Ouessant. L’isola delle donne. In dialogo con Annalisa Comes

a cura di Ivana Margarese

 

Ouessant è “l’isola delle donne”. «Ovunque Ouessant parla al femminile dalla notte dei tempi…» e donne sono coloro che se ne prendono cura e promuovono innumerevoli iniziative culturali:

“Gli uomini di Ouessant – fin dal XVII secolo – si arruolavano nella marina reale (poi in quella mercantile) ed erano assenti a lungo, a volte accadeva che non tornassero più. È così che sull’isola si è sviluppata una forte società matriarcale che dura fino alla metà dell’Ottocento: sono le donne a chiedere la mano dell’uomo e ancora loro a dare il cognome ai figli. Le donne svolgevano tutti i mestieri, anche quelli più duri, tradizionalmente maschili. L’isola è ricchissima di leggende femminili: sirene, principesse, streghe, donne-cigno, Morganes (o Morganezed); ma anche di storie vere di donne coraggiose che hanno salvato i marinai da navi naufragate, come Rosa Héré; e ancora donne pescatrici e viaggiatrici“.

Un’’île au trésor in cui è possibile svolgere un vero e proprio viaggio interiore verso noi stessi.

La prima cosa che ti domando è la genesi di questo libro che racconta la tua esperienza di residenza su un’isola dell’oceano. Da cosa è nata l’esigenza di mettere per iscritto ciò che hai vissuto?

Durante la residenza del 2014 ho riempito vari quaderni. Non proprio diari, a volte si trattava di appunti di incontri, annotazioni ‘tecniche’ di appuntamenti sull’isola, altre volte ancora di sensazioni, racconti, atmosfere, ricette. Dal mio rientro sulla terraferma però non sono mai riuscita a scrivere compiutamente di quel soggiorno, anche se ci ho provato per diversi anni. Ho dovuto aspettare fino all’anno scorso. Nel 2022 quelle carte hanno preso una nuova vita e nuove direzioni. Non so perché, non c’è una spiegazione oggettiva. Scrivere è come piantare dei semi, non si sa mai se e quando nascerà la pianta. Poi ci sono anche semi che arrivano portati dal vento… allora la meraviglia è ancora più grande.


Ogni isola è anche un’occasione metaforica. Io ad esempio associo lo spazio insulare agli immaginari utopici che ha tante volte inspirato. Vorrei chiederti se l’utopia ha avuto in qualche modo un ruolo nella tua scelta di partire per Ouessant.

Forse, da qualche parte… la suggestione dell’île au trésor, un’idea archetipica, la metafora per l’altrove…Ma penso soprattutto a isole a me più vicine e affini. Isole amate nei racconti di grandi scrittrici, come l’Isola dei Gabbiani di Astrid Lindgren (Vacanze all’Isola dei Gabbiani è un suo romanzo del 1964) e soprattutto la piccolissima isola di Tove Jansson, Klovharu, nell’arcipelago di Pellinki, nel golfo di Finlandia, dove la scrittrice e artista ha scritto molti dei suoi libri e che ho voluto visitare nel 2013. O ancora l’isola-pesce (nella mia interpretazione) del profeta Giona – che poi mi ha risputato fuori. Non sono stati una fuga o un naufragio a portarmi sull’isola di Ouessant. Non la ricerca di un’utopia. Cercavo davvero quel luogo a ovest, dove poter scrivere, imparare, essere a contatto con la natura. Cercavo Ouessant. D’altronde non avevo fatto nessun’altra domanda di borsa di studio (e in Francia ne esistono tantissime!)

Hai portato con te in questa esperienza tuo figlio Yann. Cosa ha significato questa condivisione così singolare e intima all’interno del vostro rapporto?

Quando ho proposto la mia candidatura per la borsa di studio, non ho avevo dubbi, avrei portato con me Yann, che all’epoca aveva 6 anni. Dopo aver vinto la résidence, un membro dell’Association Cali, Jean-Pierre Douay, è venuto a farmi visita a Versailles – dove abitavo – proprio per chiedermi come mi sarei organizzata… Devo essere stata abbastanza convincente!
I mesi trascorsi sull’isola sono stati per Yann ricchi di scoperte e di libertà inimmaginabili. Il rapporto della scuola elementare con il territorio è d’altronde strettissimo, i bambini e le bambine imparano la flora e la fauna dell’isola direttamente nel corso delle escursioni, en plein air. Per esempio, imparano a riconoscere le specie degli uccelli che arrivano a Ouessant durante il periodo delle migrazioni; le alghe commestibili; a distinguere le piante del Sud da quelle del Nord, i venti, la storia locale. Imparano a rispettare la natura, e a giocare in sicurezza. Nella storia intima del mio essere madre, questo soggiorno poi è stato un meraviglioso regalo, perché mi ha permesso di poter essere testimone di queste scoperte di Yann: come osservare sotto la lente di un microscopio. La vita che si apre alla bellezza, alla meraviglia…

Perché Ouessant è l’isola delle donne?

Ouessant ha vari nomi: in bretone è “Enez-Eussa”, cioè l’ “isola Alta”, ma è conosciuta anche come “l’isola sentinella” o “l’isola del terrore” o appunto l’“isola delle donne”. Ovunque Ouessant parla al femminile dalla notte dei tempi… Gli uomini di Ouessant – fin dal XVII secolo – si arruolavano nella marina reale (poi in quella mercantile) ed erano assenti a lungo, a volte accadeva che non tornassero più. È così che sull’isola si è sviluppata una forte società matriarcale che dura fino alla metà dell’Ottocento: sono le donne a chiedere la mano dell’uomo e ancora loro a dare il cognome ai figli. Le donne svolgevano tutti i mestieri, anche quelli più duri, tradizionalmente maschili. L’isola è ricchissima di leggende femminili: sirene, principesse, streghe, donne-cigno, Morganes (o Morganezed); ma anche di storie vere di donne coraggiose che hanno salvato i marinai da navi naufragate, come Rosa Héré; e ancora donne pescatrici e viaggiatrici.

Sull’isola, racconti, hai avuto modo di fare alcuni incontri significativi sia professionalmente sia affettivamente. Potresti raccontarcene alcuni?

A Ouessant ho conosciuto donne eccezionali, a partire da Isabelle Le Bal, fondatrice e presidente dell’Associazione Culturale Cali e organizzatrice del Salone del Libro Insulare. Ho stretto amicizie che durano fino ad oggi. Ci sono Mireille Fremont, la proprietaria della piccola casa più vicina al Sémaphore, a Loqualtas; Delphine Kermel, allora direttrice del Musée de Phares et Balises; Jacky Baron, membro dell’Associazione Cali e autrice di un bellissimo libro di ricette ouessantine che ho ricordato nel libro. E poi ancora – preziosa amica e sorella in spirito – Dominique Memmi, scrittrice corsa che ho conosciuto al Salone. Durante il mio soggiorno ho avuto modo di incontrare scrittori e scrittrici, illustratrici e illustratori, pittori e pittrici, artisti, artiste, di tutte le età e provenienze. Credo che una delle qualità più straordinarie di Isabelle, sia quella di “radunare un equipaggio” davvero speciale. Nessuna formalità, nessuna (o quasi) forma di narcisismo, di accademia. Siamo insieme dall’alba al tramonto e oltre, condividendo esperienze, libri, racconti, poesie, pitture… pranzi e cene.

Anche quest’anno il Salone del Libro Insulare – dove sono stata invitata a presentare il libro – mi ha regalato incontri straordinari, come quelli con lo scrittore Frédéric Ohlen e l’artista Benjamin Bezonnet. Ma fra tutti, vorrei ricordare l’amicizia, appena nata ma già forte, con la pittrice bretone Anna Le Moine Gray, che vi invito a scoprire attraverso il suo sito: www.annalemoinegray.com

Vorrei mi raccontassi anche del faro e dei suoi polisemici significati.

La mia casa per quattro mesi è stato il Sémaphore de Créac’h, costruito alla fine del XIX secolo e disarmato dalla Marina nazionale nel 2000 (résidence d’artistes dal 2009, grazie alla straordinaria tenacia di Isabelle Le Bal); le sue coordinate sono 48°27’33”N 5°8’0”W, alla pointe de Créac’h, l’estrema punta nord-occidentale dell’isola. Davanti, solo l’oceano. Alle sue spalle, il Faro di Créa’ch. Nessun’altra abitazione.
Impossibile non ricordare un altro faro dalle strisce bianche e nere… quello del celebre romanzo-non romanzo – o meglio “elegia”- , come ci racconta la stessa Virginia Woolf. La letteratura – in particolare la letteratura nordica – è piena di fari (e di guardiani di fari)! E ricchissime sono le sue valenze simboliche: traguardo, approdo, guida, ecc. Però nella mia situazione è stata la mia casa, il mio quotidiano. Guardando dalle camere da letto – che non avevano persiane o serrande ma solo delle pesanti tende blu scuro – le luci intermittenti del Faro di Créac’h, io contavo il ritmo, gli intervalli. Non ho mai chiuso le tende della mia stanza.
A distanza di anni, oggi, quelle intermittenze sono “fuoco nero su fuoco bianco”: hanno fatto emergere l’invito a una nuova spaziatura (cfr. Marc-Alain Ouaknin, Il Libro bruciato. Filosofia della tradizione ebraica, ECIG, Genova 2000, p. 116)

Concludo col chiederti se hai avuto nostalgia della terraferma e quando e se oggi invece nella tua casa francese hai nostalgia di quel tempo sull’Oceano.

No, non ho mai avuto nostalgia della terraferma. E non mi sono mai voluta spostare dall’isola neanche per brevi gite, come all’isola di Molène, poco distante… Però, al contrario, ho avuto a lungo una sorta di “mal di terraferma”. Rientrata a Versailles mi sembrava di essere prigioniera – troppo lontana dal cielo e dall’oceano –. Troppo luminosa la notte. I bei boschi e gli spazi verdi attorno a Versailles mi sembravano delle aiuole. Mi mancavano i grandi spazi aperti, gli orizzonti infiniti. E soprattutto mi mancava – e mi manca – quel profumo unico, particolarissimo, per me inebriante, delle maree. Di quando le acque si ritirano, lasciando nude le distese di sabbia, rocce e alghe, – e di quando ritornano, quasi di corsa. Come il tempo di un respiro.

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