Le strade del te. Sorseggiare il tempo di Lucie Azema

a cura di Ivana Margarese

 

 

“Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo”.

Così descrive, in un celebre passo, Marcel Proust in Alla ricerca del tempo perduto la persistenza nella memoria dell’odore e del sapore di qualcosa che in maniera inattesa ci riconduce alla nostra storia.

 

Del valore di questi due sensi racconta anche il regista iraniano Abbas Kiarostami ne Il sapore della ciliegia dove uno dei personaggi riprende una barzelletta persiana in cui c’è un uomo che va dal medico perché ha male in molte parti del corpo. L’uomo comincia la litania di lamenti: «Dottore, quando mi tocco il braccio, mi fa male; quando mi tocco la pancia, mi fa male; quando mi tocco la gamba, mi fa male» e il medico, dopo averlo esaminato, dice: «Signore, se ha male ogni volta che tocca qualcosa, vuol dire che il suo dito è rotto!». Ecco che il personaggio del film di Kiarostami mostra al suo interlocutore che, quando si è tristi, accade la stessa cosa: è il nostro animo che è rotto, che ci crea dolori di fronte ogni dettaglio della vita impedendoci di apprezzare i colori dell’alba o il sapore della ciliegia. Percepiamo la nostra esistenza solo attraverso i sensi. Se questi vengono soppressi, scompariamo con loro.
Le strade del te. Sorseggiare il tempo (Edizioni Tlon, 2023) di Lucie Azema recupera questo patrimonio sensoriale e racconta la storia ricca e avvincente di questa bevanda millenaria. Tra vari universi sensoriali, quello del tè può aiutarci nella composizione di un museo interiore che formi una collezione di percezioni alle quali possiamo aggrapparci se sentiamo mancare la terra sotto i piedi:

“Perché quando le parole e l’animo non funzionano più, quando la lingua e la memoria sono assediate dall’emozione, resta una via d’accesso: le sensazioni. Universali, esse disegnano una cartografia dei sensi e formano sentieri invisibili che, a posteriori, si riveleranno essere i più importanti mai imboccati”.

Ed è al tè e alle memorie che la accompagnano nel suo personale percorso di vita e nella storia che si affida la scrittrice in un momento difficile della sua vita ed è attraverso questa celebre bevanda riflette, chiamando in causa il lettore, sui significati dell’esistenza e dei processi storici e culturali.
Il tè è una bevanda in movimento, che procede da Oriente verso Occidente, in direzione opposta rispetto alle grandi ondate di viaggio della Storia. L’esperienza del tè è sempre stata profondamente legata a quella delle strade e del viaggio. Col termine “vie del tè” indichiamo un insieme di tappe: non un cammino lineare, ma un fascio di luoghi, di oasi culturali e umane. Come qualsiasi pianta, il tè ha regole botaniche proprie e, fra queste leggi immutabili, c’è quella dell’alternanza tra periodi di crescita e di dormienza. Durante i lunghi mesi invernali in cui la luce si riduce e le temperature si abbassano, la pianta del tè è dormiente, il suo sviluppo rallenta e all’arrivo della primavera, le prime foglie hanno un’incredibile forza aromatica. La dormienza è un fenomeno comune a molte specie, animali e vegetali, e simboleggia l’ideale alternanza tra movimento e sedentarietà tipica del viaggio, un cambiamento mediante cui è possibile esplorare il proprio territorio personale. Il tè, che custodisce l’ebbrezza dell’avventura, si consuma paradossalmente nei momenti di sedentarietà, di sospensione del tempo, di ritorno a sé.
Grazie a questo suo dualismo, tra nomadismo e sedentarietà, il tè ci invita ad abbracciare le nostre peregrinazioni e i nostri attracchi. Uno spazio infinito d’incroci, di sensazioni fatte di ripetizioni e ricordi, di luoghi ai quali si ritorna. Non un esistere caratterizzato dall’ostinazione in un movimento lineare, ma piuttosto da cicli e interruzioni nel corso della quale si impara ad andare in frantumi, a spezzarsi, e a ricominciare sotto nuove forme.


Il verbo degli uccelli, un’opera scritta in persiano nel XII secolo dal poeta sufi ‘Attâr – il cui nome significa “il botanico”, “l’erborista” – racconta l’avventura di trenta uccelli partiti alla ricerca del Simurgh, un animale mitico, l’equivalente persiano della fenice. Per riuscirci, devono attraversare sette valli, che corrispondono ognuna a sette tappe dell’esistenza (la Ricerca, l’Amore, la Conoscenza, il Distacco, l’Unità, lo Stupore, l’Annientamento). Alla fine del loro viaggio ciò che in realtà raggiungono sono loro stessi, il loro “sé profondo” – Simurgh, in effetti, significa “trenta uccelli” in persiano. ‘Attâr stesso viaggiò a lungo senza meta nella regione che corrisponde all’odierna Asia centrale prima di ritornare nella sua città natale, Nishapur (in Iran), dove si dedicò alla preghiera e alla scrittura fino alla morte.
Il tè ha consentito di scavare scorciatoie tra i popoli perché custodisce una grammatica comune all’umanità, le cui coniugazioni, tuttavia, cambiano: “Ogni territorio, infatti, ha immaginato, e poi messo al mondo, una maniera peculiare di preparare la foglia di tè, di consumarla, d’integrarla in un universo gustativo e sensoriale che la precede e la succede”.
Oltre a tutto ciò, la pratica del tè traduce la concezione dell’ospitalità tipica di ogni popolo, una maniera di accogliere e di prendersi cura, nonché un certo rapporto con la natura e la spiritualità. Ad esempio sia in India che in Pakistan la bevanda assume una dimensione sociale molto importante. Un bicchiere di chai costa solo qualche rupia e il suo consumo è diffuso in tutti i ceti sociali.

In seguito alla sua sedentarizzazione, il tè è diventato allo stesso tempo riflesso e prodotto delle società, aderendo, nel bene e nel male, ai contorni di ogni collettività. In questo modo, la bevanda è diventata poco a poco una questione di classe e di genere. Di classe, innanzitutto, perché il tè non sfugge ai rapporti gerarchici delle nostre società; di genere, poi, dal momento che sedentarizzandosi, dopo aver esplorato grandi spazi, il tè è stato relegato alla sfera domestica – e quindi a coloro che, tradizionalmente, venivano confinate a questi spazi finiti: le donne.
L’esercizio del tè è allo stesso tempo quello del viaggio e quello di una continua presenza a se stessi. La possibilità di un’accettazione piena e intera dell’esistenza tramite la consapevolezza che la solidità della nostra vita sta nella frammentazione: “la certezza intima che, se niente ci appartiene, il fiore selvaggio al fondo di noi stessi cresce sempre di nuovo”.

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