La Resistenza dei lavoratori del Sud: il caso di Francesco Marotta

di Giorgio Galli

La traiettoria della vita di Francesco Marotta è perfettamente sintetizzata nella Prefazione di Carmelo Albanese: «Marotta è innanzitutto un lavoratore, un artigiano dell’entroterra siciliano […] che nel tempo sviluppa una ostilità crescente verso l’ordine sociale ed il conformismo culturale che il fascismo promuove. Ma ancor più radicata sembra essere in lui l’insoddisfazione verso l’ambiente in cui vive. In un’isola in cui la proclamata “rivoluzione fascista” altro non ha fatto che ampliare le disuguaglianze sociali e mantenere – quando non alimentare – i tradizionali sistemi di dominio delle sempiterne consorterie politiche locali, il suo paese, Valguarnera, si configura come un territorio estremamente povero che non fornisce opportunità alcuna e nel quale le antiche, retrive, mentalità si intrecciano inesorabilmente con la visione del regime, venendo a stringere un cappio al collo di chi, come Marotta, mostra segni di ribellione e per tale ragione viene isolato. il giovane, dunque, che in modo quasi casuale è già venuto in contatto con gli ideali socialisti incontrando di tanto in tanto alcuni sparuti propugnatori tra gli stretti vicoli di quella cittadina, decide di cercare fortuna altrove e si dirige alla volta di Genova, dove già altri compaesani sono approdati in cerca di lavoro. Partigiano, dunque, sì; ma anche lavoratore irrequieto e migrante economico, come migliaia di meridionali che tra la metà degli anni Venti e la seconda metà degli anni trenta abbandonano la miseria delle regioni d’origine per cercare un lavoro – se non dignitoso almeno remunerato quanta basta per non soffrire la fame – al nord; infine “politico”. In liguria, infatti, Marotta può coltivare le sue ancora fragili convinzioni, incanalare la rabbia che tiene dentro nelle strutture clandestine che le organizzazioni antifasciste, ed il partito comunista in particolare, costruiscono e ricostruiscono dopo frequenti arresti e retate e, per questa via, approdare successivamente alla resistenza, momento culminante di un percorso difficile e per questo non comune, avviato dalle necessità della vita ma sostenuto da uno spirito coraggioso, insofferente alle ingiustizie e desideroso di libertà».

La monografia di Calogero Lanieri e Roberto I. Capizzi, edita dall’Istituto Poligrafico Europeo, non ricostruisce solo la vita del protagonista -la cui memoria è conservata sì nei documenti, ma soprattutto nella tradizione orale, nel vivo ricordo di quanti, poco più giovani di lui, hanno avuto la ventura di vivere fino ai giorni nostri. Attraverso le loro voci fa rinascere atmosfere e figure di un paese dell’entroterra siciliano ai primi del Novecento, fra umili professioni, rapporti di buon vicinato e fermenti politici più o meno alla luce del sole, che nemmeno il regime fascista riuscirà a silenziare del tutto. Atmosfere e personaggi che ai nostri tempi sembrano appartenere a un passato ancora più lontano in quanto spazzate via dalla rivoluzione consumista. Quello di Lanieri e Capizzi è un saggio storico, dovizioso di note e citazioni e che in più passi s’appella alla storiografia, invocando i nomi di Bloch e Braudel. Ci sono, però, in esergo a ogni capitolo, anche citazioni letterarie: una, in particolare, dal Candido di Sciascia. E in effetti Francesco Marotta sarebbe il perfetto protagonista di un romanzo o racconto che rievocasse, attraverso la lingua viva del popolo e l’antilingua dei documenti burocratici, il tracciato psicologico e sociale di una parte non sempre valorizzata della guerra di liberazione italiana: quella fatta dagli emigrati meridionali. Perché, se è vero che la Resistenza si sviluppò soprattutto al centro-nord, è vero pure che si avvalse del contributo di numerosi meridionali trasferitisi per lavorare in regioni più prospere.

In un celebre dialogo del Sentiero dei nidi di ragno, Calvino illustrava la varietà di motivazioni che avevano portato i giovani ad aderire alla lotta resistenziale. Un passo di questo libro fa lo stesso, ma con le parole dello storico: «In seguito all’8 settembre […] centinaia di migliaia di soldati danno vita a bande partigiane, animati più che da ragioni di ordine ideologico da motivi di carattere prevalentemente generazionale. Altri gruppi si costituiscono, invece, grazie all’impulso delle ricostituite forze politiche, con particolare riguardo per i partiti della sinistra. e ancora, molti sbandati si uniscono alla resistenza nel nome di un generico ideale di rigenerazione. Solamente “nel fuoco della lotta, con l’ombra della morte a fianco”, come scrive Miguel Gotor, essi “avrebbero trasformato la loro personale resistenza esistenziale in una nuova coscienza politica”»

Trasferitosi a Genova nella seconda metà degli anni Trenta, Francesco Marotta appartenne a un gruppo particolare di partigiani: la sua brigata, la “Mirolli-Pinetti”, «è una Sap, ovvero una Squadra di azione patriottica. Questi nuovi gruppi nascono per volontà del Comando generale delle brigate Garibaldi e la loro costituzione risponde alla necessità di poter contare su una forza in grado di organizzare e guidare l’insurrezione nelle grandi città del triangolo industriale, individuando le fabbriche come luogo centrale del reclutamento. I sappisti […] sono inappuntabili lavoratori di giorno, e combattenti disponibili part-time […]. Sono gli operai armati che devono difendere le fabbriche e attaccare fascisti e tedeschi in città; sono i contadini armati che devono mobilitare le campagne, i villaggi, organizzare la difesa armata dei raccolti, boicottare gli ammassi, rendere insicure le grandi vie di traffico e le rotaie che attraversano la pianura, arterie vitali per alimentare la guerra tedesca». Del risultato non si potrebbe dare miglior conto di quello fornito da Laneri e Capizzi nel volume: «Quando all’alba del 27 aprile le truppe alleate guidate dal generale Almond giungono in città, la liberazione di Genova è ormai un fatto compiuto: “a wonderful job”, diranno le avanguardie angloamericane».

La storia di Francesco Marotta non si esaurisce con la sua eroica morte: prosegue nei monumenti genovesi in cui sono ricordati i caduti della guerra di liberazione, e soprattutto nell’ostinazione dei genitori per tenere viva la sua memoria sia nel capoluogo ligure che al loro paese. La madre di Francesco, che dopo la guerra “vestiva sempre di nero”, ma faceva ogni sforzo per conservare il ricordo del figlio, ha anch’essa la statura di un grande personaggio letterario.

Arrivati alla fine del capitolo conclusivo, dopo che le ultime parole si sono posate sulla modesta tomba di Francesco e dei suoi genitori, entriamo in un’ultima sezione, particolarmente toccante: un apparato iconografico che ci permette di vedere, dopo averne conosciuta la storia, la faccia di Francesco, sorridente, al lavoro o in posa, da solo o con gli amici. E così abbiamo davvero raccolto tutto ciò che è rimasto della sua breve vita.

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