Elga (parte seconda)

di Cristi Marcì

Sono trascorsi undici anni da quel terribile periodo della mia vita e per quanto il sesso abbia rappresentato una valvola di sfogo e di necessaria protezione durante il mio soggiorno in quell’inferno, una volta uscita da lì non sono mai più riuscita a praticarlo. Tantomeno a conoscerlo più da vicino, a cogliere in quei movimenti l’equivalenza di un amore e di una dolcezza che dovrebbero contraddistinguerlo.

Tuttora, ogni volta che una persona si avvicina, specie se un ragazzo, provo un senso di repulsione e di nausea istantanea, che immediatamente mi fanno prendere le distanze da tutto e da tutti, invitandomi alla massima cautela e a montare la guardia.

Stasera però è tutto diverso perché a ventun anni fatico ad accettare l’idea malsana che una persona stia piano piano riuscendo a farsi strada dentro di me. Entrando a far parte della mia vita e delle mie giornate.

Non sa niente del mio passato, non deve e non voglio. Non sono più disposta a giocare.

Si chiama C… e prima ancora che i miei pensieri dessero vita a tutto questo monologo, siamo usciti insieme, invitata lui e non ho idea cosa veda di così speciale in me.

Mentre fumavamo una sigaretta preceduta da un panino alla senape, ha scrutato con occhi curiosi e al contempo attenti la benda di garza che porto al polso sinistro. Non credo gli ci sia voluto tanto per capirne il motivo, ma non ha fatto domande e questo mi ha rincuorata. Perché le lamette che ho debitamente tenuto nascoste nel mio comodino, mi hanno sempre restituito una percezione diversa di tutto lo schifo che mi porto dentro da ormai troppo tempo. Sono sempre state capaci di zittire quelle credenze e quei pensieri che come di consueto fanno capolino dagli abissi del mio passato, riportandomi a una realtà con la quale faccio sempre più fatica a sintonizzarmi.

Distesa sul mio letto le mie paure si fanno più insistenti che mai e reclamano quei denti metallici che non aspettano altro che assaggiare la mia pelle. Ma io non voglio più averci a che fare con questo strano oggetto, non voglio che continui a mordermi, anche se sento in cuor mio il sincero richiamo della sua protezione nei confronti di quest’altro oggetto esterno. Di quest’altra creatura.

La stessa che stasera, per quanto mi costi fatica ammetterlo, mi ha fatta davvero stare bene.

E io proprio di questo ho paura, di stare bene. Perché una volta che ti abitui al marciume che abita al tuo interno, fatichi ad accogliere qualcosa di diverso. Tanto sai già come va a finire. Anzi vuoi che vada a finire in quella maniera, in modo tale che il tuo merdoso copione non debba per forza cambiare.

Nel mentre che dialogo con questi mostri che ho nella testa, sento qualcuno bussare alla porta della mia camera.

“Elga, tesoro sei lì?”

“Si mamma”

Lei, come sempre, c’è sempre e c’è sempre stata.

Si chiama Olivia, ha quaranta anni e un sorriso che quando ho incrociato per la prima volta in orfanotrofio, il giorno in cui è venuta a prendermi assieme al mio attuale padre adottivo, mi ha provocato un cortocircuito. Una scossa di cui non conoscevo la provenienza.

La faccio entrare.

Le prime volte che ero in questa casa mi chiudevo sempre a chiave, con la costante paura che il mio spazio potesse ancora una volta essere violentato.

Un giorno capitò perfino di essermi letteralmente barricata dentro le mura della cameretta e di catturare con l’orecchio il movimento dei loro passi sino a che non scomparirono del tutto.

Si erano seduti con la schiena appoggiata alla porta. Eravamo tre vite separate da una linea sottile che voleva soltanto connetterci. Ho impiegato un po’ a capirlo, ma loro mi hanno saputo aspettare. Quella volta ad esempio senza dire nulla fecero scivolare da sotto la soglia della porta che ci divideva, un foglio con raffigurato il disegno di due farfalle bianche che volavano all’unisono una accanto all’altra.

Non so come facessero a sapere che era il mio animale preferito, fatto sta che durante gli anni in istituto avevo scoperto in biblioteca, se tale poteva definirsi, un’enciclopedia di entomologia. Per me non erano semplici insetti, ma al contrario una benedizione che ogni tanto, dopo quei momenti trascorsi con Yussef, si posavano sulla finestra del bagno. E nonostante l’ora tarda della notte erano in grado di portarmi altrove. Di accendere una nuova luce.

In quel disegno erano libere, custodivano una purezza che dentro il mio corpo era ancora ferma ad uno stadio larvale; primitivo.

“Come sta la mia entomologa?”

“Ha paura. È andata troppo bene per essere vero”.

“Lo so tesoro” mi dice prendendomi le mani e iniziando a fare disegni immaginari sui palmi.

“L’amore è un dono e tu sei degna di tutto quello che ti è stato dato, dopo che sei venuta a vivere da noi. Io e tuo padre sappiamo quanto hai sofferto in tutti questi anni, ma siamo consapevoli di quanta strada abbia ancora da fare. E sul tuo cammino si sta presentando l’opportunità di conoscere un’altra persona”.

“Ho paura che ogni volta inizi ad esigere sempre di più. Che legga e comprenda la mia fragilità e la utilizzi a suo piacimento, esattamente come faceva Yussef”.

Tu però non molli la presa, perché sai che è un momento in cui i miei pensieri rischiano di prendere il sopravvento, di distruggere tutto. Di dar vita a una nuova violenza.

“Le farfalle impiegano tanto tempo se non addirittura anni, prima di volare non è vero?” mi domandi con fare interrogativo

“Si mamma e questo che c’entra? Se dovesse scoprire tutto lo schifo che ho qui dentro?” ti chiedo indicando testa e stomaco.

“Diresti mai che il tuo insetto preferito era brutto, orripilante e da schivare a tutti i costi?”

A questo non ci avevo pensato, dico tra me e me, ma non posso permettermi di darti la soddisfazione di essere d’accordo con quanto mi hai appena rivelato. Ma un guizzo ai lati delle labbra tradisce la mia serietà e la solennità di questo momento.

Facendomi esplodere in un pianto liberatorio e al contempo depurativo.

Sento le tue morbide braccia cingermi il collo, le tue mani stendersi sul viso, le tue dita bagnarsi delle mie lacrime.

La tua protezione è il dono più raro che potessi mai desiderare.

Ingenuamente inizio a chiederti scusa per tutto, per la sofferenza che sento di aver recato e te e papà, per tutte quelle volte in cui i tuoi rasoi hanno addentato la mia carne anziché scivolare sulla tua morbidezza materna.

Scusa!!

Scusa!!

Scusa!!

Ti ripeto piangendo a dirotto come un rubinetto.

Ma tu non molli la presa.

Sei qui con me.

Per me.

E come la prima volta che ci siamo conosciute, il sapore delle nostre lacrime ha un retrogusto diverso. Non più di sconfitta, ma al contrario di un qualcosa di cui sappiamo entrambe possiamo iniziare a fidarci.

Nel mentre che smetto piano piano di versare la mia essenza su di te, le tue dita sembrano tergicristalli pronti a rimuovere le ultime gocce di queste sostane trasparenti.

E subito la tua immagine diventa più nitida e meno sfocata ai miei occhi.

Ci guardiamo.

Il silenzio ci avvolge a quell’ora tarda della notte.

Fuori mi pare perfino di cogliere il movimento di una farfalla bianca.

Tu non te ne accorgi ma io sì.

Poi come di incanto, cala un nuovo sipario e il tuo sorriso si apre.

Mi rivela un mondo fatto di semplici parole…

“Sei pronta a volare Elga”

*

Cristi Marcì è uno psicologo e appassionato di lettura. Accusato ingiustamente di abitare tra le nuvole, i suoi sogni lo lo guidano alla ricerca costante di parole nuove da mettere per iscritto.

(L’immagine di copertina è di Balthus)

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