Scrivere per calpestare la noia. Intervista ad Antonio Ciravolo

a cura di Michele Burgio


L’editoria è un pesce che boccheggia. Un pesce bellissimo, beninteso, dai colori variopinti, da
lle carni bianche e finissime. Ma boccheggia. Ne è testimonianza il gran numero di fiere librarie in cui piccoli e medi editori radunano le loro forze e, grazie a qualche nome di peso, richiamano tanticuriosi e uno sparuto numero di lettori. Già, c’è poco da fare, i lettori cosiddetti “forti” sono pochi e vanno a diminuire.

Perciò si prova di attrarne di nuovi rendendo l’angusto spazio dell’esposizione quanto più accattivante possibile. E, magari, esponendo non solo libri ma anche sciarpe, tazze, quadretti, affinché il visitatore non si senta minacciato da quelle cataste di carta che tanto fanno pensare alla scuola, alla concentrazione, al silenzio. Per come possono e con il massimo sforzo, gli editori provano a fare arrivare il potenziale lettore al loro libro migliore attraverso vie che possano per intanto garantirgli un minimo di fatturato e, in conclusione, la propria stessa sopravvivenza. Immalinconisce, infatti, vedere le folle raccogliersi soltanto attorno agli stand degli editori blasonati, pronte a perpetuare il paradosso di acquistare in fiera libri che la grande distribuzione scarica a valanghe nelle librerie di catena, precludendosi la possibilità di scoprire ignote perle di qualità.

Alla fine della fiera, i piccoli editori se ne tornano ingrugniti e perplessi ai loro paesini pittoreschi, ai loro uffici di poche stanze. Pagate le quasi sempre proibitive spese di organizzazione e di trasferta, gli rimangono pochi spiccioli nelle tasche e molti grattacapi per la testa. Il mestiere più prezioso del mondo ridotto ad un continuo, inesorabile ansimo.

Ho conosciuto Splēn edizioni a “La via dei librai” di Palermo, qualche anno fa. Pubblicazioni variopinte, grafiche accattivanti, il target di lettura sono i più piccoli, ma la collana per adulti, ”Caleidoscopi”, è un invito alla bellezza.

Li chiamanoi libri con il titolo al contrario”, hanno copertine talmente belle che autore e titolo passano direttamente sulla quarta. Ho chiesto a Surya Amarù, che in casa editrice seleziona i testi, di consigliarmi il loro autore più letterario, quello che spezzasse ogni compromesso con il mercato e si facesse leggere con la forza di un classico. Una richiesta assurda, a ben pensarci: sarebbe quasi ovvio che una piccola casa editrice non avesse scrittori in grado di soddisfare un’aspettativa così grande. E invece.

Eccoci dunque ad Antonio Ciravolo, quarantenne medico e psicoanalista catanese. Oltre ad un un’allucinazione teatral-narrativo-esistenziale con Robin (Madamè), ha pubblicato quattro romanzicon Splēn (Un cerchio nel buio, L’ultima notte di X, Manuelita cicuta mulata, La condizione delle colpe), in linea con il nome della collana che li contiene: definirne la scrittura caleidoscopica potrebbe essere indicativo, anche se non esaustivo. Vi sono delle costanti, tra le quali il disvelamento della verità, subito rovesciata, e alcuni nuclei tematici legati al rapporto di coppia; al contempo, pur all’interno di uno stile riconoscibile, vi è grande varietà nella costruzione dellestorie, nell’ambientazione e nelle atmosfere, e un’invidiabile capacità di spaziare e trascendere da vette altissime al pop con la levità di una rondine.


Insomma, se c’è una cosa che bandisci dalla sua scrittura è la banalità. Sei d’accordo?

Credo che eludere la banalità sia ambizione primaria e comune di chiunque provi ad approcciarsi ad un atto creativo. Calpestare la noia. Questo, per quanto mi riguarda, ricade nel personale desiderio di rendere immediatamente fruibile al pubblico la storia. È un’esperienza che parla prima di avere voce. Se un’emozione cammina la si accompagna fin dove sa arrivare. Si spera sempre sia una lunga passeggiata.

Quando nasce in te l’esigenza di narrare? Sembrerebbe che ogni tua storia ruoti intorno a precise ossessioni. È così?

L‘esigenza di narrare è pari a quella del parlare. Rendere una parola piena, non consunta, che sappia dire qualcosa che abbia a che fare con una verità. Forse si rintana qui l’ossessione di cui parli: nell’ineludibile voglia di tirare fuori qualcosa che abbia cuore, direzione e desiderio.


Quanto pesa nella tua scrittura la tua formazione professionale? Credi che questi due mondi si intersechino in un abbraccio finanche rischioso, o che invece si respingano, creando due strutture di pensiero e azione autonome?

Una volta qualcuno disse che si va in analisi per imparare a parlare. Io credo che la mia professione sia immersa nella parola e da lì la storiografia dell’essere umano prende forma. Il dolore così come la felicità dell’individuo sono costitutivi di ogni storia. Quindi no, non lo considero un rischio, bensì un’opportunità. L’opportunità di lavorare il lavoro, in una elaborazione continua che eleva l’atto terapeutico alla dignità dell’opera.

Sicuramente la tua formazione letteraria avrà comunque avuto un peso e un percorso differenti rispetto ai tuoi studi. Quali sono gli autori di cui più dovremmo cercare le orme e le carezze tra le pagine dei tuoi romanzi?

Gli autori sono tanti e le opere davvero innumerevoli. Ci sono di certo stati degli incontri puntuali, tra me e il testo capitatomi tra le mani. Incontri con alcune parole preziose come quelli con alcune persone (che in fondo è la stessa cosa). Puntuali perché sembravano esser lì ad aspettarmi senza che io conoscessi ancora il come avrebbero cambiato i miei percorsi. Tra gli altri ho incontrato Moravia, Celine, Baricco. Ho incontrato Saramago, Gabriel Garcia Marquez, Dostoevskij e il Siddharta di Herman Esse. E, non per ultimi, anzi, gli splendidi testi di Freud e Lacan.

In ogni tuo romanzo campeggia una trama di colpe che si dispiega come una scala di grigi, che mai conosce il bianco e mai sprofonda nel nero. Colpe delittuose, colpe inespresse, colpe inespiabili. E poi, cacciatori e prede sono eternamente interscambiabili nel gioco della tua narrazione. Hai lavorato in carcere e sei venuto a contatto con i detenuti. Quanto questa esperienza ha segnato i tuoi concetti di colpa, di pena, di espiazione?

L’esperienza carceraria è immersiva così come quella con i migranti. Dico immersivo perché si lavora in contesti letteralmente esclusivi. È una clinica dei margini che porta ad un contatto con il bisogno immediato e crudo. Ma, al contempo, come dici, instilla la questione della colpa e della pena. Di quanto possa esserci corretta misura tra il peccato e l’espiazione. Tra la fuga e la ricerca. Queste sono questioni che ricadono di diritto nella quotidianità del vivere, lì dove non vi è norma e codice ci sono comunque colpe e pene, e scriverne è un modo per affrontarle nel buio segreto delle proprie intimità.


In ogni tua storia – e, per forza di cose, in Madamè – vi è una soggiacente teatralità. L’autore è quasi sempre invisibile, ma al contempo si avverte la sua mano nel tirare le fila di ogni situazione; la sua divertita e compiaciuta capacità di allargare e stringere la morsa. C’è in te un’anima da capocomico? Oltre a Pirandello, che appare e traspare con i suoi “personaggi in cerca d’autore”, quali sono i tuoi riferimenti nella scrittura teatrale?

Una volta un mio paziente attore mi disse che in fondo io e lui facevamo lo stesso mestiere: interpretavamo. Scrivo per il teatro da un po’ e ho trovato stimolante lo spazio comune che nei libri – purtroppo o per fortuna – manca. È quello spazio figlio della compresenza, che sta nel mezzo tra interprete e pubblico. Lì accade qualcosa che non è dicibile ma c’è e si muove e tocca l’essenza di chi lo condivide. È un qualcosa che si cuce tra atto e cute e così si accende. Vivo tra le parole di donne e uomini che parlano dei loro dolori concedendomi il privilegio di poterli aiutare. Non c’è riferimento teatrale più emblematico della scena privata di una vita qualsiasi.

 

No Comments

Post A Comment