a un ambiente sociale.
La ricerca sull’intelligenza animale e sul comportamento sociale evidenzia la complessità delle dinamiche sociali degli animali, sfidando talvolta le nostre concezioni preconcette di moralità. L’osservazione e la comprensione di questi comportamenti possono portare a una maggiore consapevolezza della diversità delle strategie di adattamento nella natura.
La relazione tra intelligenza e manipolazione negli animali solleva sfide etiche e richiede una riflessione che sia cauta e attenta. È essenziale evitare di applicare automaticamente le nostre norme etiche umane agli animali, riconoscendo la complessità delle dinamiche naturali e il contesto evolutivo in cui si sono sviluppati tali comportamenti.

Hai scritto Politici sfigurati. Comunicazione politica e scienza cognitiva (Mimesis, 2012). Posso chiederti perché “Politici sfigurati” e da cosa è nata l’esigenza di riflettere su questo tema?

I politici ai quali ho pensato nello scrivere il mio libro sono i politici che sentiamo maggiormente familiari, che popolano i talk show e animano gli agoni televisivi e non. Per decifrare il loro linguaggio e i concetti che con esso veicolano occorre, in un certo senso, smascherarli mettendo in evidenza l’uso pervasivo di frames, metafore e altre figure retoriche (da qui il titolo politici sfigurati).
Nel mio lavoro tocco argomenti che vanno dal controllo della comunicazione mediatica da parte dei politici al ruolo pervasivo delle metafore nella politica criticandone il loro uso distorto. Il mio tentativo è di illuminare la complessità della relazione tra natura umana, politica ed etica. Il nostro corredo biologico – inclusi i frames incorporati nella mente di Homo Sapiens, influenzino aspetti decisivi della nostra esistenza.
L’idea centrale sottesa è che le recenti scoperte sulla natura della mente, portate avanti dalla scienza cognitiva, gettino luce anche sul campo della politica. Gli schemi concettuali attraverso cui modelliamo e organizziamo la nostra esperienza, noti come frames, rivestono un ruolo cruciale nella comprensione di ogni forma di comunicazione, soprattutto in ambito politico. Per comprendere che cosa è un frame possiamo provare ad immaginarlo come la cornice di un quadro che delimita ciò che dovrebbe essere visibile e ciò che, invece, dovrebbe restare fuori dalla nostra percezione.
I frames, che comprendono narrativa culturale, prototipi e metafore, sembrano influenzare non solo il nostro modo di percepire la realtà, ma anche il modo in cui concepiamo le informazioni provenienti dall’esterno e orientiamo le nostre intenzioni di voto. Se ognuno di noi ha in mente un “frame” che non rispecchia la realtà, anche se ci venissero forniti fatti concreti e veritieri, potremmo avere difficoltà a comprenderli appieno: il frame prevarrà, poiché è saldamente presente nella nostra mente, e i fatti risulteranno emarginati o distorti, come se fossero narcotizzati dalla nostra predisposizione cognitiva. In questo modo, la percezione distorta determinata dai frames diventa un elemento chiave nella formazione delle opinioni e nel processo decisionale, sottolineando l’importanza nella sfera politica di comprendere e gestire consapevolmente questi schemi concettuali.

L’ultima domanda vorrei riguardasse il tema dell’educazione. Siamo entrambe docenti di Filosofia, seppure io insegno al Liceo e tu all’Università, e a entrambe stanno a cuore l’insegnamento e la formazione. Da insegnante avverto forte l’esigenza di creare una relazione di fiducia con gli studenti, spronandoli a confrontarsi con i testi e a esprimere il loro punto di vista, al di là di un approccio competitivo o rivolto esclusivamente al voto. Qual è la tua esperienza da docente?

Una delle prime cose che cerco di trasmettere ai miei studenti è pensare criticamente ossia pensare con la propria testa, incoraggiandoli ad esprimere il loro punto di vista, a confrontarsi con i testi e a dare il giusto peso ai diversi stimoli provenienti sia dalle lezioni che dal mondo fuori dalle aule universitarie.
Quello che cerco di fare è non perdere mai divista la dimensione umana dell’insegnamento. Creare opportunità per la collaborazione tra gli studenti può contribuire a superare l’approccio competitivo. Lavorare insieme su progetti o discutere di argomenti può migliorare la comprensione e favorire una cultura di apprendimento condivisa. Concentrarsi non solo sui risultati finali o sui voti, ma anche sul processo di apprendimento è cruciale. Questo può ridurre la pressione legata alle valutazioni e permettere agli studenti di apprezzare il percorso di scoperta e crescita intellettuale.
Questo approccio alla formazione e all’educazione permea costantemente il mio modo di insegnaresia perché provengo da una famiglia di insegnanti e sia perché mia madre, nel dirigere per tanti anni un Istituto comprensivo in Calabria, ha dedicato tutta la sua vita a concretizzare l’ I Care di Don Lorenzo Milani.
Credo sia possibile, se lo si vuole, abbattere i muri invisibili che separano chi si trova dietro una cattedra da chi si trova dietro i banchi e credo sia possibile che l’ I Care – che ha caratterizzato lo stile di Don Milani – diventi sinonimo di espressioni come “sono al tuo fianco” o “puoi contare su di me”.
Questa espressione diventa fondamentale per aiutare gli studenti ad affrontare le sfide all’interno di un contesto scolastico tradizionale perché l’empatia e la costruzione di un rapporto di fiducia rappresentano gli alleati essenziali per facilitare un ambiente di apprendimento positivo e per raggiungere qualsiasi obiettivo formativo. Anche a livello universitario, è cruciale instaurare un rapporto di rispetto reciproco e di apertura con gli studenti.
Il primo patto educativo – che Don Milani aveva già compreso sessanta anni fa – nasce all’interno delle aule e si basa su relazioni aperte e sincere tra insegnante e studente, una relazione che sia libera da pregiudizi e animata da responsabilità e rispetto reciproco.
Insegnare non è la semplice trasmissione di nozioni ma è la capacità di individuare e valorizzazione specificità e potenzialità di ogni singolo studente trasmettendo loro la passione per questa impresa comune. “Contagiare involontariamente una passione” è l’unico modo di insegnare che conosco. Credo sia lo stesso contagio involontario che hanno esercitato su di me i miei maestri più cari e preziosi verso i quali provo l’ormai poco sperimentato sentimento della gratitudine. Non faccio che imitarli. Ed in questo momento storico è l’unico contagio a cui non saprei rinunciare.

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