Lettera aperta al mondo della poesia

di Giorgio Galli

Non sono un frequentatore abituale di reading ed eventi poetici, ma le ultime volte che ci sono andato ho provato uno strano disagio: un disagio che non dipendeva da nessuno dei presenti. Come vi fosse un sovraffollamento di parole, un’ipertrofia discorsiva, come se tante persone stessero parlando contemporaneamente in uno spazio angusto: un’asfissia, un ingolfamento del verbo e del pensiero.

Mi sono chiesto se dipendesse dal fatto che lo spazio riservato ai poeti oggi è veramente scarso. Ma no, questa considerazione non bastava a spiegare quel disagio. Poteva esserne una componente, nulla più.

Naturalmente, conosciamo tutti le “controindicazioni” del mondo della poesia: un numero esorbitante di autori, un presenzialismo talvolta esasperante, la pervasività delle logiche amicali, e una corsa alla recensione, uno scriversi addosso che, se si spiega coll’essere in tanti a cercare d’aver voce in un microcosmo in cui tutti si conoscono e molti, com’è normale, si detestano, non rende completamente ragione del fenomeno. È come se i poeti si sentissero schiacciati e alzassero la voce nel tentativo non di primeggiare, ma di non soffocare: come se fosse un fatto di sopravvivenza. Quando si discute con qualcuno molto più forte di noi, l’opzione più facile è interromperlo, parlare di più, parlare più forte.

Eppure da questa smania -legittima- d’affermarsi sortisce un chiacchiericcio incessante, un rumore di fondo da cui è quasi impossibile l’emergere di una voce. Anche questa, tuttavia, era una delle componenti del disagio, e non lo spiegava per intero.

In un articolo della scorsa estate, Giorgio Ghiotti argomentava che mai prima d’ora, forse, s’era dato un così ampio numero di poeti specializzzatissimi, che si occupano di poesia anche nel mondo accademico e che hanno strumenti più affilati della maggior parte dei colleghi delle vecchie generazioni: e che pure tutto ciò non si traduce in un poetare più fine e più sapiente, ma in un modo di far poesia quasi atletico, dove tutti gli strumenti vengono squadernati fino a trasformare la parola in una parola al quadrato e la poesia in metapoesia di se stessa -se non, infine, nell’impossibilità di se stessa.

Per contro, è facile reperire in rete una quantità d’articoli che affermano l’esatto contrario: che c’è poeti come se piovesse al giorno d’oggi, non sempre consapevoli degli strumenti della poesia, che scrivono poesia senza averne letta abbastanza. Se ne deduce che questa slavina di “scriventi poesia” travolga nel suo rutilare autori di formazione più che mai eterogenea, che la grande palla rotolante ingloba sia i naïf che gli eruditi -ed entrambi li annienta.

A rendere complicato il quadro c’è anche il divorzio tra poesia ed editoria verificatosi alla fine del secolo scorso. Con gli anni Ottanta e l’affermazione dei nuovi media, il numero dei lettori è crollato fino a ridursi quasi a zero; le case editrici devono puntare su successi sicuri perché un libro non è un bene per cui esista un test di mercato: è la pubblicazione stessa a far da test. Questo ha portato alla ricerca di prodotti sempre più standardizzati, possibilmente imitativi di prodotti già di successo, adatti a un pubblico che s’è allargato come composizione sociale ma che -vuoi per il maggior livello di stress della vita moderna, vuoi perché l’offerta crea la sua domanda- chiede prevalentemente materiale non impegnativo: intrattenimento e nulla più. Inoltre, se in passato vigeva una chiara suddivisione tra opere destinate all’intrattenimento e opere d’arte, oggi questa distinzione è in gran parte caduta, e il mondo antico della letteratura spesso insegue linguisticamente i nuovi media e il pop. Non c’è nessuna coincidenza tra la competenza letteraria e quella d’altri mondi artistici: nel 1954, per una persona colta, “la musica” era essenzialmente la musica classica e tutt’al più il jazz; oggi è frequente incontrare poeti e critici che conoscono ogni anfratto della poesia, ma che hanno i loro riferimenti musicali nel pop. Questo perché gli istituti di formazione sono orientati ormai più a fornire “competenze” che un’organica cultura critica, producendo livelli altissimi di specializzazione in un settore a discapito di tutti gli altri. Abbiamo sempre più intelligenze single-minded, o, come direbbe Edgard Morin, sempre più “teste piene” e meno “teste ben fatte”. Pochi spettacoli sono sconfortanti come quello di un intellettuale che, interrogato su temi di società e politica, si mette a ragionare come l’uomo della strada. A mio modo di vedere, l’intellettuale del secolo scorso non era certo infallibile, ma praticava un incessante esercizio del pensiero, abbinava la competenza specialistica al possesso di una visione e alla capacità di comunicarla. Ma la sua figura sembra sparita dall’orizzonte presente. Non è, semplicemente, più richiesta.

Sarebbe qualunquistico incolpare di ciò le nuove generazioni: bisogna individuare le ragioni di questo cambiamento e provare a capire se il mondo d’oggi ha ancora bisogno di figure la cui specialità stia nel pensare. Se è vero infatti che il mercato, ed anche il mercato culturale, ne fa volentieri a meno, è anche vero che più che mai parti del corpo sociale ne sentono la mancanza, che più che mai avvertiamo lo stridore della spaccatura tra il “sapere” e il senso critico, estetico ed etico.

Con questi pensieri in mente, sono tornato al mio disagio e mi sono ricordato un passo di Anna Maria Ortese, in Corpo celeste, che tratta del rapporto tra la malvagità e il frastuono. Per mettere l’essere umano di fronte a se stesso, bisogna far cessare tutti i suoni. Le dittature creano strepito, hanno bisogno di epica e lirismo perché, sotto l’incalzare di quell’epica e di quel lirismo, si possono compiere massacri azzerando il pensiero. Alla guerra si va sempre cantando, sempre suonando il tamburo. Il silenzio lascerebbe l’uomo nudo dinanzi alla realtà del male. Milan Kundera scrisse qualcosa di simile nei Testamenti traditi: se la Ortese aveva conosciuto il ferale lirismo della retorica nazifascista, Kundera era vissuto sotto l’esaltazione epica del realismo socialista. E l’aveva vista dilagare al di là dei confini del suo Paese. Cosa spingeva Aragon a inneggiare alla polizia segreta stalinista? Ed Eluard ad “accompagnare col suo canto”, scrive Kundera, la condanna a morte di alcuni dissidenti? Lo scrittore ceco ne fu più che sbigottito: ne fu traumatizzato, e la sua scelta di diventare romanziere fu anche una scelta politica: la scelta di una posizione critica, antilirica e antiepica.

La nostra epoca si contraddistingue per la curiosa convivenza tra un comportamento sociale improntato ai rapporti di forza e un discorso sociale improntato all’eufemismo del politically correct. Il divorzio tra parola e realtà non poteva essere più brutale. Ne è scaturita una nevrosi profonda, un radicalizzarsi negli opposti estremismi della violenza e dell’edulcorazione, dove la realtà rimane al centro immobile, irrelata, impossibilitata a trasformarsi, a realizzare quei veri progressi culturali, sociali e civili di cui ci sarebbe bisogno.

Ho pensato a quanto tutto è fragoroso in questo torno d’anni, dai toni della politica a quelli della comunicazione, fino al volume della musica. In questo fracasso, si può essere più crudeli che mai. Eppure le ultime generazioni, compresa la mia, sono quelle che parlano più a bassa voce, nel modo più timido e impacciato. La parola, che esprime cuore e ragione, è balbuziente, e invece l’insulto, l’urlo e l’odio sono fortissimi. Non è difficile rintracciare l’origine di quell’urlo e quell’odio proprio nel divorzio tra discorso e realtà, tra la parola condivisa e la realtà esperita. La retorica della civiltà dei consumi è arrivata a un tale grado di mistificazione che, mentre la realtà è scivolata da almeno quindici anni nel buco nero della crisi, l’immaginario è rimasto fermo ai tempi della prosperità, anzi ne restituisce una rappresentazione sempre più grassa e volgare: il risultato è d’istigare continua frustrazione in chi subisce ventiquattr’ore al giorno l’esaltazione di uno status sociale ed economico che non sarà mai il suo. Era naturale che ciò sfociasse in nevrosi e tensioni, in un clima di violenza diffusa, in una qualità scadente dei rapporti umani, fatti di diffidenza, violenza e odio, ma nascosti -ed ecco ripresentarsi la spaccatura tra discorso e realtà- sotto la patina di un’affettività debordante, degli amore/tesoro svuotati d’ogni senso emotivo e scambiati in ufficio tra colleghi che si detestano. Un immaginario fatto di opulenza e brillantina, avulso dal reale, che genera una nevrosi di cui nessuno si vuole occupare. Una nevrosi che rischia di trasformarsi in una necrosi.

Ed ecco da dove nasce il mio disagio. Con queste riflessioni, sono tornato al mondo dei poeti -un mondo allo sbando per la mancanza di riferimenti intellettuali ed editoriali, per l’assenza di maestri tanto quanto per il soffocante eccesso di maestri. Ma forse allo sbando anche per un motivo più profondo. Forse, in un tempo come questo, la cosa di cui abbiamo bisogno è di fare silenzio. Non ci ha insegnato questo Szymborska in quella bellissima poesia sull’11 settembre, che conclude: “Solo due cose posso fare per loro [le vittime della strage] / descrivere quel volo / e non aggiungere l’ultima frase”? Il mondo sorto l’11 settembre non è più comprensibile con gli strumenti della poesia e con quelli della ragione umanistica. Szymborska era nata nel 1923. Ma quali sono state le ultime parole di un suo quasi coetaneo, Federico Fellini, classe 1920? Nell’ultima scena de La voce della luna, il personaggio interpretato da Benigni sussurra: “Eppure se facessimo un po’ più di silenzio, se tutti facessero un po’ più di silenzio, forse si capirebbe di più”. Quella generazione, che aveva ricostruito il mondo dopo la guerra, di fronte alla direzione presa dal mondo ricostruito ha detto: fermiamoci tutti, facciamo silenzio, cerchiamo di rimettere la bussola a nord. Ecco di cosa avverto l’esigenza in questo assurdo ventennio del nuovo secolo: di tacere e capire, di smorzare un po’ il canto -e del tutto la frenesia e l’urlo- e di attivare la coscienza critica. Per questo il mio disagio agli eventi di poesia non era dovuto a nessuno dei presenti: perché ci siamo dentro tutti. Forse bisogna raccogliere l’estremo invito dei nostri più prossimi antenati e fare un po’ più di silenzio. In fondo, se Szymborska non se l’è sentita di aggiungere quell’ultima frase, siamo sicuri di volerla per forza scrivere?

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