Militanza civile e militanza letteraria. Intervista a Vincenzo Muscarella

di Michele Burgio

Leggendo i romanzi di Vincenzo Muscarella, mi ero fatto l’idea di un tipo che se ne stesse sulle sue e che non avrei agganciato facilmente. Non so perché. Forse per lo stacco generazionale di quasi quarant’anni, forse per via di uno stile narrativo disteso, piano, ma anche distaccato, non incline alla facile ironia. Per questo gli feci arrivare un breve messaggio di apprezzamento attraverso il giornalista Camillo Scaduto, che me ne aveva consigliato la lettura. Adesso che tra me ed Enzo è nata una fresca amicizia, riconosco in lui un uomo che ride con gli occhi ancor prima di aprirsi in un sorriso franco, e sono dell’idea che prospettiva e realtà in fondo non erano in contraddizione: Muscarella è uno scrittore incisivo della nostra contemporaneità e al contempo un uomo dei tempi trascorsi, forse è anche per questo che lo apprezzo così tanto.

Dopo l’esordio con Damiana (2017), è stato il turno di Maruzza (2020) e, adesso di Marietta (2023). Se Damiana racconta di una storia recente di violenza e di sopraffazione, gli ultimi due titoli pubblicati fanno parte della trilogia Tri matri, idealmente dedicata a tre donne cerdesi che il 25 marzo del 1911 piansero le loro figlie arse vive nell’incendio della Triangle Shirtwaist Factory di New York.

Non è necessario attendere Antunina, il terzo romanzo, per affermare che Muscarella goda di uno dei migliori pregi che la natura possa donare a uno scrittore: non è mai banale, non indulge a nessun compromesso al ribasso con il lettore, eppure non annoia mai. E sì che i suoi romanzi sono sempre più lunghi, in una sfida che è un (involontario?) crescendo. Il mio stupore di lettore sta proprio lì, nel trovarmi tra le mani un mattone sempre più difficile da maneggiare, e nello sperare che non finisca mai, che la cosmogonia della sua Villaura possa sempre autorigenerarsi. Questa qualità, rarissima soprattutto tra gli autori nostrani, ne fa una sorta di americano madonita.

A questo punto mi viene spontaneo chiederti: quali sono stati gli elementi del tuo apprendistato letterario? Cosa hai letto? Cosa leggi?

L’unico libro che ricordo nel modesto e misero monovano dove viveva la mia famiglia contadina, era un libretto di chiesa, avuto chissà come, in cui mia madre tra le pagine soleva conservare quelle sempre poche carte di cinque e diecimila lire che nascondeva tra le lenzuola della dote riposta ntò baullu; non lo lessi mai. Il primo che potei sfogliare fu di certo l’abbecedario della prima elementare e a seguire i libri di lettura e i sussidiari, spesso quelli riciclati dei miei cugini un anno più avanti negli studi. Per la dannazione di mia madre non leggevo tanto alla sua vista, preferivo i giochi di strada, mi limitavo all’essenziale, ma fu la scoperta dei giornaletti (Capitan Mike, Bleck, Topolino…) e delle riviste illustrate nelle panche dei barbieri a suscitarmi il piacere e la curiosità della lettura. Non c’era pezzo di carta scritta che mi passasse dalle mani che non fosse degno della mia attenzione. Nelle sere in cui il locale cinema non proiettasse o nessuno dei televisori accessibili fosse acceso, la visita alla biblioteca comunale era quasi d’obbligo. Ricordo qualche pagina del Conte di Montecristo, dei Tre Moschettieri, qualche fascicolo de I Beati Paoli, tutti regolarmente scroccati, non c’erano soldi per comprarli.

Con la scuola media, e di questo devo ringraziare il maestro della quinta che parlò con mia nonna per cercare di convincere mio padre a farmi continuare gli studi, i libri furono di più ma l’impegno solo il minimo indispensabile: preferivo i giornaletti, le riviste e i giornali sportivi. Con un innato carattere introverso, l’osservare e la curiosità erano le caratteristiche che più mi contraddistinguevano: mia madre mi diceva che ero un mannoia (musone) e mi rimproverava sempre perché stavo lì a bocca aperta a appappari. Con la scuola superiore le cose cambiarono. Malgrado fossero studi tecnici, professori di materie letterarie di indubbio valore insieme ai grandi della letteratura classica da programma scolastico mi fecero conoscere anche scrittori come Moravia, Morante, Bevilacqua: leggevo ma sempre a scrocco.

L’ingresso nel mondo del lavoro, Enel Produzione, è stata la vera svolta; l’impegno sindacale e la politica: tre giornali al giorno (La Repubblica, l’Unità e il Giornale di Sicilia), la storia del movimento sindacale, la storia del PCI, Antonio Gramsci, Giuseppe Fiori, Camilla Cederna, Giorgio Bocca, Eugenio Scalfari. Come a volermi riscattare per lo scrocco, non ho mai smesso di spendere per i libri.

Con la pensione, senza mai smettere, è cambiata anche la lettura; il primo Camilleri, il ritorno ai classici e qualche nuova piacevole scoperta: Marcela Serrano, Margaret Doody, Lindsey Davis. Da quando mi pigghiò sta camurria di scrivere, leggo poco ma leggo e in questo momento mi staiu arricriannu con Mondo è stato, giallo d’esordio di un giovane professore e mio amico.

La tua parabola è inscindibile da quella dell’editrice Arianna Attinasi, per la quale ha pubblicato tutti i tuoi romanzi. Edizioni Arianna ha una forte impronta legata ai luoghi madoniti. Anche la tua identità coincide con quella di un territorio, come sembra, o potresti scrivere di qualunque luogo del mondo?

Premetto che non avrei mai immaginato di scrivere e che un mio scritto potesse trovare un interesse da parte di qualche editore. La responsabilità prima ce l’ha il mio carissimo amico Francesco Giunta che dopo aver letto la bozza di Damiana mi ha quasi obbligato a trovare un editore per fare conoscere la sua storia. Il conseguente primo passo fu fatto nei confronti della Edizioni Sellerio che, molto gentilmente, dopo un po’ di tempo mi rispedì il manoscritto accompagnato da una lettera prestampata in cui, scusandosi, mi si diceva che i loro interessi editoriali erano rivolti ad altro.

Per una serie di circostanze, che circostanze non erano per chi crede nel destino, sempre un amico mi consigliò di rivolgermi a Edizioni Arianna. Non ricordo quanti giorni trascorsero dall’invio del manoscritto, non molti: una telefonata della stessa editrice mi annunciava che avrebbe pubblicato Damiana . Più che l’ambientazione, l’argomento trattato in Damiana ha trovato piena sintonia con la missione che Edizione Arianna stava da tempo conseguendo nel valorizzare l’identità culturale del territorio madonita. Sintonia che si è ancora rafforzata con la pubblicazione di Maruzza e Marietta, i primi due romanzi della trilogia Tri Matri, e che verrà potenziata con il prossimo, Antunina.

Quando al centro dello scrivere metti le emozioni, i sentimenti i valori umani puoi scrivere di qualunque parte del mondo. Del resto molte pagine della trilogia, compreso il conclusivo L’epilogo, sono ambientate per le strade di Novaiorca e gli stati della Merica.

Come Alberto Genovese, anche tu hai esordito in tarda età. Qual è stato il processo che ti ha portato a maturare questa decisione?

Nessun processo, l’occasione della nascita della mia nipotina e il desiderio di dedicarle un racconto, Ottavia, è stato l’inizio. L’apprezzamento di mia moglie e il prendere coscienza della facilità dello scrivere hanno fatto il resto. Mi capita spesso di sentirmi in imbarazzo quando qualcuno riferendosi a me usa il termine scrittore; mi piace più considerarmi un cuntastorie che ha la buona sorte di trovare le parole giuste per metterle su carta in bianco e nero. Capita anche di chiedermi il perché di questa necessità; un amico mi ha fatto notare come questo bisogno fosse legato al passato di militanza nell’ambito sociale e politico, cosa che continuo a fare essendo nel gruppo dirigente dell’ANPI di Palermo.

Tre libri (e un quarto in uscita), ciascuno dei quali porta nel titolo il nome di una donna. È una scelta di campo. Perché?

Considero la donna l’essere pressoché perfetto in cui i sentimenti e le emozioni hanno una valenza molto più intensa e decisa. Per uno come me che scrive con il solo scopo di riuscire ad emozionare e a scuotere la coscienza attraverso sentimenti che talvolta fanno la Storia e che riescono a cambiare le situazioni e i convincimenti, intercettare e farsi conquistare dalle storie di donne è stato pressoché conseguenziale. Devo confessare che il romanzo L’Albergo delle Donne Tristi di Marcela Serrano ha avuto un ruolo importante, in questa scelta.

Alla base di ogni mia opera ci sono stati un sentimento, un’emozione, una motivazione scatenante: per i racconti Ottavia, Nina e Fina la gioia, il riscatto e l’impegno politico; per Damiana la rabbia per i continui femminicidi; per la trilogia delle tre madri l’importanza del recupero della memoria negata; per Gina, ancora inedito, la dignità perduta. Sono sicuro che sarà cosi anche per gli altri che verranno: le storie sono attorno a noi nella vita di ogni giorno, cercano solo l’occasione per farsi raccontare, hanno bisogno del momento adatto, di incontrare l’animo giusto. Per non parlare dei personaggi che finiscono per impossessarsi di te e che pretendono di essere descritti, sentirsi tirare la giacca perché vogliono che la loro storia continui ad essere narrata perché magari hanno fretta di arrivare.

Nonostante ti si apprezzi per la precisione con la quale riesci a ricostruire ambienti e caratteri umani, nei tuoi romanzi vibra sempre una corda civile. Ricordare, registrare, muovere alla riflessione: è questo dunque il ruolo della narrazione secondo te?

Ti ringrazio per il complimento fin troppo generoso sulla precisione, ma il tutto scaturisce dal modo di scrivere; non ho doveri e scadenze editoriali da rispettare e quindi il tempo diventa un fattore determinante: ci vuole tempo, c’è bisogno di momenti particolari per vivere e pensare come i personaggi. Non concepisco l’idea di scrivere un romanzo per raccontare una storia con la fretta della scadenza o dell’impegno preso. Non sarebbe una scrittura libera.

Mi chiedi qual è il ruolo della narrazione; premetto che è sempre una cosa importante decidere di scrivere e in tanti sanno farlo in modo tecnicamente perfetto, con sintassi accurata, eppure non riescono a scaldarti il cuore; altri invece coinvolgono, emozionano e malgrado ciò non lasciano nulla; perché un libro tracci un segno, venga ricordato, il lettore deve percepire che è stato scritto lasciando che fosse il cuore a dettare le parole.

C’è sempre un perché dietro la decisione di scrivere e di far conoscere il proprio pensiero, per quanto mi riguarda penso proprio che il motore sia da ricercare nel tentativo di emozionare il lettore, di coinvolgerlo e di suscitare la sua curiosità attraverso il ricordo e smuoverlo alla riflessione. Può sembrare una frase fatta, ma sono fermamente convinto che ricordare, registrare smuovere le coscienze sia lo scopo primario della Letteratura.

Nella narrazione adoperi il dialetto soprattutto per riprodurre i dialoghi. Come sei giunto alla determinazione di un uso che, dal mio punto di vista, è misurato, opportuno, mai sovrabbondante?

Anche questa domanda trova risposta nel messaggio di veridicità che si vuol veicolare attraverso la scrittura; per rendere veri e credibili i personaggi, affinché possano vivere, devono parlare per come farebbero nella realtà. Un viddanu, un burgisi, un galantuomu di fine Ottocento non può esprimersi che nell’idioma che usa nel suo vivere quotidiano. Diversa è la scelta invece per alcune parole o espressioni in siciliano quasi arcaico che capita di inserire perché necessarie al contesto o per meglio definire uno stato d’animo.

In queste scelte, fin da Damiana sono stato confortato dal parere e dal consiglio di un grande dialettologo caltavuturese, il compianto professor Roberto Sottile, che così si esprimeva in un tratto della sua prefazione: “…nel suo ritmo serrato, nel suo taglio misuratamente etnografico, linguisticamente interessante anche per l’uso sapiente degli inserti dialettali (sempre marcati sul piano grafico) che appaiono opportuni e non danno mai l’impressione di essere stati inseriti lì perché la parolina dialettale, oggi, nell’era post-camilleriana, deve starci per forza, quasi per moda, specialmente se il racconto o il romanzo sono di ambientazione meridionale”.

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