Dialogo da un aldiquà. Intervista a Igor Cipollina

di Michele Burgio

Nome da principe russo, cognome da ottimo pezzo di rosticceria catanese e, sopra al moschetto alla D’Artagnan, un mezzo sorriso saputo: deve fare sempre bel tempo, sul meridiano Igor Cipollina. Isolano di radica ma senza la nostalgia di chi è andato via e vorrebbe tornare, nella sua Mantova ha affetti solidi e un bel lavoro. Sarà per questo che mantiene l’aspetto di un ventenne da trent’anni a questa parte. L’anima, però, è matura e contemplativa, il tono garbato e concentrato, consapevole e umile al contempo.

In tredici anni, Cipollina ha collezionato cinque romanzi, tutti di dimensione contenuta. Leggendoli appare evidente come per lui ogni parola sia sacra e forse è proprio in questo che viene fuori al meglio la sua sicilianità. Non scrive libri piccoli, scrive libri buoni. La sua cifra sta nella capacità di fissare uomini, luoghi e situazioni con poche pennellate, come se da tre righe ben tracciate riuscisse a ottenere una sagoma definita, che poi ciascuno riempie. È una cosa strana, ma funziona. Eccome se funziona.

Non sei uno scrittore strabordante, si è detto. E che lettore sei, e sei stato? A chi e a cosa devi il tuo apprendistato letterario?

Il mio apprendistato lo devo al desiderio, vestito di urgenza adolescenziale, di forzare i confini del momento per sperimentare l’altrove, per moltiplicare emozioni e possibilità. Sono cresciuto in una casa piena di libri – i miei genitori sono lettori dai gusti diversi ma entrambi appassionati – anche se alla lettura come irrinunciabile esercizio dell’anima sono approdato relativamente tardi, a sedici anni. Kafka e Palahniuk, Don DeLillo e Valérie Perrin, Bulgakov e Bret Easton Ellis, Kundera e John Fante. Tra i romanzi italiani, mi hanno folgorato Redenta Tiria di Salvatore Niffoi, Tutti contenti di Paolo Di Stefano e L’ultimo arrivato di Marco Balzano. Gli autori sono tutti isolani, se non di nascita, di radici e sentimento come Balzano, e hanno un tocco prezioso, il dono di commuovere con le parole. Non emozionano soltanto, smuovono proprio l’affetto di chi legge. Ho amato anche Camilleri, certo, ma per i romanzi storici e, soprattutto, per la trilogia della metamorfosi, scritta in un siciliano musicale che è una malìa. Sbollita l’urgenza adolescenziale, è rimasta la magia della lettura, che è terapia e svago, sollievo e tormento, esige lentezza ma accelera l’orizzonte di chi legge.

Sei stato selezionato due volte al torneo letterario di IoScrittore organizzato dal Gruppo Editoriale Mauri Spagnol e devi a questo le tue due prime pubblicazioni. Cosa pensi di questo tipo di competizioni? Possono dare slancio a una voce che non riesce a venire fuori altrimenti?

A me non l’ha dato, questo slancio editoriale di cui domandi, però IoScrittore mi ha regalato coraggio, che forse è pure meglio. Mi attraeva l’idea di essere concorrente e giudice al tempo stesso, di poter essere letto al di fuori della cerchia di conoscenti e amici, troppo coinvolti per essere veramente onesti nel giudizio, e di poter leggere testi inediti di autori romanticamente grezzi come me. Mi sono divertito e alcuni romanzi mi hanno pure coinvolto. Vero, in entrambe le edizioni alle quali ho partecipato mi sono piazzato tra i dieci finalisti, ottenendo la pubblicazione in ebook, ma l’editing è stato molto leggero, la promozione un po’ sottovoce rispetto alla caratura del gruppo e, soprattutto, la lettura su supporto digitale non è decollata, almeno non nelle proporzioni attese. Altro discorso per chi ha meritato la pubblicazione cartacea, ottenendo il giusto slancio. Dal punto di vista dell’editore, poi, la formula del torneo letterario è un’intelligente operazione di scouting, perché la scrematura grossa la fanno gli stessi aspiranti autori.

Fai coincidere il tuo vero esordio con Ballata di provincia (Edizioni della Sera, 2018), mentre grazie a un progetto di crowdfunding indipendente promosso da Bookabook due anni dopo hai pubblicato i Monologhi dell’aldiquà. Che rapporto hai con l’editoria? Credi che si faccia abbastanza per garantire un prodotto di qualità?

Dire editoria è dire mondo, impossibile esaurirne la complessità e difficile anche solo orientarsi in un mercato sovraffollato di autori e titoli. Già la parola “mercato”, riferita all’esercizio della fantasia, suona un po’ forzata, ma questo è. Un mercato in bilico, perché la platea di lettori è risicata e capricciosa: leggere è meravigliosamente faticoso, esige un coinvolgimento pieno, assoluto. Insomma, troppa offerta, da restarne storditi, e, in proporzione, poca domanda. Sono convinto che esistano editori appassionatamente ostinati, che incoraggiano la qualità, ma devono misurarsi con uno scenario spietato, governato da calcoli, mode e dinamiche che, a mio parere, non sempre incrociano la bontà del “prodotto”. E poi ci sono gli scogli della distribuzione e della promozione: puoi anche aver scritto un ottimo romanzo, ma se stenta ad arrivare nelle librerie e non riesce a trovare il suo pubblico, è come se fosse ancora un manoscritto chiuso in un cassetto. Anzi, pure peggio, perché brucia la frustrazione di saperlo pubblicato.

Alla fine anche tu sei approdato al giallo. È di quest’anno, infatti, La bottega delle illusioni, primo numero della neonata collana Sette Chiavi di Utterson. Hai scelto di portare con te uno dei personaggi della tua Ballata. Nel gergo televisivo, questo è uno spin off, giusto? Come mai lo hai fatto? E perché proprio Ernesto?

Sì, è uno spin off, ma incompiuto perché il protagonista del romanzo La bottega delle illusioni è il maresciallo Michele Lombardo, che con Ernesto condivide il senso di estraneità rispetto alla scheggia di mondo dove sono rotolati entrambi. Michele per urgenza, per il bisogno di riannodare i fili della sua storia familiare recisa. Ernesto per caso, perché il paese gli sembra abbastanza distante dal suo lembo di passato per piantarci i semi di un nuovo inizio. Ho scelto di portarlo con me perché è il personaggio più puro e meno smaliziato della Ballata di provincia, ha poca scuola e tanto sentimento, è un benzinaio taciturno che passa i suoi giorni ad avvelenarsi di piombo e rassegnazione. Ogni sera, però, raggiunge il punto più alto del paese per interrogare l’orizzonte e cavalcare con la fantasia le scie che gli aerei ricamano in cielo. La sua consolazione, l’antidoto al veleno dei suoi giorni, è sapere che esiste un altrove, che c’è vita oltre al suo destino. Nient’altro. Ernesto è il personaggio della Ballata al quale voglio più bene, ma non gli ho reso un gran servizio portandomelo dietro nella Bottega delle illusioni. Vero, per lui e Mariausilia – altro personaggio riacciuffato dalla Ballata – ho immaginato il miraggio di un riscatto, un’esistenza felice da declinare al plurale lontano dagli affanni della vecchia vita. Un tuffo in quell’altrove a lungo rincorso da Ernesto con lo sguardo. Così il benzinaio studia da barbiere e, grazie alla sua indole, alle premure che riserva ai nuovi clienti, riesce a farsi benvolere. Ma quando un notabile viene trovato morto nella sua sala da barba, col collo aperto in un sorriso scarlatto, Ernesto diventa subito il colpevole perfetto: è forestiero e tanto basta. In un soffio il miraggio si rovescia in incubo, come fosse una sorta di punizione per essersi ribellati al proprio destino, per aver scartato dal binario dei propri giorni pensando che un’altra vita, una vita piena, fosse possibile. E meno male che è il personaggio della Ballata al quale voglio più bene.

Nei Monologhi dell’aldiquà raggiungi probabilmente la tua maturità letteraria. Il romanzo è una lucida cartolina dal nulla esistenziale del nostro tempo e ha prefigurato, in maniera visionaria, l’isolamento reale cui qualche mese dopo ci avrebbe costretti il Covid-19. Da dove è nato lo spunto per il romanzo?

Una decina d’anni fa, forse pure qualcuno di più, quando la grande crisi d’oltreoceano riverberò in Italia, bruciando insieme ai posti di lavoro anche il sentimento del futuro, la “Gazzetta di Mantova” m’incaricò di raccontare le storie oltre i numeri e io, con la complicità dei sindacati, m’infilai nelle case e nelle vite di questi operai sull’orlo, scippati della loro dimensione e della propria identità. La materia delle confessioni e delle sofferenze che raccolsi era troppo viva da comprimere nella misura e nei toni di un inserto di giornale, così iniziai a plasmare queste storie in racconti. E ho continuato negli anni successivi, rielaborando anche alcune notizie di cronaca nazionale che mi avevano piantato dentro un qualche seme d’inquietudine, come l’omicidio di un capoufficio per mano di un impiegato vittima di uno scherzo crudele dei colleghi. Alla fine, mi sono ritrovato con una decina di racconti, alcuni in prima persona e presa diretta, altri in terza, percorsi tutti dalla stessa cifra emotiva, lo smarrimento, così li ho cuciti assieme, attraverso la cerniera dei personaggi e immaginando un finale che li tenesse insieme. Immaginando anche uno squarcio di speranza a bucare lo sconforto.

A parte i Monologhi, tutti i tuoi romanzi sono ambientati in Sicilia. Perché questa scelta, che verrebbe da definire vocazione?

Nonostante nei Monologhi i portici, la teoria di camini e ciminiere che impennano l’orizzonte, il grande fiume, il lungolago, le trattorie e la nebbia raccontano di una Mantova non esplicitamente nominata, anche lì la Sicilia c’è sempre, riverbera nello sguardo dell’autore. Perché questa vocazione? Per il bisogno di ancoraggio che orienta ogni partenza successiva. Io sono nato spiantato – al nord da genitori siciliani, per giunta figlio unico – e questa sospensione tra due mondi, dalla differente temperatura emotiva, continua ad accompagnarmi. Ma la mia educazione sentimentale è maturata sull’Isola, dove ho vissuto dai sedici ai diciannove anni, la stagione più intensa durante la quale si cementano le amicizie, si formano i gusti e si sviluppa l’autonomia. La stagione durante la quale si sacrifica l’innocenza alla consapevolezza. Nel carattere della Sicilia, nella sua bellezza aspra e assediata, pulsa e graffia la mia stessa inquietudine. Eccola, la vocazione.

Vero cosa è rivolto il tuo sguardo, quali le tue più prossime tentazioni letterarie?

Al momento sto assaporando l’idea di una nuova indagine per il maresciallo Michele Lombardo, sempre nel solco letterario della Bottega delle illusioni, che del giallo ha la tinta ma, sotto la mano di mistero, esprime i temi di quella che, con un azzardo, potrei definire la mia poetica: il sentimento di estraneità, il groviglio d’insoddisfazioni, le fragilità e gli slanci. In una parola, la precarietà, che tale resta in qualsiasi luogo e dimensione la si ambienti. In ogni caso, credo che il proprio orizzonte rimanga un riferimento potente e irrinunciabile, anche nella costruzione di mondi altri e fantastici apparentemente lontani dalla geografia di vita di chi scrive. La fuga, pure quella letteraria, si lascia sempre qualcosa dietro che ne orienta la traiettoria.

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