Il cavaliere e le parole io canto. “L’alternativa” di Alberto Genovese

di Michele Burgio

 

Nulla sapevo di Alberto Genovese, sinché l’imbeccata di un amico mi ha portato sulla sua strada. «È il fratello di un mio caro collega», mi ha scritto, «e tratta un argomento che potrebbe interessarti». Sì, in qualche vita precedente mi sono occupato anche di detti dialettali, e lo spunto de L’alternativa del cavaliere (Manni Editore, 2022) sta proprio nel proverbio “o futtiri o vasari”, la cui traduzione è assai intuibile, “o fottere o baciare”.
Inserendolo in una cornice di scambio culturale con un professore teutonico, Genovese costruisce il suo agile racconto su quest’enigma. Perché mai due attività, assai spesso complementari, dovrebbero costituire un’alternativa? Pare vi sia un riscontro nell’aneddotica popolare. Il teatro dell’azione si sposta allora nella seconda metà dell’Ottocento, tra le mura di un baglio amministrato da un pacato latifondista, più dedito ai piaceri dello spirito che della carne. Con qualche innocente concessione alla propria libido: il consolidato rapporto con la storica serva Crocifissa e lo ius primae noctis da esercitarsi nei confronti di una giovane del suo contado, in cambio di lauta ricompensa. Sarà proprio in virtù di ciò che egli verrà a confrontarsi con l’inesorabile alternativa contenuta nel proverbio. Delle due, l’una. O futtiri o vasari.

Alla resa dei conti, lo scioglimento della paremia importerà il giusto al lettore, che verrà invece conquistato dallo stile misurato e colto di un autore che non potrebbe avere altra radica che quella siciliana, imbevuta di letture buone, impegnative, non raccogliticce. È aria pura riuscire a confrontarsi, di tanto in tanto, con una scrittura consapevole, non impastata col tritello del compromesso editoriale. È anche fonte di speranza per il futuro, ideale linea di congiunzione tra i grandi maestri del secondo novecento siciliano – le tre corone di Sciascia, Bufalino e Consolo – e un nuovo modo di fare letteratura in Sicilia, senza dover per forza puntare al ribasso.

Dalla quarta di copertina si apprende che Alberto Genovese è laureato in Filosofia ma ha lavorato per un istituto di credito, che è nato nel 1955 e che vive nella campagna trapanese. Un esordiente di quasi settant’anni che ha formazione umanistica ma si è poi occupato di numeri. Tanto è bastato per sentire il bisogno di chiacchierare un po’ con lui.

Quando e perché hai deciso di scrivere questo racconto? Qual è il vero antefatto, al di là della cornice offerta?

Accadde nel 2017, in tardo agosto, nell’indolenza pomeridiana della città deserta. Negli uffici della banca dove ancora lavoravo a quei tempi stagnava un’atmosfera da deserto dei tartari. Ogni estate, in quel periodo, era sempre così. Per me non era un’estate come le altre. Era programmato che da lì a pochi mesi sarei andato in pensione. Per quanto un traguardo sia agognato e annunciato, non si attraversa mai impunemente una soglia della vita, che sempre ti chiede almeno l’obolo di un palpito per il tempo che verrà e di un resoconto – una resa dei conti – per il tempo che è stato. Sono quelle che Proust chiamava “le intermittenze del cuore”. Per me era la ricerca di un senso per quei quarantadue anni, la polpa di una vita, trascorsi adoperandomi con zelo in un lavoro a cui ero appartenuto, senza che la parte più intima di me vi fosse appartenuta; e per questo talvolta avvertivo il senso di un rimpianto, di un livore verso me stesso, che un qualche successo professionale velava e addolciva. Non ho considerato perduto quel tempo, semmai controverso, questo sì. Come appiglio alla memoria, per un viaggio a ritroso, non potevo fare affidamento, a Palermo, a una madeleine, come Proust. Magari un cannolo, che è piuttosto grossolano come allegoria letteraria. Mentre stavo dinanzi al computer, in ufficio, in quel tale pomeriggio di agosto, una voce sembrò uscire dallo schermo a bisbigliare “Betto (la versione dialettale del mio nome di battesimo), o futtiri o vasari!”. Il gomitolo della memoria si srotolò tutt’insieme e riandai a un anziano collega che oltre a insegnarmi il mestiere, agli esordi del mio impiego, si dilettava a raccontarmi aneddoti legati alla Sicilia, alle sue storie, al suo pittoresco idioma che tutti noi impariamo sin dalla culla, come in ogni patria. Decisi, senza ancora averne piena coscienza, che il mio tributo alla reminiscenza di tutti quegli anni sarebbe stata quella vicenda apocrifa, che mi era stata narrata da quel cantambanco passionario. Presi appunti frettolosi e rientrato a casa cominciai furiosamente a scrivere. Due settimane dopo, il racconto era terminato. Furono giorni di felicità, e non li ridarei indietro per nessuna somma, se mi chiedessero di rivenderle. Avevo scritto ciò che mi sarebbe piaciuto leggere. Ma restava un interrogativo: perché quella frase riassumeva quella lunga teoria di anni lavorativi, quella cospicua fetta di esistenza? L’ho capito solo dopo che il racconto è stato pubblicato, perché l’impulso alla creazione, quello che con un po’ di retorica chiamiamo “ispirazione”, non ci è mai del tutto noto. Se lo fosse sin dall’inizio, a dispetto che noi, per un peccato di onnipotenza, crediamo che lo sia, non ci sarebbe nella creazione quel tanto di mistero che muove la mano dello scrittore. Se si scrive “per portare alla luce”, allora occorre che si proceda nell’oscurità: un falso chiarore che ci ubriaca di hybris. Ecco, se permetti, vorrei che le mie più intime motivazioni rimanessero estranee al lettore, e non per pudore, semplicemente perché le reputo inutili al lettore per il godimento della lettura (se mai ne trovasse) e al giudizio che può darne. Come diceva Proust, a proposito della esternazione dei sentimenti in un romanzo, sarebbe come mettere il cartellino del prezzo su un abito che s’indossa.

Dici che il tuo cavaliere “guarda alla vita con una relativa innocenza”. Ma chi amministra il potere può vivere da innocente? Quanto è facile manifestare abitudini epicuree avendo a disposizione ben più di un tozzo di pane e un bicchiere di acqua di fiumara? O, se preferisci, quanto sarebbe difficile essere davvero epicurei in condizioni di assoluta indigenza?

Se avessi fatto in modo che al Cavaliere fosse stato chiesto, in fabula, cosa ne pensasse dell’epicureismo, temo che sarebbe uscito dalla pagina minacciandomi di non rientrarvi. E pure sulla questione dello sfruttamento del contado avrebbe di che recriminare. È bene concedergli il diritto di replica. «Bravo, lei, il mio caro autore, a beffeggiarmi chiedendomi di cose che non ha concesso alle mie conoscenze. L’epicureismo… cosa vuole che ne sappia? Mi ha dato forse un’istruzione? Mi ha mandato a scuola? Lei ha voluto che io godessi della vita, per la culla dove il caso mi aveva deposto secondo la sua fantasia, ed ecco, agli ordini della sua penna, sorbo le mie granite all’ombra di una veranda, bacio e fotto (tranne quando, per il suo uzzolo narrativo, mi costringe a patire il morso di questa alternativa). Se io non mi vergogno dei miei costumi, è perché in quel tempo usava proprio così. In quel tempo “noi” – cioè: non propriamente io come personaggio, ma le persone che davvero vissero in quest’isola e da cui lei ha tratto fonte – sfruttavamo ogni fibra dei corpi di quelli che ci appartenevano, per la nostra ricchezza e il nostro piacere, dove più e meno altrove. E mi scusi se profano la citazione del Padre (ma sa, noi personaggi, frequentando gli autori, per l’eterogenesi dei fini letterari finiamo per imitarli), e se aggiungo che, mutatis mutandis, non tutto è cambiato. Il mondo pullula di “cavalieri” e di “crocifissi” (coglie, caro il mio autore, la finezza di questi plurali?). E gli odierni noi – cioè: non propriamente io come personaggio di allora, ma le persone di oggi, quindi “loro” – non possono avanzare le scuse delle miserie sociali dei bagli relegati nell’entroterra di un’isola sequestrata alla storia, né di tempi bui: oggi tutto è chiaro, non vi son più luoghi remoti, tutto è connesso, tutto condanna questi “cavalieri” ai quali, per sua grazia, caro il mio autore, io non appartengo e da cui mi defilo. E mi scusi se poi rispettosamente glosso la sua scrittura (ci sarà pure una carta dei diritti dei personaggi!). Seppure lei ha voluto farci vivere sullo sfondo storico di quella sua misera Sicilia, noi (io, Crocifissa, Carmela…) siamo oltre la Storia. Noi siamo reali quanto basta per essere falsificati. Voi autori siete tutti dei falsari, stampate banconote contraffate con la nostra effige, scrivete ai margini di giorni perduti le vostre storie, ne fate commercio con i lettori che stanno a questo gioco. Noi personaggi, proni alle vostre fantasie e ai desideri dei lettori, rimaniamo nella terra di nessuno fra la realtà e l’invenzione, testimoni muti (sì, muti, perché voi siete i nostri ventriloqui) di questa contesa che non avrà mai né vinti né vincitori, perché il quanto dell’una (la realtà) o dell’altra (l’immaginazione) non è una formula che si possa determinare e tramandare. È cosa impalpabile e di finezza, altro che scuole di scrittura! Alla fine, caro il mio autore, mi viene il sospetto che il Cavaliere vero sei tu, e io – quello immaginato, il personaggio – sono l’autentico cavaliere, ma da te sfruttato e fottuto invece che fottitore.»

Il vossia porta il calco di una frattura sociale che per anni ha tenuto l’Isola distante da una democrazia che fosse, se non incompiuta, almeno accennata […]. Il vossia è stato per tanto tempo il significante di una terra in cui non esistevano diritti ma solo favori elargiti”. Il fatto che, come tu noti, questo pronome sia ormai in disuso, segna in qualche modo il passo di un cambiamento antropologico della Sicilia, dei siciliani o si è mascherato, magari trasposto in qualche altro allocutivo?

La triade allocutiva “vossìa-voscenza-assabinidìca” è stata a lungo tipica della Sicilia, tanto da diventare una stucchevole oleografia. Quelle formule ci consegnarono alla letteratura filmica come “gente di rispetto”. Non c’è stata testimonianza più efficace, direi quasi epigrafica, di quei tre titoli dello stato di miseria sociale e di sostanziale sudditanza in cui versavano le classi subalterne, soprattutto nell’entroterra e nelle campagne, quasi un tardo epigono del servaggio feudale. Se ne accorse acutamente lo stesso Garibaldi, se è vero, come racconto nel mio volumetto, che uno dei suoi primi atti da dittatore, il 13 giugno del 1860, cioè appena un mese dopo lo sbarco nell’isola, fu di abolire il titolo di eccellenza “per chicchessia” e il baciamano “da uomo ad altro uomo”. Aveva intuito, l’eroe dei due mondi, che il riscatto della gente che egli era venuto a unire al resto d’Italia iniziava dalla cancellazione di quella formula di sottomissione, che dovette sembrargli inaccettabile e arcaica. Ma come le parole non nascono nella cultura di un popolo per una disposizione di legge, così non si eclissano per decreto. Alla cultura non si comanda. E vengo adesso alla tua questione. Io appartengo alla generazione del secondo dopoguerra, e ho vivida e cara memoria del vossìa che mio padre rivolgeva a sua madre, mia nonna. Era, quel vossìa, una innocente formula di rispetto famigliare. E dico innocente, perché non impediva ai due di addivenire ogni tanto a tiepidi diverbi. Ma già io, senza scandalo e per naturalezza dei tempi, davo del tu ai miei genitori e a mia nonna. Nonostante la modestia del mio ceto sociale, dunque più sensibile a certe riverenze gerarchiche, ho sparuti ricordi di voscenza e di assabinidìca, che cominciavano a suonare come compromettenti, quasi che a pronunciarli dinnanzi a certe persone si passasse per delatori, o si ammettesse implicitamente che la mafia esisteva. Il che non era meno grave. E furono sostituiti da titoli figurativi, di generica e adulatoria cortesia – come dottore, professore, avvocato e simili – rivolti a gente che a malapena vantava un diploma, individui scaltri e senza scrupoli, che facevano da cerniera col potere burocratico da cui si dipendeva per ottenere, per grazia non ricevuta ma remunerata con voti e mance, ciò che sarebbe stato un diritto, in uno stato di diritto. Ma da noi non c’era un giudice a Berlino, né altrove. Erano, costoro, i nuovi campieri, i signorotti epicurei e senza bagli, i successori del mio cavaliere. Né voscenzaassabinidìca udivo in famiglia, quanto invece onorevole, quel tale onorevole che mio padre, valente artigiano, inseguì per anni alla ricerca di quel posto nel pubblico servizio che desse pace ai suoi rovelli per le incerte fortune del suo mestiere, ch’eppure amava. Ogni famiglia aveva il suo di onorevole, ciascuna a suo modo, e per i suoi fini, lo rincorreva, consumando scarpe e pensieri. Garibaldi si rivoltava in quegli anni nella tomba, e temo che ancor oggi passeggi accigliato per i Campi Elisi e non si dia pace pensando alla Sicilia e a quel suo decreto del 13 giugno 1860.

Citando liberamente un periodo de L’alternativa, “la cifra della condizione umana è la pena e la saggezza dell’incompletezza”. Ciò riguarda anche la conoscenza diretta e, per chi scrive, la navigazione nel mare magnum della letteratura. Che tipo di lettore sei? Avido, selettivo, universale, bibliomane, riflessivo?

Come lettore ho vissuto stagioni differenti, e in ognuna di esse qualcuno di quei lettori che hai citato è prevalso, qualcuno è stato escluso. Il mistero e il fascino della parola scritta mi vennero incontro precocemente in una immaginetta devozionale di san Giorgio che combatte il drago. Mia nonna la teneva sul comodino, e in una delle tante notti di felicità in cui dormivo da lei, le chiesi di raccontami quella storia. Lei inforcò gli occhiali e prese a leggere la didascalia del santino, che era scritta sul retro. Trovai meraviglioso che da quei minuscoli segni ordinati in riga come soldatini si sprigionasse una storia con così tanti particolari che non potevano stare nell’immagine colorata ch’eppure mi aveva attratto, e ch’eppure era muta. Ecco, quello è il mito fondativo di me come lettore. Fui in principio un lettore incantato per voce altrui. Poi sono diventato, in breve, un lettore bisognoso, e tale sono sino ad oggi: la lettura come bisogno esistenziale, come strategia di senso. Con punte di passione, dunque lettore appassionato, per certi libri, in certe stagioni. Una passione che al cospetto dei miei anni sembra a me stesso una incongruente ingenuità, quasi una stolidezza senile. Ecco, per adesso sto rileggendo Dalla parte di Swann, nella lieve e luminosa traduzione di Giovanni Raboni, testo che da giovane avevo abbandonato, nell’edizione Einaudi, perché trovavo Proust insopportabile, così labirintico e farraginoso. Non era colpa di Proust, ma della traduttrice. Vi sono alcuni brani del romanzo che, riletti adesso, mi spingerebbero, di giorno, ad affacciarmi alla finestra e dire ai passanti «fermatevi per qualche ora, c’è qualcosa di più importante da fare, aprite quel libro, leggete la descrizione di una pioggia improvvisa, là dove dice ‘…simili a uccelli migratori che spiccano il volo tutti insieme, le gocce d’acqua scendevano giù dal cielo in ranghi frettolosi. Non si separano mai, non vanno mai all’avventura durante la veloce traversata; ciascuna sta al proprio posto e attira a sé quella che segue, e il cielo ne è oscurato più che dalla partenza delle rondini…’». E siccome di brani di simile bellezza mi capita di leggerli anche a ora tarda, allora mi affaccerei nel buio della notte per ululare di gioia alla luna. Trascinato dalla passione, indosso un altro abito della lettura che mi appartiene, divento in quei frangenti un lettore folle. Ma sono anche un lettore deluso, perché non è vero come afferma Montesquieu che «non c’è dolore che un’ora di lettura non possa dissipare». Io sono vissuto per anni nell’equivoco di questa convinzione (ben prima che mi imbattessi in Montesquieu), pretendendo dai libri quel che essi non mi potevano dare, e cioè di sollevarmi oltre le sofferenze, morali e fisiche, che tutti – chi prima chi poi, chi più chi meno – inevitabilmente incontriamo. Quella delusione resta, per così dire, sotto traccia, perché noi che li amiamo così tanto tendiamo ad assegnare ai libri una sorta di onnipotenza che, ahinoi, non hanno. Per questo mi professo anche un lettore laico, perché pur credendo che c’è più vita nei libri che nella vita stessa – dato che i libri ci fanno vivere molte più esistenze della sola che ci è data per natura -, mi accorgo, anno dopo anno, che c’è qualcosa nella vita che va oltre sé stessa, oltre i libri, oltre ogni nostra convinzione. Perciò non mi farò mai un vitello d’oro, nemmeno dei miei amatissimi libri. Per il resto, leggo un po’ di tutto, senza confini di generi o di latitudine o di tempi. Purché un libro mi dia un palpito o un guizzo di verità o mi metta di fronte a una domanda che nebbiosamente credevo di sapere ma non sapevo esprimere, quello è un libro da leggere. Infine, sono anche un lettore seriale, nel senso che vi sono autori di cui voglio avere fra i miei scaffali tutti i loro titoli, anche se so che non li leggerò tutti. Così il Simenon romanziere, il mio prefatore Hans Tuzzi (di lui ho però letto tutto), e fra la saggistica lo psicanalista junghiano Aldo Carotenuto. Et cetera.

In un’intervista hai detto che il tuo “è un libro che medita sulle parole, un libro sul senso della lettura. Non è mai indifferente una lettura: o la vogliamo imitare, o la vogliamo distruggere”. Mi piace l’idea del libro come paradigma con il quale ogni lettore, singolarmente e in base al proprio vissuto, si confronta. Leggere è come farsi una radiografia. Si sarà onesti nel leggerne il referto?

Come il carbonio è il mattone della vita, così la parola lo è per la scrittura, nelle sue diverse forme elementari, i suoi allotropi: il linguaggio prima, e la scrittura poi. Da lì il libro e infine la lettura. La parola esercita sulla nostra psiche una potenza immane. E quanto più la parola è una e solitaria, tanto più efficace è il suo imperio: dì soltanto una parola e io sarò salvato… I poeti fanno economia di righe, perché sanno che la tensione evocativa delle parole fa presto a dissolversi nel testo: M’illumino d’immenso. Al netto di pronomi articoli congiunzioni avverbi preposizioni e altre componenti grammaticali, in un romanzo troviamo non meno di cinquantamila parole (ma è un numero figurale, a spanna) fra aggettivi verbi e sostantivi. Sono una massa. Come possiamo sostenere che sono importanti, visto che sono tante, troppe già a immaginarle? Qui subentra l’ineffabile alchimia dello stile, l’istinto quasi animale dello scrittore, che trasforma la massa in folla, dalla folla estrae il coro, e dal coro sceglie i personaggi. E punteggia il testo, là dove occorre e dove non ce lo si aspetta, di parole che diventano immagini, con le sue personalissime magie. Le parole sono in certi romanzi esse stesse protagoniste, storie dentro una storia, e accendono la narrazione di luci improvvise e memorabili, che illuminano il cammino della storia dove ci stiamo muovendo. Ora però occupiamoci dello strano rapporto che intercorre fra letteratura e vita, e fra autore e lettore. La letteratura si ispira alla vita, e quand’anche rappresenta mondi fantastici e irreali, non può non raccontarli se non servendosi della stessa grammatica della realtà (causa ed effetto, prima e dopo, mezzo e fine eccetera), altrimenti quelle storie risulterebbero incomprensibili. Dunque siamo intesi: la letteratura ha come teatro la vita di qui (o un suo Altrove, ma con analoghe categorie), è la sua mimesi. C’è un pactum ludi fra l’autore e il suo lettore: l’autore finge, scrivendo, la vita; il lettore finge, leggendo, di crederci. Vivrà dunque l’invenzione come vera. Da sempre, letteratura e realtà si contendono la mente dell’uomo. Talvolta per gioco, talvolta per amore di un ideale di progresso e di verità. E il gioco può farsi insidioso, perché il lettore tende sempre a portare la “realtà seconda” del romanzo, ispirata a vario titolo alla vita, nella “realtà prima” della sua vita, invertendo il processo di imitazione iniziato dallo scrittore. L’esempio più clamoroso è Don Chisciotte, che si immedesima a tal punto nell’ideale cavalleresco, assorbito com’è dalla lettura dei libri di genere, da volerne imitare le gesta. Ora, noi spesso ci imbattiamo in buoni libri che, senza che gli scrittori ne avessero l’intenzione (perché se l’avessero avuta, sarebbe trasparsa nelle pagine, e la loro magia sarebbe svanita) ci propongono una ricerca di senso, ci prospettano un ideale, creano personaggi, ci formano. Qui dunque arrivo al nòcciolo della tua domanda. Leggendo un libro che amo, io mi confronto e mi soppeso, mi giudico per quello che di non saputo o di non vissuto il libro mi propone come paradigma. La lettura è un atto “ri-creativo”, perché attraverso il libro io guardo me stesso, “mi ri-creo”. In apparenza fuggo dal mondo e da me stesso, però poi, specchiandomi nel libro, io ritorno in entrambi. Per così dire, esco ed entro dal libro e dal mondo, le pagine sono come una gattaiola basculante. E in questo rapporto triangolare, vita-romanzo-lettore, la lettura diventa anche un atto etico. Nel senso di ethos, valore che conferisco al libro nel volerne imitare il contenuto, nel farne sequela. Ma è pure bello ricordare che il termine ethos aveva presso i Greci anche altro intendimento, ovvero il posto da vivere: il posto dove i libri ci invitano a soggiornare per tutto il tempo della lettura, o che ci invitano a costruire. Norma e viaggio, valore ed evasione. Se poi noi si sia onesti nel rifletterci nel libro o mendaci con noi stessi, questo è demandato al singolo. Sarebbe troppo pretendere che i libri ci costringano in qualche modo all’onestà. Per fortuna no, non accade, la lettura ci lascia liberi di mentire a noi stessi. Vorrei concludere, se me lo consenti, con un brano di sublime bellezza tratto da una lettera di Kafka, a proposito dei libri. E se poi il pensiero di Kafka risulta troppo alto per i nostri tempi, consoliamoci pensando che vi furono tempi migliori dei nostri.

«Bisognerebbe leggere, credo, soltanto libri che mordono e pungono. Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia come un pugno che ci martella sul cranio, perché dunque lo leggiamo? Buon Dio, saremmo felici anche se non avessimo dei libri, e quei libri che ci rendono felici potremmo, a rigore, scriverli da noi. Ma ciò di cui abbiamo bisogno sono quei libri che ci piombano addosso come la sfortuna, che ci perturbano profondamente come la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi, come un suicidio. Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi».

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