“Intervista con un matto”: in dialogo con Guendalina Middei

a cura di Giorgio Galli

Intervista con un matto di Guendalina Middei (Navarra, 2023) è un romanzo affascinante e intenso, che intreccia senza soluzione di continuità un’intervista del 2010 a fatti di quindici anni prima, ricostruiti attraverso analessi “parziali” in cui il limite tra ricordo e immaginazione è sempre precario. Soprattutto, è una requisitoria contro la “vita normale” e le sue istituzioni. L’autrice fa accadere poco o nulla davanti al lettore, elude le svolte della trama nel momento in cui accadono per riproporle più avanti, a sorpresa, non come fatti ma come problemi. Discussioni reali e immaginarie scorticano il “buon senso” e lo rivelano come un nonsenso. Il lettore, come il protagonista, è condannato a “sentire troppo” per tutta la durata del romanzo, e il dolore, la morte, temi immensi come l’eutanasia e il suicidio, tutto ciò che la “normalità” ricusa ritorna a galla nelle 248 pagine del libro. Ma -e qui sta il colpo d’ala- questi temi non si presentano in una cornice di rifiuto alla vita, ma al contrario come atti di vita, di una brutale e nuda vitalità.

Guendalina Middei è giovanissima, è nata nel 1992, e ha al suo attivo già un altro romanzo –Clodio, pubblicato sempre da Navarra e dedicato alla figura del grande tribuno romano- oltre a diversi articoli di divulgazione letteraria e culturale, molti dei quali scritti sotto pseudonimo. A scopo di divulgazione gestisce anche una pagina Facebook chiamata “Professor X”. è laureata in Storia ed ha, evidentemente, una profonda passione letteraria.

Cara Guendalina, la seconda parte del tuo romanzo è ambientata in quello che sembrerebbe un OPG, un ospedale psichiatrico giudiziario, dove il protagonista sta scontando la sua pena per un reato che lasceremo scoprire ai lettori. Tu hai fatto un lavoro di ricerca sugli istituti psichiatrici, e ne hai scritto sulle tue pagine social. Ma la cosa più sorprendente è che riferisci di essere stata tu stessa “ospite” di una clinica psichiatrica a vent’anni a causa di una diagnosi sbagliata. La prima cosa che vorrei chiederti è come mai hai scelto di dedicarti a un tema su cui avevi vissuto un’esperienza così difficile e se, scrivendo, te ne sei in qualche modo liberata. La seconda è meno personale: quali difficoltà hai riscontrato nella tua indagine?, su quali aspetti il personale sanitario si è dimostrato più collaborativo o, al contrario, ha avuto delle reazioni di chiusura?

Proprio perché è capitato a me in prima persona ho voluto scriverne. Ho sentito il bisogno, l’urgenza di farlo. Ho voluto dar voce al senso di impotenza che si prova quando ti privano della libertà, della credibilità, della ragione perfino. In certe strutture ancora oggi somministrano ai «pazienti» un cocktail talmente potente di farmaci da annientare del tutto quello che chiamiamo «coscienza». I primi giorni del mio ricovero non fui in grado di parlare, di pensare, di riconoscere i miei genitori, di trattenere la saliva nella bocca… E la chiamarono «cura». E questo non è accaduto nel 1930, quando si riteneva che la lobotomia fosse un metodo utile per trattare i pazienti psichiatrici, non è accaduto nel 1960 quando l’elettroshock era una «pratica terapeutica» condivisa quasi all’unanimità, ma è accaduto a me, nel 2015, a causa di una diagnosi sbagliata. In tanti oggi credono che grazie alla legge Basaglia gli orrori di un certo tipo di psichiatria appartengano a un lontano passato. Ma quando ti impongono dei trattamenti coercitivi contro la tua volontà, quando ti legano al letto e ti annullano la ragione con dosi talmente elevate di farmaci, tali da stordire un elefante, quando sei lì in un luogo in cui nessuno ti ascolta, un luogo che riconosce il tuo corpo ma non la tua voce, il tuo sintomo ma non la tua anima, quello per me si chiama manicomio.

Voglio precisare comunque che Intervista con un matto non è un romanzo autobiografico. Io sono partita dalle mia esperienza, dai miei ricordi, da ciò che ho vissuto e dalle testimonianze che ho raccolto nel corso degli anni per scrivere un romanzo dove il mio protagonista è un uomo rinchiuso da quindici anni in un OPG (ospedale psichiatrico giudiziario). E voglio ricordare che gli OPG furono chiusi soltanto nel 2014 in seguito a un’inchiesta del Parlamento, oltre trent’anni dopo la famosa legge Basaglia. Intervista con un matto non è nato soltanto da un intento artistico: è anche un grido, una protesta e al tempo stesso una denuncia che lancio contro questo tipo di sistema. Prima di scriverlo ho svolto delle ricerche: ho intervistato ex pazienti, infermieri, perfino psichiatri. Ho ascoltato storie simili alla mia e storie di di gran lunga peggiori. Ho trovato alle volte personale collaborativo, alle volte ostile. Molto dipese dalla scuola di pensiero a cui appartenevano, perché la psichiatria non è una realtà monolitica ma è fatta di tante diverse correnti di pensiero, spesso l’una in contrapposizione all’altra.

Foucault non faceva mistero di ritenere la psichiatria un’istituzione solo apparentemente benefica e in realtà volta alla conservazione dello status quo attraverso l’allontanamento dei “diversi” dal corpo sociale. Tu ti ritrovi in questa posizione? E che idea ti sei fatta della psichiatria contemporanea, che sicuramente non è la stessa dei tempi di Foucault? Quali progressi ci sono stati, e cosa c’è ancora da fare?

Sicuramente c’è un aspetto sociale, o più precisamente di controllo sociale che è stato connesso alla psichiatria. Giorgio Antonucci, che diresse a partire dagli anni 70 il manicomio di Imola, definì la psichiatria uno «strumento di controllo». Per secoli ha svolto anche questa funzione. Il fascismo si servì del ricovero coatto come arma politica, nella Russia di Stalin il meccanismo fu lo stesso: il poeta Iosif Brodskij venne internato per ragioni politiche, lo stesso accadde a Aleksandr Esenin-Vol’pin, allo scrittore Viktor Rafal’skij, e a molti altri. Ma al di là delle ragioni politiche, era sufficiente contravvenire all’«ordine morale» per essere liquidati come pazzi. Ad esempio, fino a poco tempo, fa l’omosessualità era considerata una «malattia», ed era classificata nel famoso DMS come un vero e proprio disturbo mentale. Donne che avevano relazioni clandestine o che si ribellavano all’autorità e perfino alla violenza dei mariti potevano essere facilmente dichiarate pazze. Naturalmente oggi le cose sono molto diverse, non si subisce più un TSO, almeno in Italia, per ragioni politiche o perché si è omosessuali. Ma quando vengono formulate definizioni di «normalità», di «norma», ci si muove su un terreno accidentato, perché l’idea di «normalità», di «comportamento socialmente accettabile» varia a seconda delle epoche, delle culture, del tipo di società a cui si appartiene e che per determinate ragioni (spesso utilitaristiche ed economiche) arriva a privilegiare un certo tipo di canone comportamentale a scapito di un altro. Un novello San Francesco oggi verrebbe considerato da tutti un «matto» ma nel XII secolo fondò un ordine religioso e divenne un modello di santità per milioni di persone. Addirittura Socrate, il padre della filosofia occidentale, venne definito nella Storia della psichiatria di Zilboorg un «infermo di mente» per via di quella sua famosa voce interiore. Eppure sfido a trovare nella cultura occidentale un uomo che esercitò un’influenza più durevole e profonda di Socrate… ma se Socrate fosse vissuto nell’epoca di Zilboorg probabilmente sarebbe stato preso per pazzo. Il tentativo di comprendere cosa sia questa benedetta «normalità» ha guidato la mia scrittura ed è alla base della mio Intervista con un matto. Io dal canto mio spero che la psichiatria odierna possa tornare ad interrogarsi su questa questione, etica e filosofica, ancora prima che medica.

Tu fai divulgazione culturale, quindi hai assegnato a te stessa un ruolo educativo. Eppure il tuo romanzo è lontanissimo dalla tendenza odierna a realizzare libri di narrativa che servano all’edificazione del lettore, che contengano messaggi moralizzanti o abbiano contenuti socialmente utili. Tu fai compiere ai tuoi personaggi scelte che sicuramente vanno contro la morale comune. Posto che un’opera letteraria deve funzionare innanzitutto su un piano formale e non deve essere per forza “socialmente utile” -se non nel senso che può contribuire a rendere più profonda e aperta la nostra visione del mondo e a orientare diversamente i nostri atteggiamenti e giudizi- mi sono fatto l’idea che per te la più nobile forma di educazione è il dibattito aperto e libero, che non offra soluzioni ma susciti un approccio non univoco ai problemi.

Detesto un certo tipo di narrativa che oggi va per la maggiore, che vuole essere a tutti i costi edificante e che alla fine arriva ad edulcorare idee, situazioni, tensioni morali, appiattendo lo spessore psicologico dei personaggi che devono, in quanto eroi positivi, compiere soltanto azioni eroiche e positive. Questi romanzi in genere ti scodellano delle verità ovvie del tipo «l’amicizia è un dono», «l’amore trionfa su tutto», «la vita è bella ma fa male». I buoni sono buoni, i cattivi cattivi, non si pongono il problema, per non complicare le cose al lettore, di mostrarti che i «buoni» hanno momenti di meschinità, e i cattivi momenti di eroismo, che anzi è impossibile dividere il mondo in buoni e cattivi, eroi e antieroi. Ma la letteratura, almeno per me, non dovrebbe avere intenti morali. Io nel mio scrivere rivendico la libertà di emanciparmi da questa concezione moralizzante. E cerco di confrontarmi con idee che mettono in discussione il mio modo di pensare, che mi fanno sentire braccata o nascono da quelle zone del mio inconscio che sono in conflitto con la mia parte razionale. Credo che questo mio modo di essere si rifletta nella mia scrittura. Nei miei libri lascio che i personaggi dialoghino tra loro in modo dialettico e che esprimano la propria visione del mondo.

Il protagonista di Intervista con un matto e il suo psichiatra, il dottor Longhi, si scontrano continuamente sul concetto di follia, sicurezza, libertà, libero arbitrio. Ad esempio si domandano: è giusto privare un paziente, anche se definito instabile mentalmente, del suo libero arbitrio, della possibilità di scegliere? Chi definisce qual è la normalità? Quali emozioni, quali reazioni è giusto provare e quali pensieri è socialmente accettabile avere? Queste sono le domande che costituiscono il campo di battaglia su cui si muovono. E alla fine per me non conta tanto trovare la risposta a un problema, ma «esporlo», sviscerarlo, presentarlo da tutte le angolazioni possibili, perché non è importante ciò che penso io ma ciò che pensano i miei personaggi e le domande che alla fine si faranno i lettori.

Nel romanzo fai spesso ricorso allo straniamento, una tecnica molto usata da Tolstoij, non solo nei romanzi ma forse soprattutto negli scritti a vocazione umanitaria. Fai cioè vedere cose che si conoscono bene come se fossero viste per la prima volta, come se fossero nuove e diverse. Mi ha colpito un passo in cui l’apparizione di un’ambulanza viene rinviata, e tu descrivi il colore e la forma dell’ambulanza ma solo più avanti la nomini. È una tua scelta consapevole o corrisponde a un tuo modo nativo di approcciare il mondo? E quali sono le letture che non dico ti hanno influenzato, ma hanno contribuito a formare la tua scrittura e la tua visione delle cose?

Io ho sempre cercato il realismo nella scrittura, un realismo che doveva tradursi in un modo di percepire, vedere, sentire che rispecchiasse lo stato psichico del mio protagonista. Narrare la storia di un uomo in perenne bilico tra normalità e follia per me ha significato immaginare e percepire il mondo attraverso i suoi occhi. Questo si è tradotto in una scelta stilistica ben precisa. Il mio personaggio ha un mondo interiore tanto ricco e intenso che fatica ad orientarsi nel mondo concreto, tangibile; gli oggetti lo assalgono all’improvviso, le forme si confondono; quando di colpo guarda il cielo, una sedia o un mobile in un certo senso è davvero come se li vedesse per la prima volta. E per me era importante mostrarlo ai lettori, far sì che il modo di vedere del personaggio coincidesse con il mio modo di raccontare la sua storia. Riguardo alle letture che hanno plasmato il mio scrivere e la mia idea di letteratura… io sono cresciuta a pane e letteratura russa. I classici russi sono sempre stati per me una fonte di grande ispirazione, perché nella letteratura russa vi è questa idea qua, che io ho fatto mia, di scrittura come momento di introspezione, di indagine della psiche, del sottosuolo dell’anima. Tra i libri che hanno maggiormente ispirato la stesura di Intervista con un matto vi è La corsia n. 6 di Cechov e Delitto e castigo, perché anche il mio personaggio è abitato dalla stessa tensione morale che agita Raskolnikov. Un altro libro che mi ha influenzata è stato La difesa di Luzin di Nabokov; il Luzin di Nabokov è un monomaniaco ossessionato degli scacchi, così come il mio protagonista è dominato da un’ossessione viscerale per la musica. Ma anche scrittori come Bernhard, Zweig e Marai hanno tanto influenzato il mio scrivere.

Carmelo Bene diceva che la diffusione della cultura su Internet porta, per paradosso, a un a maggiore ignoranza, proprio come la liberazione sessuale ha portato alla morte del desiderio e quindi dell’eros. Da scrittrice ed anche da divulgatrice, tu cosa ne pensi?

Per me il problema non è Internet, ma quella che io chiamo una «proletarizzazione della cultura» che anziché elevare le masse, ha snaturato se stessa per essere più facilmente vendibile e smerciabiabile. Il libro ha cessato di essere libro per diventare in tutti i sensi un «prodotto». Un prodotto che affinché possa e sappia vendere tanto, deve possedere determinate caratteristiche che non hanno nulla a che vedere con il valore dei suoi contenuti o qualsiasi altra considerazione stilistica.

La cultura invece è sempre stata elitaria, elitaria non perché era o doveva essere appannaggio delle classi ricche, un piacere che potevano assaporare soltanto gli aristocratici, ma perché prima di schiudere i suoi dolcissimi frutti chiedeva dedizione, passione, uno sforzo mentale e morale che non tutti erano disposti a fare. Quando chiediamo ai nostri libri di essere facili, immediati, di essere cioè un prodotto di puro intrattenimento, ci poniamo in una dimensione che è appunto l’esatto opposto della «cultura», che non è mai stata semplice e immediata, ma problematica, controversa, spinosa. Dolorosa perfino. Quando Kafka diceva che cercava nelle sue letture soltanto quei libri che fossero per lui come un’ascia, che lo ferissero, parlava di una letteratura, di un modo di intendere la cultura che oggi abbiamo perso, temo.

Infine una domanda un po’ intima, forse, a cui puoi non rispondermi: ti senti spesso sola a causa delle tue passioni e dello spirito con cui le porti avanti? Io sì, moltissimo.

Non parlerei di solitudine fisica perché sono abituata, per via del mio lavoro, a trascorrere mesi in completa solitudine, in una sorta di eremitaggio volontario, per dedicarmi interamente alla scrittura. Ma di solitudine interiore… perché fatico a rispecchiarmi e a ritrovarmi in questo mondo che ha fatto della superficialità un vanto e del conformismo una moda. Sono consapevole anche che in un simile società il ruolo dello scrittore è sempre più marginale. Le idee, le arti in generale non hanno più posto in una società che ha sicuramente trovato nuovi canali (i media, ma anche in positivo il cinema) da cui trarre quelle risposte che in passato si cercavano nei libri. Alle volte mi sento davvero come Don Chisciotte, folle a tal punto da combattere contro i mulini a vento. Eppure vado avanti, con una sorta di disperata e febbrile ostinazione. E come scrittrice mi rivolgo agli altri che come me per temperamento, passione o indole faticano a ritrovarsi in questi «tempi moderni» e hanno fame di cose diverse.

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Da Intervista con un matto

«Dei primi giorni in ospedale non ho nessun ricordo. In seguito, ho tentato di recuperare la memoria, ma era uno sforzo inutile, assolutamente inutile come tentare di trattenere una manciata d’acqua nel palmo della mano». Mosse la mano per mimare quel gesto. «Sapevo che mi avevano somministrato dei farmaci, e continuai ad assumere farmaci per tutta la durata o quasi della mia permanenza in ospedale, ma ho un vuoto di sessantaquattro ore. In quel lasso di tempo era come se fossi vissuto tutte quelle ore, senza esserci…». S’interruppe e scosse la testa con impazienza, come se quella descrizione lo avesse urtato. «Immagini un orologio, le lancette ticchettano con precisione, ma il quadrante è vuoto, riflette il nulla».

L’uomo rabbrividì, ma il malato non sembrò notarlo.

«Mi tormentavano quelle sessantaquattro ore di incoscienza. Le botte le avrei volentieri dimenticate e anche il panico di quella lunga notte in cella, ma quelle sessantaquattro ore d’incoscienza mi ossessionavano. In quelle sessantaquattro ore il mio corpo aveva mangiato, respirato, si era mosso perfino… e il tutto era avvenuto in modo indipendente dalla mia volontà. Tutto ciò che poteva essere definito umano, pensiero, ragione, sentimento, memoria, era stato spazzato via, cancellato in un istante, come se per annientare una vita, bastasse premere un semplice interruttore. E se oggi ci ripenso, ammetto che non c’è nulla di sconvolgente in tutto questo, accade di continuo: uno stato di coma o una semplice anestesia hanno in effetti questo potere. Ma che fosse stato fatto a me, volontariamente. o più precisamente in modo del tutto estraneo alla mia volontà, questo non potevo accettarlo».

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