Attraverso il bosco

di Rossella Caleca

Giacomo si voltò e tornò indietro. “Vuoi fare una sosta?” disse. “Mi sembri un po’ stanca.” Sara non replicò, limitandosi ad annuire. Ma non era stanca, affatto. Camminavano da meno di un’ora, l’erba tratteneva qualche traccia di rugiada e il sole pallido era ancora basso sull’orizzonte. Raggiunse Giacomo che si era fermato all’altezza di un piccolo spiazzo e posò lì lo zaino. Tirò fuori un thermos e due tazze di plastica, ne porse una al suo compagno, versò il caffè. Lo bevve a piccoli sorsi, appoggiata a un rovere che chiudeva la radura, contemplando le foglie cadute al suolo vicino ai sui piedi. Erano ancora belle, asciutte e croccanti.

Giacomo, fermo a gambe larghe sul limite del sentiero, scrutava nel folto. Le porse la tazza allungando il braccio. “Hai già raccolto molte foglie?” chiese distrattamente. “Qualcuna” rispose lei chiedendosi se avesse portato un numero sufficiente di bustine. Si affrettò a raccogliere e riporre tutto nello zaino, ma lui era già dieci metri più avanti e continuava a camminare col suo passo lungo ed elastico. “Se vuoi porto io il tuo zaino” disse senza voltarsi. “Non c’è bisogno, grazie”. Non le dava fastidio il peso, ma cercava di non rallentare troppo mentre osservava la varietà di colori ai piedi delle querce e dei lecci che si andavano facendo più folti; ogni tanto, dopo essersi fermata a spiccare un rametto o un grappolo di bacche, doveva fare una corsetta per non restare indietro.

“Dicono che il Parco dei Nebrodi sia pieno di cinghiali, anzi di ibridi di cinghiale e suino nero” disse Giacomo, rivolto all’aria davanti a sé “Ma noi non ne abbiamo ancora visto uno” “Non ci tengo a vederli, veramente” disse Sara alle sue spalle. “In genere non sono pericolosi, a meno che non si disturbi una madre coi piccoli. E noi seguiamo il percorso segnalato”. Guardò l’orologio. “Per arrivare al lago ci vorranno più o meno un paio d’ore, se ce la fai a mantenere questo passo” Lei proseguì allontanando con la punta del piede, a piccoli colpi, un sassetto nel mezzo del sentiero. “Ma non dovevi raccogliere funghi?” gli chiese. “Devo ritrovare il posto; anche se adesso non ce ne saranno molti, credo” Si guardò intorno. “Dopo questa curva, mi pare.” Oltre la svolta, iniziava, dal lato destro del sentiero, un declivio ripido, ombroso, folto di sottobosco. “Ecco. Vado giù di là.” “Dove?” Giacomo fece un gesto vago, circolare. “Farò presto. E tu puoi fermarti qui” Indicò un grosso tronco abbattuto, parallelo al sentiero. “Ma perché” protestò lei. “Non vedi come è ripido? Non è per te. Poi, ti pungeresti con gli agrifogli ”. In quattro salti era già sparito.

Sara gironzolò nei pressi, inspirando i sentori verdi. Tra due alberi vicini all’orlo del sentiero un ciuffo giovane di felce attirò la sua attenzione; amava le felci e non ne aveva ancora viste quella mattina. Si avvicinò e ne colse alcuni rami, poi sedette sulla parte meno muscosa del tronco. Annusò le foglie, ciascuna composta da molte minuscole repliche di sé, ma non avvertì alcun odore; eppure l’aveva la felce del giardino in cui giocava da piccola, un profumo che ricordava. Quel giardino era pieno di odori; menta e citronella erano gli strati larghi e bassi di una nuvola in cui si insinuava tenace il gelsomino e dilagavano le rose. Lei correva da sola sui vialetti di ghiaia ed entrava nelle aiole di terra lenta e scura, cercando tesori di foglie e semi, e i fiori più modesti da cogliere a mazzetti, come il biancospino. Faceva barchette con le bacche di alchechengia gonfie e tripartite, ricavandone da ciascuna tre, verdi o gialle secondo la stagione, ognuna con una vela trasparente che aveva al centro, infisso, un passeggero tondo; le metteva a navigare nella vasca dell’acqua per innaffiare. La felce cresceva in un angolo buio, serrato tra il muro di cinta e la base in pietra di un balcone, sotto i rampicanti; lei si nascondeva là, raggomitolata a occhi chiusi, fingendo di essere una pianta. Le piaceva stare così nella sera calante, ascoltando le voci che venivano dal balcone, l’onda tranquilla della voce più bassa che a volte si apriva in una risata. Intanto si diffondeva l’aroma della minestra e lei sapeva che tra poco né parole né passi, ma solo il richiamo del grillo modulato dalla voce bassa sarebbe stato il segno che era aspettata ed era tempo di rientrare.

Si rese conto di aver tenuto gli occhi chiusi quando un rumore strano e plurale la riscosse, facendola sobbalzare nell’istante in cui si vide circondata da cinghiali. Erano piccoli in verità, scalpicciavano grufolando sul sentiero, sbucati da chissà dove. Sara passò dalla paralisi iniziale a una immobilità ragionata, dopo aver ritratto pian piano le gambe e arretrato il bacino fino ad accoccolarsi sul tronco senza toccare il terreno. Mentre gli istanti passavano lentissimi si ritrovò a pensare che la sua costituzione minuta stavolta le sarebbe stata d’aiuto. Subito dopo, rabbrividendo, si rese conto che i cinghialetti non dovevano essere soli; e nello stesso momento sentì un raspare più forte. Eccola, la madre, grossa e nera. Si avvicinava veloce. Sara evitò di guardarla, sperando che funzionasse, come si fa con i cani.

Verso mezzogiorno il lago aveva assunto un colore più deciso, tendente al verde più che all’azzurro. I resti della loro colazione giacevano sulla tovaglia a quadretti, distesa al centro di una radura distante pochi metri dal balzo roccioso della riva. Sara cominciò a raccogliere le provviste rimaste, temendo che venissero assaltate da formiche e vespe, che fino ad allora non si erano viste. “Sai” disse riponendo i contenitori “mentre tu non c’eri ho visto i cinghiali.” “Che dici?” “Otto cinghialetti. E la loro mamma.” “E non mi hai chiamato?” “Ho pensato che era meglio di no.” “Che gita sfortunata. Neppure funghi buoni.” Giacomo si tirò su e andò in cerca del suo zaino. Mentre lo sollevava si girò. “Ma non hai avuto paura?” Sara alzò le spalle. “Poi se ne sono andati.” Finì di sistemare. ”Io faccio un giro.” “Ma che, da sola? Dove?” Lei indicò una direzione, a destra di quella da cui erano arrivati. “E dove ci ritroviamo?” Lei si avviò, facendo con la destra un gesto vago, circolare.

Rossella Caleca vive a Balestrate, in provincia di Palermo. Sociologa, si occupa di progetti per l’inclusione sociale di persone svantaggiate. Ha pubblicato racconti nelle riviste “Marea”, “Mastro Pulce”, “Mezzocielo”, su siti web e nelle antologie Le personagge sono voci interiori (Vita Activa, 2016), La speranza è una strana invenzione (Vita Activa Nuova, 2021), Visioni di futuro (Il filo di Eloisa- Associazione culturale Eloisa Manciati, 2022); un suo racconto ha conseguito il primo premio nella V edizione del concorso letterario “Elca Ruzzier. Una donna da non dimenticare” ed è stato pubblicato nell’antologia Prisma di frammenti. Storie di donne (Vita Activa, 2021). Ha pubblicato inoltre una silloge poetica dal titolo La stagione accanto (Samuele Editore, 2021).

Immagini di Miriam Tölke


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