Costruire la scuola del futuro: un dialogo con Vincenzo Caico (parte II)

di Ivana Margarese

 

La valutazione ha parametri che non mettono a fuoco il singolo, cosa prevede e come dovrebbe essere una valutazione che accompagni e sostenga realmente il processo di crescita e formazione dello studente?

Oggi fatica a prendere piede una vera valutazione formativa ed educativa, intesa come dialogo costante tra chi insegna e chi impara con il doppio obiettivo di migliorare gli apprendimenti, sviluppando la consapevolezza e l’autonomia delle ragazze e dei ragazzi, e orientare l’insegnamento per renderlo più efficace. Siamo troppo legati a un’idea di valutazione come pratica di misurazione episodica a carattere sommativo. Parliamo di misurazione perché, dovendo esprimere in sede di scrutinio intermedio e finale un voto da 1 a 10, si ritiene di dover esprimere con un voto da 1 a 10 anche le valutazioni in itinere. Parliamo anche di valutazione episodica a carattere sommativo perché di solito l’insegnante esprime le sue valutazioni solo in corrispondenza di prove di verifica programmate al termine di un segmento del percorso didattico, mentre eventuali evidenze rilevate durante il dialogo in aula passano in secondo piano. Ma nessuna normativa impone di utilizzare i voti numerici, previsti alla fine, in sede di scrutinio, anche durante il percorso di apprendimento. Invece di fornire un riscontro descrittivo si cerca di sintetizzare il processo valutativo, che è un processo complesso e multidimensionale che tiene conto di numerosi parametri legati al soggetto, in un numero inteso come valore su una scala di misura monodimensionale. Il voto numerico fa leva sulla motivazione estrinseca allo studio e spinge nella direzione di uno studio opportunistico finalizzato all’esito della singola performance piuttosto che al miglioramento dei propri processi di apprendimento. Si tende a garantire l’oggettività e la trasparenza della valutazione sulla base di standard comuni a tutta la classe, piuttosto che fornire in forma scritta riscontri descrittivi e narrativi che si inseriscano nel percorso di crescita e apprendimento personale del singolo. Una vera valutazione formativa ed educativa si intreccia quotidianamente con l’insegnamento, anzi, è essa stessa insegnamento. Mira a fornire indicazioni utili su come ridurre la distanza che separa ciascuno dai propri traguardi di apprendimento, siano essi comuni che personalizzati. Una vera valutazione educativa non si preoccupa di essere oggettiva o strutturata attraverso complesse griglie di valutazione, perché è un’espressione della professionalità dell’insegnante che si basa sull’apprezzamento personalizzato di evidenze che si inseriscono in un processo di apprendimento soggettivo per quanto realizzato in un contesto di relazione e socialità. Il ruolo dell’insegnante è diverso dal ruolo del commissario d’esame di un concorso pubblico. L’insegnante non è un giudice di gara che ha il compito di misurare singole prestazioni, ma è l’allenatore che accompagna la crescita dei propri allievi aiutandoli a migliorare e superare i propri limiti per raggiungere i loro traguardi.


Le prove Invalsi sembrano essere una forca caudina necessaria, quanto sono utili?

Le prove Invalsi sono utili perché forniscono dati sulle conoscenze e le abilità possedute dalle ragazze e dai ragazzi. Questi dati, in quanto tali, necessitano però di una certa capacità di analisi per ottenere da essi informazioni che possano indirizzare azioni di miglioramento della singola scuola. Particolarmente utili, più che le fotografie relative agli esiti delle prove in un determinato momento, sono i cosiddetti risultati a distanza che consentono di riflettere sull’acquisizione di conoscenze e abilità standard al passaggio da un ordine di scuola a un altro o nell’arco di tre anni nella scuola secondaria di secondo grado. Le prove Invalsi non consentono di esprimere giudizi sulla qualità generale dell’azione didattica ed educativa delle scuole e non sono utilizzabili per creare classifiche tra scuole, anche perché la qualità di una scuola non è un’entità misurabile. Un eventuale giudizio di qualità, descrittivo e articolato, dovrebbe tenere conto di molteplici fattori, anche e soprattutto relativi al contesto specifico in cui opera la scuola. Infine, le prove Invalsi non verificano i livelli di competenza delle studentesse e degli studenti in quanto non sono compiti di prestazione autentica programmati e articolati nel tempo, seguite da valutazioni espresse in forma descrittiva, che consentano di mobilitare conoscenze, abilità, attitudini ed esperienze personali in situazioni specifiche. In definitiva, analizziamo pure i risultati delle prove Invalsi riflettendo su di essi per trarne informazioni utili, ma non attribuiamo alle prove Invalsi valenze che non hanno. Ad esempio, non ha alcun senso confrontare i risultati delle prove Invalsi delle classi quinte con gli esiti in termini di punteggio finale degli esami di stato. Sono dei dati che non possono essere posti in correlazione tra loro.

Il Liceo Buonarroti di Monfalcone, nella quale sei dirigente, è scuola capofila della Rete nazionale dei Licei Scienza dei dati e Intelligenza Artificiale. Potresti spiegarci di che tipo di rete si tratta?

Dall’anno scorso nel nostro istituto è attivo un nuovo percorso di studi come curvatura del percorso di Liceo Scientifico opzione Scienze applicate che prevede un potenziamento delle ore di informatica e la trattazione di nuclei tematici particolari inerenti alla scienza dei dati e all’intelligenza artificiale. Sono due discipline interdipendenti che insieme rappresentano una delle frontiere della scienza e della tecnologia che sta cambiando la vita quotidiana e il lavoro della maggior parte delle persone. In particolare, l’intelligenza artificiale ha fatto un notevole salto in avanti con l’avvento dei cosiddetti sistemi generativi, come ChatGPT o Midjourney, in grado di generare testo, immagini, video, musica o altri media in risposta a richieste opportunamente formulate. Sono due discipline strettamente correlate con altri ambiti del sapere, come la filosofia, le scienze naturali, la statistica, l’arte o le lingue. Abbiamo pertanto ritenuto necessario istituire un nuovo percorso di studi curricolare che consentisse alle studentesse e agli studenti di acquisire conoscenze competenze di base in questi ambiti in prospettiva futura per i loro studi universitari. Il primo anno abbiamo avuto quasi trenta richieste di iscrizione a questo nuovo percorso e a settembre avvieremo un’altra classe prima. La nostra sperimentazione ha suscitato la curiosità e l’interesse anche di altre scuole in Italia e siamo entrati in contatto con altri istituti che avevano già avviato esperienze simili, magari come attività progettuali aggiuntive, per strutturare un protocollo comune ed elaborare dei curricoli interessanti ed efficaci. Abbiamo quindi pensato di istituire una rete nazionale di scuole che hanno avviato o stanno per avviare percorsi curricolari che comprendano lo studio e l’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella didattica. Oggi la nostra rete conta circa trenta scuole con percorsi liceali dalla Sicilia al Trentino, abbiamo in programma seminari ed eventi divulgativi e a dicembre, qui a Monfalcone, si terrà la seconda edizione del Festival della Scienza dei dati e dell’Intelligenza Artificiale dedicato al mondo della scuola.

L’IA cosa comporta e comporterà nelle giovani generazioni?

Gli adolescenti oggi utilizzano quotidianamente diversi sistemi di intelligenza artificiale, magari inconsapevolmente perché implementati all’interno dei social network e di altri servizi online come le mappe o i traduttori automatici. A me interessano soprattutto gli sviluppi che l’intelligenza artificiale può apportare in ambito scolastico alla didattica e all’apprendimento. Tenere fuori l’IA dalla scuola non ha senso. Cercare di vietare alle studentesse e agli studenti l’utilizzo di questi strumenti nelle attività della scuola equivale a cercare di fermare il mare con le mani. Bisogna quindi imparare ad utilizzare in maniera proficua questi strumenti anche in ambito scolastico. Si andrà verso processi di apprendimento sempre più personalizzati, cooperativi e fondati sul pensiero critico e la rielaborazione dei contenuti piuttosto che sulla semplice trasmissione e ripetizione dei contenuti. Sarà una bella sfida per tutti, sia per chi insegna, sia per chi impara. L’IA nella didattica può essere utilizzata per realizzare in maniera condivisa materiali didattici autoprodotti sulla base delle esigenze di apprendimento dei singoli o di gruppi, per predisporre percorsi di approfondimento tematici o percorsi di recupero personalizzati, come strumento automatico per la correzione di questionari ed elaborati o come strumento di confronto finalizzato all’autovalutazione. L’IA può essere impiegata anche come sistema di tutoring per il cosiddetto microlearning. Le ragazze e i ragazzi dovranno imparare a fare le domande giuste ai sistemi di IA, a verificarne, rielaborarne e sintetizzarne le risposte, a creare collegamenti verso nuove domande e, anche attraverso il confronto con questi sistemi, ad autovalutare il proprio apprendimento. L’IA spingerà il dialogo educativo verso forme sempre meno basate sul controllo rigido dell’insegnante sui processi di apprendimento, ma questo non sottrarrà importanza del ruolo dell’insegnante. Con l’avvento dell’IA nella didattica il ruolo del docente di guida esperta, di progettista didattico, di professionista della valutazione, sarà sempre più importante, così come le sue competenze relazionali.

Dall’intelligenza artificiale vorrei spostarmi al corpo, che mi appare spesso penalizzato nelle strutture scolastiche che ho frequentato sia come studentessa sia come docente. In alcune scuole non ci sono palestre e non ci sono spazi verdi in cui poter fare lezione in un assetto che non sia quello dei banchi e dell’aula scolastica. Mi domando se stia crescendo l’attenzione da parte della pedagogia più recente su questo aspetto per me imprescindibile dell’educazione.

Affinché le ragazze e i ragazzi passino volentieri così tanto tempo a scuola bisogna realizzare, anche attraverso l’ascolto delle loro richieste, esperienze di apprendimento e socialità significative. Prima parlavo di motivazione intrinseca e motivazione estrinseca. Chiedere a degli adolescenti di imparare il più possibile restando fermi tra i banchi per 5-6 ore al giorno, per il solo fatto che frequentano una scuola, mi sembra arduo, se non controproducente. Nella scuola che dirigo abbiamo un ampio giardino e abbiamo messo a disposizione di tutti tavoli e sedie da esterni. Quando arriva la primavere le studentesse e gli studenti chiedono spesso agli insegnanti di poter svolgere la lezione in giardino. Bisogna alternare la didattica frontale in aula con esperienze di laboratorio, momenti di apprendimento cooperativo, progettualità, uscite e visite didattiche. Cambiare contesto operativo è importante, ma anche la stessa didattica in aula può essere più o meno dialogata o segmentata in momenti in cui l’insegnante utilizza metodologie didattiche diverse. All’interno della scuola possono essere allestite aule tematiche e i gruppi classe si spostano da un’aula all’altra ad ogni cambio di lezione. Questo è uno dei principi delle scuole DADA, Didattiche per ambienti di apprendimento. Si tratta di rendere gli ambienti della scuola più stimolanti ai fini dell’apprendimento e più orientati al benessere sia di chi impara, sia di chi ci lavora. I docenti possono personalizzare o modificare la configurazione delle aule in base alle esigenze didattiche e, dal canto loro, le ragazze e i ragazzi nei minuti in cui transitano da un ambiente a un altro mettono in movimento il loro corpo, scaricano un po’ di stanchezza e recuperano parte della concentrazione necessaria per affrontare l’attività successiva.

Il benessere a scuola sembra un tema a lei molto caro. Nei giorni scorsi la scrittrice Dacia Maraini ha invitato pubblicamente a riflettere sul ruolo della scuola che riguarda l’educazione ai sentimenti e alla sessualità. Per chiudere questa intervista, pensa anche lei che la scuola non stia facendo abbastanza?

Non penso che la scuola abbia rinunciato a questo ruolo, ma l’educazione di genere, all’affettività e alla sessualità necessitano di un’attenzione maggiore ed esplicita tra i nuclei tematici trattati nelle nostre aule. A scuola questi temi sono comunemente mediati dalla cultura e dai saperi disciplinari e interdisciplinari, questo però non esclude una progettazione specifica di approfondimento, se necessario anche con interventi di esperti esterni. Nella scuola che dirigo lo scorso anno scolastico abbiamo organizzato dei corsi di educazione alla sessualità e all’affettività in collaborazione con medici, psicologi e con il consultorio familiare dell’azienda sanitaria. Su richiesta delle stesse studentesse e degli stessi studenti abbiamo realizzato incontri anche su altri temi riguardanti la sfera del benessere personale, come l’educazione alla corretta alimentazione. Queste attività dovrebbero però essere strutturali fin dalla scuola primaria, non integrative. Sono previste dalla legge. Il comma 16 della legge 107 del 2015 stabilisce infatti che il piano triennale dell’offerta formativa delle scuole di ogni ordine e grado deve promuovere, con le risorse che ha già, l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni. Aggiungerei però che poter disporre in organico, in ciascuna scuola, di uno psicologo dell’età evolutiva, sarebbe senz’altro di grande aiuto.

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