Elena Gianini Belotti, “Dolce o violenta che sia”. In dialogo con Carlotta Cossutta

cura di Ivana Margarese 

 

Elena Gianini Belotti nasce il 2 dicembre del 1929. Per molti anni insegna alla Scuola Assistenti Infanzia Montessori e nel 1960 partecipa alla fondazione del Centro Nascita Montessori di Roma, che dirige fino al 1980.
Nella sua vita ha lavorato a lungo nel campo dell’assistenza per l’infanzia. ‘Dalla parte delle bambine’ è il libro che l’ha resa nota. Si tratta di un testo ormai divenuto classico che rappresenta una presa di posizione fin dal titolo e intende svelare i condizionamenti sociali che ci rendono donne e uomini e che comprimono le nostre energie entro argini ben definiti.
Un saggio dirompente che segna un’epoca e che ancora oggi passa di mano in mano. Lo sguardo attento di Elena Gianini Belotti è capace di mettere in luce quali sono i processi attraverso cui diventiamo quelle che siamo e di inventare strade nuove per scoprire diverse forme di vita e di liberazione.
Significativamente nel corso della sua produzione alterna saggi (Che razza di ragazza, 1979, Prima le donne e i bambini, 1980, Non di sola madre, 1983, Amore e pregiudizio. Il tabù dell’età nei rapporti sentimentali, 1988), la biografia di una maestra nell’Ottocento (Prima della quiete. Storia di Italia Donati, 2003) e romanzi (Il fiore dell’ibisco, 1985, Pimpì Oselì, 1995, Apri le porte all’alba, 1999, Pane amaro, 2006 e Onda lunga, 2013) in cui affronta temi diversi: dall’invecchiamento all’emigrazione, dalla storia ai legami con gli animali. Un mondo molteplice, reso coeso dalla costante ricerca di libertà dall’oppressione, “dolce o violenta che sia”. Carlotta Cossutta è autrice di un libro a lei dedicato e edito da Electa. L’abbiamo intervistata.

 


Elena Gianini Belotti oltre a essere ricordata per il suo libro Dalla parte delle bambine, un testo ormai divenuto classico, è stata un’attenta osservatrice dei rapporti tra donne. La prima doma da che ti faccio riguarda dunque il complesso e difficile rapporto di Elena con la madre.

Per tutta la storia del femminismo il rapporto con la madre, le madri, è stato un tema complesso: da un lato, infatti, spesso le madri sono coloro che educano alla cultura patriarcale e alla sottomissione, ma allo stesso tempo, dall’altro lato, sono coloro che la subiscono, con cui è fondamentale tessere legami di solidarietà e di fiducia. Un rapporto ambivalente, quindi, ben rappresentato anche da Belotti. Rosa, la madre di Elena, è una donna che lavora, una maestra che si trova a doversi spostare – coi figli ma senza marito – a Bergamo, per una legge fascista che impone alle insegnanti di lavorare dove si sono diplomate. Rosa ha avuto un’infanzia difficile e molto comune allo stesso: ha cominciato a lavorare in una filanda a partire dai 12 anni ed è potuta fuggire da questo sfruttamento solo grazie all’interessamento di un prete che le permise di studiare. Una durezza che riproduce nel comportamento verso i figli: severa, distante, anche violenta. Ma soprattutto si tratta di una madre che impedisce a sua figlia di inseguire il suo sogno – quello di studiare e scrivere – per indirizzarla all’avviamento professionale e a una vita da dattilografa. Elena scrive di sua madre nel romanzo Pimpì oselì, in cui ne racconta le durezze, ma ne riprende la figura anche in Prima della quiete che racconta la storia vera di Ilaria Donati, una maestra che all’indomani dell’unità d’Italia finisce per suicidarsi a causa delle persecuzioni degli abitanti del luogo in cui vive, incapaci di tollerare una donna indipendente che lavora: un modo, letterario, di rileggere anche la biografia di sua madre, mettendone in luce il ruolo di vittima che coesiste con quello di carnefice.

Belotti rifletterà sempre sul ruolo della madre e della maternità, in particolare di Non di sola madre, in cui mette in luce il lato oscuro della mistica del materno. Ma possiamo quasi dire che tutta la sua riflessione nasca dal suo rapporto con sua madre e dalle domande che le suscita: come possiamo educare bambine e bambini senza umiliazioni? Come possiamo costruire legami intergenerazionali più liberi? Come essere donne altrimenti? Tutte domande che ritornano nella sua produzione sia letteraria che saggistica e che si accompagnano alla costante capacità di Belotti di analizzare criticamente la società e i comportamenti, senza sconti, cercando però anche di mettere in luce i processi che portano le persone ad agire in un certo modo, i condizionamenti che tutte subiamo, per non dimenticare di trovare forme di alleanza, se è possibile, anche con le proprie madri.


Un’altra figura femminile importante nella vita di Elena Gianini Belotti è Maria Montessori, le cui opere le permettono  comprendere come si educano i bambini e le bambine senza umiliazioni, pensando a loro come persone i cui talenti vanno valorizzati. Puoi parlarmi di questo incontro?

L’incontro con il pensiero di Montessori avviene quasi per caso. Quando ha 21 anni, infatti, mentre lavora come dattilografa in un ufficio romano, legge su Il Messaggero una pubblicità della Scuola per assistenti all’infanzia Montessori. Le sembra quasi un segno del destino: lei voleva lasciare il lavoro, anche perché il suo capo l’aveva appena molestata, e vedere l’annuncio di una possibilità di lavorare nell’educazione le sembra fantastico. La Scuola era stata fondata nel 1947 da Adele Costa Gnocchi, allieva di Maria Montessori e fondamentale maestra di Belotti, che mirava a diffondere gli insegnamenti della sua maestra e a cambiare l’educazione infantile, soprattutto nei confronti dei neonati, attraverso la creazione di asili nido che non fossero concepiti solo come risposta ai bisogni delle madri lavoratrici, ma che diventassero spazi per lo sviluppo di bambine e bambini. L’obiettivo del metodo Montessori è quello di permettere che una bambina (o un bambino) possa orientare la propria volontà a un fine da lei scelto in maniera consapevole. Non si tratta, cioè, di disciplinare attraverso l’imposizione, ma di indirizzare lo sviluppo grazie al rapporto con se stesse e alla scoperta di sé, dei propri comportamenti e di ciò che ci sta intorno, a partire dall’idea del bambino e della bambina come di un essere completo, capace di creatività e di disposizioni morali, a cui l’educazione deve fornire una guida che lasci la libertà necessaria a sviluppare l’autonomia. Questo metodo sarà fondamentale per Belotti, per interrogare le possibilità di crescere liberamente e di dare spazio all’autonomia di bambine e bambini. E tutta la sua carriera professionale sarà all’interno della Scuola Montessori, prima come insegnante e poi – a soli 30 anni – come direttrice del Centro Nascita Montessori coniugava l’attenzione alla gravidanza con quella ai neonati, superando le distinzioni specialistiche in uno spazio di discussione, apprendimento e cura per gestanti, neomamme, neonati e neonati. Un luogo di incontro, che sottrae l’esperienza della gravidanza, della nascita, della cura e dell’educazione alla solitudine delle pareti domestiche e che intreccia discipline diverse per trovare i percorsi migliori per ogni situazione, consapevoli di non poter imporre un modello unico.

Altra lettura fondamentale è quella de Il secondo sesso di Simone de Beauvoir,  pubblicato nel 1949, in cui si sottolinea come la donna venga educata all’assenza di ribellione in nome di una illusoria felicità: “è così che si educa la donna, senza mai insegnarle la necessità di assumere essa stessa la propria esistenza; lei si lascia trascinare volentieri a contare sulla protezione, l’amore, l’aiuto, la direzione altrui”. Che conseguenze avrà questa lettura nel percorso di pensiero di Gianini Belotti?

La frase più nota di Simone de Beauvoir è sicuramente “donna non si nasce, donna si diventa”, che vuole indicare che non vi sia nulla di innato nell’essere donna, ma che tutto quello che attribuiamo al femminile sia il prodotto di una storia che è allo stesso tempo personale e globale.Una storia radicata nell’educazione privata di ciascuna di noi, ma anche nella mitologia, nella filosofia, nella biologia, nella letteratura, insomma, in tutta la cultura. Questo legame tra personale e politico sarà fondamentale per Belotti per mettere in discussione le norme sociali che regolano l’educazione e per poter osservare lo sviluppo di bambine e bambini cercando di mettere in luce quali siano in modelli che vengono loro proposti e gli argini che ricevono e per provare a proporre progetti educativi che mirino, invece, alla libertà. L’idea che forte che Belotti trova in Beauvoir (ma anche negli studi antropologici di Margaret Mead) è quella per cui i ruoli sessuali sono il prodotto della cultura più che della biologia e che non si configurano come un destino, ma come un prodotto storico. Proprio per questo è possibile pensare di modificarli, sovvertirli, metterli in discussione a partire dalla ricerca di una unicità radicale di ogni essere umano. E così Belotti si presenta come una figura peculiare nel femminismo italiano: scettica nei confronti dell’emancipazione, rispetto a cui preferisce parlare di liberazione, molto attenta alle questioni materiali che rendono le donne dipendenti e quindi sottomessa, ma anche alle dimensioni culturali che rendono quella sottomissione desiderabile, non rivendica mai una differenza femminile radicale, preferendo metterne in luce il carattere storico e situato, per capire quali aspetti di quella storia ognuna di noi vuole rivendicare e vivere. E in questa posizione risuona con forza l’appello di Simone de Beauvoir di pensare la battaglia delle donne in termini proprio di libertà

Perché hai scelto di intitolare il tuo libro “Dolce o violenta che sia”?

Come per tutti i testi della collana oilà, il titolo viene da una frase dell’autrice di cui si parla. In questo caso è un passaggio di Belotti proprio in Dalla parte delle bambine, che usa “dolce o violenta che sia” per definire la repressione che subiscono in primo luogo le bambine (ma anche in bambini). Si tratta per me di una frase centrale, che mostra come i condizionamenti e le repressioni non si nutrano solo di divieti, espliciti soprusi o forme evidenti di violenza (come impedire alle bambine di correre liberamente o obbligarle ad aiutare nei lavori domestici quando la stessa cosa non viene chiesta ai fratelli), ma si possano dare anche in forma di rinforzo, moina e, appunto, dolcezza (come nei numerosi complimenti rivolti alla bellezza – ma solo alla bellezza – delle bambine o gli elogi per essere più ordinate, o ancora l’incentivo a chiedere e ottenere cose attraverso la civetteria). Questa capacità di vedere la repressione anche dove sembra non esserci permette di mettere in luce le forme di condizionamento e di produzione di modi di vita non solo nell’infanzia, ma in ogni età. Per questo mi è sembrato importante dare valore alla lucidità di Belotti che ci invita a guardare ai nostri comportamenti chiedendoci a quali aspettative rispondano e non solo a quali divieti si conformino. Si tratta di un tema che Belotti riprende, anche in questo caso, in tutta la sua produzione, ma soprattutto in Prima le donne e i bambini, una frase che per lei rappresentava la sintesi di un codice morale che scambiava “oppressione” per protezione. In questo testo, in cui per la prima volta parla anche pubblicamente della fatica del rapporto con sua madre che era da poco morta, Belotti ancora una volta mette in luce le strutture oppressive della società, che vengono mascherate dalla dolce catena della protezione. La riflessione parte dalla passione dell’autrice per i libri di avventura, in cui, però, tutti i protagonisti sono maschi e la donna, quando compare, viene descritta come “bella, fragile, indifesa: stava a me scoprire e accettare i vantaggi di essere bella, fragile, indifesa”. Questa seduzione della fragilità è il contraltare della concezione che i corpi delle donne siano di proprietà degli uomini, tanto che, pensando alla sicurezza delle donne, sono sempre queste ultime ad essere sorvegliate e segregate, tanto da portare Belotti a chiedersi: “Perché a nessuno viene in mente di segregare i maschi in casa quali potenziali violentatori invece di impedire alle ragazze di uscire per timore che vengano violentate?”. Denuncia, qui, Belotti la tendenza a educare le ragazze ad essere protette e proteggersi come un’altra forma di autolimitazione, che si traveste da cura e da preoccupazione e che diventa, però, un’ulteriore catena, invisibile perché coperta di fiori.

Belotti denuncia nei suoi testi anche il fatto che i rapporti tra uomini giovani e donne molto più grandi, a differenza di ciò che accade per uomini più grandi delle loro compagne, vengano osteggiati come innaturali e patologici. Il modello che sottende questa discriminazione è quello, non esplicitato, secondo cui i rapporti senti- mentali devono mirare alla riproduzione e, quindi, una donna vicina alla menopausa o già in menopausa è inutile. Potrei chiederti di parlarmene?

Belotti affronta il tema dei rapporti tra uomini giovani e donne più grandi a partire, innanzitutto, dalla sua stessa esperienza, che le permette di guardare a queste relazioni sia con empatia che con una conoscenza molto diretta. Una conoscenza che si arricchisce di quella di molte altre donne (e qualche uomo), secondo un metodo fondamentale per Belotti: quello di ascoltare le esperienze altrui, di costruire il sapere a partire dalla dimensione dell’osservazione, del dialogo e della condivisione di esperienze. In questo caso, per affrontare questo tema, Belotti pubblica su “Noi donne” un annuncio per cercare donne che avessero relazioni con uomini più giovani e uomini che avessero relazioni con donne più vecchie e a partire dalle risposte che riceve scrive il testo Amore e pregiudizio, pubblicato nel 1988. In questo testo Belotti affronta quello che sembra un tabù in amore: la disparità di età tra donne e uomini, ma solo nel caso in cui l’uomo sia più giovane. Che questo stigma funzioni a senso unico (nessuno trova da ridire su un uomo che esce con una donna più giovane) per Belotti è il segno che i nostri rapporti sentimentali rispondono ancora a una logica per la quale la sessualità deve accompagnarsi proprio alla riproduzione e perciò gli uomini non hanno limiti di età da rispettare. Belotti sottolinea come uno degli attributi della virilità sia proprio la possibilità di essere fertili, tanto che “la prevalenza, almeno nel nostro paese mediterraneo, dell’uso del coito interrotto o del preservativo, ambedue metodi contraccettivi maschili, rispetto alla pillola, può voler dire che per molti uomini è tutt’ora importante l’idea di essere padroni di fecondare una donna, anche se poi si guardano bene dal farlo” e in questo senso pensare una relazione con una donna matura e già in menopausa significa rinunciare a questo tratto della propria maschilità. Si tratta una rinuncia che fa paura a molti e che quindi accettano di vedere una donna matura come ideale sessuale (Belotti non aveva questa parola, ma noi oggi diremmo MILF), quasi come una trasgressione, ma non come una campagna di vita. Ma non solo, Belotti mette in luce anche i pregiudizi della scienza, che insiste moltissimo sulla necessità per le donne di fare figli giovani, con ovuli giovani, ma che non presta la stessa attenzione e non produce lo stesso allarme sull’invecchiamento dello sperma: una diversità che rende evidente come anche la scienza non sia un terreno puramente oggettivo, ma sia condizionata dalla dimensione culturale e sociale in cui è immersa. E sicuramente la società vede l’invecchiamento femminile davvero come un tabù: non si parla mai della menopausa, in primo luogo, ma una donna vecchia viene stigmatizzata costantemente – sia se invecchia “troppo” sia se cerca di mantenersi giovane – o diventa invisibile. Pensiamo solo a come sono trattati diversamente i capelli brizzolati in uomini (affascinanti) e donne (befane). Si tratta di un tema su cui Belotti torna nel suo ultimo romanzo, Onda lunga del 2013, in cui racconta la storia di una donna anziana, che considera la sua età una risorsa più che un limite.
Inoltre, Belotti sottolinea come queste relazioni siano considerate innaturali anche perché costruiamo i rapporti eterosessuali sulla base dell’idea che l’uomo sia più esperto, spesso già indipendente economicamente e capace di “introdurre” la donna alla vita, mentre donne adulte sole che intrecciano relazioni con uomini giovani sono donne indipendenti, sia economicamente che simbolicamente, e questo sovverte i rapporti di potere impliciti nella coppia. Attraverso l’analisi di queste relazioni, così, Belotti è in grado di osservare tutta la società e la costruzione dell’amore come fondate sull’imperativo alla riproduzione (e all’eterosessualità) e sulla necessità di una disparità di potere nelle coppie, che si costruisce a partire proprio dai modelli di maschilità e femminilità.

Belotti nei suoi lavori letterari riconosce grande valore alle relazioni di amicizia, pratica sentimentale che può essere un esercizio di libertà rispetto a schemi oppressivi e patriarcali. Vorrei una tua opinione su questo.

Questo è uno degli aspetti che più mi affascina di Belotti: la sua capacità di mettere in discussione la centralità della coppia e dei legami sentimentali a scapito delle altre relazioni. Per Belotti mettere in discussione la coppia significa cercare di superare il possesso e l’ideale proprietario delle relazioni, fondando invece i rapporti sul riconoscimento della reciprocità e della necessità di un’autonomia personale che non viene vissuta come sottrazione. Certo, questo significa cambiare la concezione dell’amore, non subordinare, per esempio, la felicità alla durata e non vedere la fine non come fallimento, anche per non scambiare l’amore con la dipendenza. E questo è fondamentale per le donne, educate alla centralità dell’amore, che possono così scoprire di poter essere anche altro. In questo senso non si tratta di “rinunciare” alla coppia, ma di decentrarla, di renderla un rapporto tra altri rapporti, di riconoscere la molteplicità delle relazioni che possiamo coltivare e che rispondono a esigenze e desideri diversi. Mi sembra davvero un approccio fondamentale per mettere in discussione quella disparità di potere che citavo prima: l’amicizia, infatti, si basa sul riconoscimento di una parità, su una dimensione di uguaglianza e solidarietà che può permetterci di pensare le nostre relazioni fuori dagli schemi del possesso. Per Belotti, infatti, “la grave deformazione che sta alla base di tutti i rapporti affettivi è che l’affetto significa principalmente possesso di un essere investito di potere; su un altro che di potere non ne ha” e dovremmo disimparare questa forma di affetto per apprendere una modalità di relazione che si nutra della reciproca libertà. Inoltre, per lei l’amicizia femminile qui il perno fondamentale di un’esistenza che fa della solitudine non un limite, ma il punto di partenza per poter scegliere relazioni piene e soddisfacenti, basate sulla fiducia e non sul controllo. Perché tutto questo sia possibile, però, è necessario non dimenticare le condizioni materiali e garantire, quindi, anche un’autonomia economica alle donne, che non devono trovarsi costrette a “scegliere” la coppia come forma di sostentamento. Belotti, infatti, ci tiene a ricordarci sempre che i nostri modi di vivere sono anche il risultato delle nostre condizioni materiali e che per vivere diversamente dobbiamo ripensare la società intera. Per questo l’amicizia può indicarci una strada di un’autonomia relazionale, in cui siamo capaci e possiamo stare da sole (anche economicamente!) e a partire da questa condizione costruire legami non per forza eterni, ma sicuramente intensi. Una forma di relazione che scardina anche la centralità della coppia eterosessuale come fondamento della società e unica “famiglia” possibile.

Infine ti faccio una domanda più personale. Nel tuo saggio fa capolino l’importanza del tuo rapporto con tua madre, che da adolescente ti ha regalato Dalla parte delle bambine, e le tue esperienze all’interno di gruppi e collettivi di donne. Quanto è stato importante per te scrivere questo saggio?

Come scrivo nel saggio, Belotti per me è stata fondamentale per darmi delle parole per descrivere qualcosa che sentivo, contro cui inconsciamente mi ribellavo, ma che non sapevo nominare: la mia oppressione. È stato uno dei tasselli che ha costruito non soltanto il mio essere femminista, ma forse il mio stesso sguardo sul mondo e sulle relazioni. Per questo per me scrivere di lei è stato un po’ come tornare a casa, ma anche come intraprendere un viaggio nuovo: leggerla e rileggerla tutta insieme mi ha permesso di tracciare dei fili non soltanto nel suo pensiero, ma anche verso la contemporaneità. Credo, infatti, che la sua modalità di osservare le cose e le persone e di interrogare il quotidiano siano ancora fondamentali per riconoscere le forme dolci di dominio che subiamo e che agiamo. Per questo sono stata davvero felice di poter cercare un modo di renderla accessibile, sperando che possa servire, in modi imprevisti, anche ai cammini di libertà di altre.

 

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