Katherine Mansfield e Virginia Woolf: una vera amicizia

di Giorgio Galli

C’è un episodio di cui sono stato protagonista e che mi sembra emblematico dell’equivoco che circonda il rapporto fra Katherine Mansfield e Virginia Woolf. Appena letto il magnifico libro di Sara De Simone, ho scritto un post sulla mia pagina Facebook e un mio contatto ha commentato dicendo che Katherine Mansfield era “definita da Woolf ‘imperscrutabile’ e non molto amata”. Ora, la lettura del libro afferma l’esatto contrario: che quella tra le due scrittrici fu una grande, profonda amicizia, non esente da dissensi, allontanamenti e delusioni reciproche come ogni amicizia che si rispetti;  ma fu un’amicizia autentica e fondata su un’autentica stima reciproca. L’aggettivo “imperscrutabile” fu usato da Virginia per sottolineare il fascino che l’amica esercitava su di lei, il fascino di una persona che poteva essere caustica e sentimentale, rigorosa e teatrale, che poteva essere devota e poi sparire per mesi, senza che delle sue manifestazioni si potesse prevedere alcunché. L’equivoco nasce dal fatto che, come ben riporta De Simone, l’ambiente letterario dell’epoca faceva già fatica a concepire l’idea di una scrittrice donna: ma due scrittrici donne nella stessa lingua e nella stessa epoca erano troppe, ed era “inevitabile” che l’una tentasse di escludere l’altra, che fossero cioè due rivali. In realtà, andando alle fonti –ovvero ai diari e ai carteggi delle scrittrici- vediamo che un po’ di rivalità vi fu soprattutto da parte di Virginia Woolf, più lenta nel maturare un proprio stile, ma fu una rivalità sempre tenuta a bada, temperata dall’ammirazione e dal sentimento di aver trovato una persona come lei: qualcuno per cui la scrittura veniva prima di tutto, e da cui poter ascoltare la propria idea della letteratura e del mondo come in un’eco, in conversazioni che Virginia definiva priceless, impagabili.

La ricostruzione di Sara De Simone è rigorosissima e tutta basata su documenti riportati in un ricco apparato di note. Eppure, ed è ciò che fa gridare al miracolo, il libro è non solo leggibile da qualsiasi lettore di buona volontà, ma anche estremamente vivo. La prosa austera dell’autrice ricrea con emozione ogni dialogo, stende su ciascun avvenimento la malìa del racconto, muove persone reali come fossero personaggi di romanzo, senza che nulla vada perso della sensazione di stare assistendo a scene realmente accadute. Credo che il complimento più grande che si possa fare a un’opera come questa sia che le sue persone reali risultano vive come personaggi di fantasia, e che la realtà storica vi appare ricca come una leggenda. De Simone insomma è riuscita ad aderire sia alla verità fattuale che a quella poetica di ciò che narra, in un modo che lascia, più che sorpresi, commossi, incantati. Quando descrive la folla londinese attraversata da Virginia nei viaggi per andare dall’amica, e soprattutto quando tratteggia i paesaggi e i segni dell’avvicendamento delle stagioni, si basa su note conservate nei diari delle due scrittrici, oppure lascia libero corso alla fantasia?, ci chiediamo durante la lettura; e la risposta è che non importa, perché riuscire a ricreare un luogo, una stagione, un’atmosfera con tanta grazia non è frutto solo di documentazione o di capacità immaginativa, ma di un’adesione totale alla materia narrata, alle psicologie delle due scrittrici e al loro modo di attraversare l’epoca difficile in cui il destino le aveva poste: e non c’è motivo di andare con la lente d’ingrandimento a ricercare le ragioni di un incanto: la magia è magia e bisogna saperla lasciare anche inspiegata.

Così, quella cui assistiamo nelle pagine di Nessuna come lei è una ricostruzione minuziosa eppure animata in ogni dettaglio, in cui tutto è vivo e presente, i paesaggi inglesi, quelli liguri e francesi, le mucche di Fontainebleau, gli ospiti dell’Istituto per lo sviluppo armonico dell’uomo di Gurdjieff, i colori della natura e quelli delle tappezzerie, le musiche rituali su cui si danza di sera tra gli ospiti dell’Istituto, e lo slancio eccessivo con cui Katherine prende i primi gradini di una scala che le risulterà fatale. Perché la morte arriva, per Virginia Woolf e Katherine Mansfield come per tutti, ma certe creature sono così vive che qualche sussulto lo danno a chi resta anche da morte, e perché in definitiva la forma, trasformata in un’opera, è l’unico atto di umanità che perdura, e che può dare qualcosa di simile alla vita eterna a chi non esiste più. E c’è un altro modo in cui la vita, attraverso la forma, si perpetua: sembra infatti che De Simone abbia rilevato quella capacità di comporre quadri, quella capacità di animare ogni dettaglio che Virginia ammirava in Katherine non senza una punta d’invidia.

Tranne Leonard Woolf, i personaggi maschili non escono bene da questa ricostruzione. Harold, il padre di Katherine, ha la vitalità debordante della figlia ma non la sua delicatezza: sordo alla sensibilità di una moglie completamente schiacciata, attaccato al denaro, passa alle figlie il minimo indispensabile per vivere e non concede nulla di più a Katherine nemmeno per curare la tubercolosi. John Middleton Murry, il marito di Katherine, è un uomo ridicolo, tanto egoista quanto privo di personalità, che lascia sistematicamente sola la moglie in tutte le situazioni difficili –comprese quelle che la porteranno alla morte- accusandola addirittura di minare la sua quiete coi suoi problemi e passando lunghi periodi lontano da lei, componendo pomposi poemi e frequentando le sue amanti. I membri del Bloomsbury Group sono quelli che oggi si chiamerebbero dei radical chic, tanto progressisti in teoria quanto pronti a sposare, in pratica, idee degradanti sull’inferiorità intellettuale delle donne, tanto pronti ad accogliere l’esotica Katherine come una novità e un fenomeno da baraccone, quanto a malignare alle sue spalle attribuendole comportamenti sessuali più liberi di quanto l’audace Katherine non avesse. Non si salva del tutto nemmeno David Herbert Lawrence, sorta di “puro folle” wagneriano, insopportabile tuttavia a causa dei ripetuti attacchi d’ira.

Per contro, è nell’amicizia tra donne che viene fuori il meglio dell’essere umano. Nella devozione goffa e commovente di Ida, che segue Katherine fino in capo al mondo, sempre cambiando città e lavoro per lei; nell’aiuto economico elargito spontaneamente dalla cugina scrittrice Elizabeth von Arnim, a disagio dinanzi alla forte personalità di Katherine ma consapevole d’esser di fronte a una donna e a un’artista di valore. In Virginia Woolf, che, pur descritta dal mondo letterario maschile dell’epoca come rivale di Katherine, si batte invano perché il valore dell’amica sia riconosciuto. Il tema delle amicizie e delle reciproche fecondazioni intellettuali tra donne di spessore culturale non è stato trattato spesso. Nell’ultimo anno sono usciti almeno due libri: questo Nessuna come lei e un lavoro collettivo a cura di Ivana Margarese, Tra amiche (edito da Les Flâneurs). Ma è un tema già presente alla Virginia Woolf di Una stanza tutta per sé, che, in un commento a un romanzo immaginario, scrive:

“Chloe voleva bene a Olivia”, ho letto. E mi ha colpito quale incredibile cambiamento c’era in quella frase. Chloe voleva bene a Olivia forse per la prima volta nella storia della letteratura. Cleopatra non voleva bene a Ottavia. E quanto sarebbe stato incredibilmente diverso l’Antonio e Cleopatra se le avesse voluto bene! Così com’è, pensavo […] tutta la faccenda viene semplificata, “convenzionalizzata”, se così si può dire, in modo assurdo. L’unico sentimento di Cleopatra nei confronti di Ottavia è la gelosia. È più alta di me? Come pettina i capelli? Probabilmente il dramma non richiedeva di più. Ma come sarebbe stato interessante se la relazione tra le due donne fosse stata più complessa. Tutte queste relazioni tra donne, pensai, passando rapidamente in rassegna la splendida galleria di personaggi femminili, sono troppo semplici. Troppo è stato lasciato fuori, intentato. E cercai di ricordare, tra le mie letture, l’esempio di due donne raccontate come amiche.

Ecco, questo libro è la storia che manca, la storia di due grandi scrittrici che furono anche due amiche e che sedevano l’una di fronte all’altra, l’una pari all’altra, nelle loro conversazioni impagabili. Ma devo confessare una cosa: per quanta ammirazione io provi per Virginia, la figura di Katherine per me è il motore segreto della narrazione. Non solo per la sua vita e la sua personalità così irregolari, tese a un bisogno di suonare tutta la tastiera dell’umano tanto in vita quanto in letteratura; ma anche per la sua etica rigorosissima della scrittura. Katherine è implacabile con se stessa, non è contenta mai di ciò che scrive, vuol sempre essere “più al centro”, si rimprovera sempre di non aver scritto abbastanza o abbastanza bene: è come se la scrittura fosse per lei un privilegio da onorare con sacerdotale abnegazione. E quando legge Notte e giorno di Virginia, si trova in pieno conflitto di valori: il libro a lei pare un tradimento, “un artista si stacca un orecchio e lo mette fuori della porta”, dice, e l’orecchio di Virginia sembra sia stato sordo all’evento più tragico degli ultimi anni: la guerra. Non è obbligatorio raccontare la guerra, ma non si può estromettere quella sofferenza dall’orizzonte della narrazione. E si tormenta per giorni, Katherine, indecisa se scrivere o no la recensione richiesta, combattuta tra il bene che vuole all’amica e la devozione alla verità. E alla fine la recensione la scrive, e scrive che Virginia è ancora troppo distante dalla vita per essere la scrittrice che può essere. E Virginia dapprima si offende, ma poi ci riflette, ci riflette… e da questo ripensamento nasceranno i capolavori maturi.

Sara De Simone, Nessuna come lei. Katherine Mansfield e Virginia Woolf. Storia di un’amicizia, Neri Pozza, 2023. Nelle immagini: 1) Virginia Woolf, 2) Katherine Mansfield, 3) Sara De Simone.

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