Campo a due

a cura di Ivana Margarese

 immagine in copertina di Berthe Morisot

 

Campo a due è un confronto generazionale tra due donne, Serena Todesco e Maria Rosa Cutrufelli. Entrambe amano la scrittura e condividono la passione politica per il femminismo.
Il testo ha una struttura composita, in parte diario, dove Serena Todesco racconta in prima persona, in parte conversazioni che danno vita un dialogo ininterrotto e stimolante tra esperienza e sperimentazione, passato e futuro.

 

Campo
a due
è un testo concepito, ripensato e redatto in vari momenti, in un periodo che va tra il 2015 e il 2019. Si tratta dunque di un progetto complesso e attento. Come è nata l’idea? Come  hai scelto il titolo?

Serena: L’idea è nata mentre stavo scrivendo la tesi che poi avrebbe portato alla pubblicazione del mio primo libro, Tracce a margine, dove mi occupavo di narrazioni storiche contemporanee a firma femminile in Sicilia. Avevo inserito Maria Rosa Cutrufelli tra le autrici su cui scrivere un capitolo monografico, e la contattai tramite Maria Attanasio per farle alcune domande. Fu gentilissima, ricordo che parlammo oltre un’ora su Skype. Quella conversazione diventò una intervista vera e propria che poi inserii sia nella tesi, sia nel libro nella sua versione definitiva. Notai soprattutto che mi trovavo a mio agio a scambiare idee e pensieri con Maria Rosa, nel senso che la sua esperienza parlava intimamente al mio percorso, di letture, di viaggi…Soprattutto, il suo nomadismo mi sollecitava a guardarmi dentro, perché risuonavano in me scelte e sensazioni simili, oltre ovviamente alla vicinanza con il mondo della letteratura delle donne e con il femminismo. In seguito ho ripreso l’idea, avevo persino proposto a un paio di atenei un progetto di ricerca più ampio, una cosa articolata dove mi concentravo sulle tantissime attività di questa scrittrice, dalla direzione della rivista “Tuttestorie” alla militanza. Venne a Zagabria nel 2014, ospite di un festival, e mi legai ancora di più a lei, poi ci vedemmo ancora più volte a Roma per le interviste (che non erano originariamente destinate a essere trascritte e rielaborate). Ogni volta che la ascoltavo parlare, pensavo “Quanto mi sta insegnando questa donna!”. Solo a distanza di qualche anno, però, ho capito che ciò che desideravo maggiormente era non perdere la sua voce, i suoi racconti, le sue impressioni, intrecciate alle mie – non solo sui temi-cardine del nostro dialogo permanente (femminismo, Sicilia e Sud, scrittura, politica, editoria…) – ma anche su argomenti che toccavano direttamente il mio situarmi come femminista siciliana che andava formando una propria voce critica.La sua affettuosa fiducia, la sua disponibilità e generosità, hanno fatto da collante in tutti questi anni. Campo a due è una variante di una frase coniata dalla psicoanalista Maria Teresa Aliprandi, ovvero “campo tra due”, una immagine da lei adottata per definire l’esperienza analitica. Mentre, in quel contesto, la preposizione “tra” esalta lo spazio intercorrente tra i soggetti coinvolti nell’analisi, ho prediletto il senso di agentività della preposizione “a”, come per parlare di un terreno dove due persone trainano insieme, agiscono insieme. Ecco, per me quella è la radice del femminismo, ovvero la relazione non gerarchica tra due, lo scambio aperto dove fare legame resta possibile.


Vi accomunano i natali siciliani. Qual è il vostro rapporto con la Sicilia e che ruolo ha nella genesi di questo libro?

Serena: La Sicilia è il luogo della partenza e del ritorno, in molti modi e tempi. È lo spazio immaginato di alcune storie di Maria Rosa, certamente, però è soprattutto un luogo dove, grazie alla scrittura delle donne, per me è possibile immaginare una cultura, un immaginario, una pratica politica che non operino continui tagli alle voci e alle storie delle donne. Proprio grazie al “campo a due” con Maria Rosa, dialogare di femminismo e letteratura diventa possibile e ridona senso anche al mio essere siciliana senza sentirmi in dovere di portare addosso gli stereotipi che solitamente accompagnano la nostra isola. La scrittura delle autrici siciliane della generazione di Maria Rosa ha rivitalizzato quell’opera di scardinamento della tradizione già iniziato da Maria Messina, da Elvira Mancuso e da tante altre scrittrici ancora prima di loro. Non solo, grazie a loro, a quel legame continuo che supera le distanze temporali, è possibile adottare uno sguardo meno scontato, più ambivalente sulla Sicilia; una brava scrittrice come Tea Ranno una volta ha dichiarato che in Sicilia le scrittrici hanno imparato a guardare come Verga e a pensare come Pirandello. Mi sembra una sintesi lucida e aderente alla realtà, perché nelle narrazioni di molte siciliane che hanno attraversato la seconda parte del Novecento si annidano fantasmi di vari tipi, palinsesti di memoria e oggetti sparsi, luoghi amati e rimpianti, scombussolamenti e freddezze inedite.
Da tante opere si eccede verso i territori che la letteratura ci traduce e ci filtra, e la Sicilia cambia, cangiante come il mare, su di essa si getta quella che Nadia Terranova ha
appellato ‘la luce bianca dello Stretto’, mettendo queste magnifiche parole in bocca alla sua personaggia Ida, in Addio fantasmi. Ecco la scrittura delle donne in Sicilia è luce, anche quando è immersa nelle ombre dell’io, che non è mai univoco e rassicurante, ma contiene sempre un’alterità. Da tanti romanzi delle scrittrici si apre un mondo dell’extra-testo, si ridanno alle lettrici e ai lettori le forme e le molte vite possibili, le rinascite di una regione che si reinventa sempre. Si riesce anche a immaginare una Sicilia fatta di giovani donne e uomini che possono cercare le ragioni di tante genealogie diverse, dalla politica alla storia del territorio. O, ad esempio, nel legame del “campo a due” sono emerse, per me, persone come la fantastica Edvige Giunta, studiosa con cui condivido l’amore per Maria Rosa, capaci di ricreare la Sicilia dentro le parole, riallacciandola alle diaspore e alla creatività che queste rappresentano.

 

 

Rimanendo in Sicilia, ti chiedo di Sciascia, che a un certo punto viene citato per la sua rappresentazione delle matriarche. La figura della “cumannera”, senza volere ovviamente generalizzare, a vostro parere è più tipica dei mondi del Sud?

Serena: Sono figlia di antropologo, per rispondere come si deve alla tua domanda, dovrei fare una ricerca sul campo, leggere, confrontare, scavare nelle cronache e negli archivi. Sicuramente, nel Mediterraneo vi sono strutture familiari che, per evoluzione storica, hanno mostrato tendenze di questo tipo, favorendo il rafforzamento del ruolo della matriarca legata alla casa e ai figli, ma non direi che questo riguarda solo i paesi del Meridione d’Italia o d’Europa. Da quel poco che so, l’attribuzione di forza e determinazione alle donne all’interno di una famiglia vive di radici molto più diffuse, ancestrali. C’è poi uno stereotipo assai dannoso, secondo me, proprio relativo all’idea che le donne del Sud siano “cumannere e, dunque, naturaliter dotate di potere e di autonomia. Parlando soprattutto con uomini siciliani, mi è capitato di sentire opinioni entusiaste sulla famosa frase di Sciascia; cioè si pensa che, effettivamente, soprattutto fino all’Ottocento, le donne in particolare delle comunità rurali abbiano saputo mantenere un potere decisionale assoluto sui figli, sulle finanze domestiche ecc. Troviamo queste istanze in Pitrè e in Salomone Marino. In realtà, io credo che questo continuo dipingere le donne come “potenti” fattucchiere capaci di controllare e manipolare mariti e figli abbia nascosto volutamente l’enorme problema di una autonomia decisionale femminile sul corpo, ad esempio.
L’appellativo “cumannera” è, ancora oggi, usato spesso con disprezzo e sufficienza, se ci pensiamo (il sotto testo sarebbe: “ma guarda te cosa pretendono queste donne!”, il che è abbastanza assurdo!) Ma è un discorso lungo che ci porterebbe lontano…

Nel libro si intrecciano al dialogo con Maria Rosa Cutrufelli alcune tue riflessioni personali. In una di queste a un certo punto scrivi: “Fu il professore di Storia e Filosofia a confermare che mi trovavo di fronte a unostilità apertamente maschile verso il mio essere non solo subalterna in quanto alunna, ma anche in quanto donna. Una volta ci disse apertamente che gli sembrava di perdere tempo a insegnare Filosofia a un gruppo di scimmie femmine. Nessuna, a parte me, notò il sessismo di questa affermazione offensiva”. Questo tuo ricordo mi ha colpita perché in esso risuonano alcune mie esperienze. Azioni verbali di svilimento che prima subivo con imbarazzo e adesso che ho maggiore consapevolezza invece sottolineo, anche nella speranza di contribuire a eliminare queste forme sottili di messa all’angolo dell’altro, che in questi casi è una donna. Vorrei un tuo parere su questo.


Non basterebbe un’enciclopedia di milioni di libri per descrivere la miriade di situazioni in cui una parola o una frase rivelano un intero mondo mentale fissato su stereotipi o sulle certezze granitiche che istruiscono sui modi in cui donne e uomini dovrebbero instaurarela comunicazione, i ruoli, le scelte di vita. Questo avviene in Sicilia, ma anche qui in Croazia dove vivo ora, o magari in una provincia sperduta degli Stati Uniti o dell’Inghilterra, o del Giappone. L’ostilità verso la libertà femminile è, temo, abbastanza universale e risale a molto lontano.
Elena Ferrante ci ha insegnato che la latitudine non determina necessariamente il tasso di progressismo nei rapporti tra i sessi, anzi proprio il contrario, perché certe fenomenologie umane sono globali e pervasive. Lo svilimento delle donne, sin da quando sono bambine, fa parte di questa pervasività, di questa violenza epistemica, lo sappiamo peraltro da Elena Gianini Belotti. Studiando con molto rigore e lucidità i testi di Ferrante, Tiziana de Rogatis parla giustamente di un primordialismo che ritorna e che avanza, proprio a partire dal linguaggio del quotidiano. Dietro le parole ci sono rapporti di forza, però è anche possibile scardinare e far sgretolare queste posture. Le storie, soprattutto, aiutano ad aggiungere e a complicare ciò che lo stereotipo vorrebbe semplificare e imporci nel quotidiano. Personalmente non credo nelle pratiche organizzate e codificate di un immaginato “politicamente corretto”, perché oltre le parole e i codici identitari ci sono le persone, con un proprio vissuto, con le convinzioni e le stratificazioni culturali e psicologiche. Dunque certo, combattiamo lo svilimento maschile sulle donne, parliamone e denunciamo quando accade, ma lasciamo anche che il cambiamento arrivi in mille rivoli, senza irrigidirci in atteggiamenti rivendicativi e senza aspettarci che giunga per via normativa, lineare, pianificata. Questo è naturalmente il mio pensiero personale, non pretendo valga per tutte e tutti.

Dici nel libro: “Non è un problema di teorie, ma di desiderio. Almeno per me. E daltronde diffido delle narrazioni che nascono da un interesse esclusivamente teorico”…”. Dal mio punto di vista questa affermazione è molto veritiera sia come esperienza teorica – e penso ad esempio a La vita della mente di Hannah Arendt – sia come esperienza pratica nella mia attività di insegnante – senza il desiderio il processo educativo si spegne. Vorrei quindi un tuo commento sulla tua affermazione.

Maria Rosa: C’è un momento, nella vita di una scrittrice o di uno scrittore, in cui la passione per le storie e le parole scritte diventa ‘anche’ lavoro, ‘anche’ mestiere. Questa è una svolta importante (segna la conquista di una consapevole professionalità), ma, al tempo stesso,è un momento pericoloso, perché è facile perdere la propria bussola interna e dimenticare la spinta iniziale, quella che ci ha costretto a passare giorni e giorni (anzi anni e anni) davanti a una risma di carta bianca (o a un computer). Il desiderio d’immaginare e di raccontare può essere sostituito da altri desideri, senz’altro legittimi (il successo, il favore dell’editore, il consenso del pubblico), ma che hanno poco a che fare con la fatica – e il piacere – della scrittura. Il vero problema, per chi scrive, è mantenere l’equilibrio fra questi due poli: professione e creatività. E l’unica via praticabile è, a mio giudizio, tenere (cercar di tenere) sempre accesa la fiamma iniziale, ossia il desiderio di raccontare(desiderio antico ma sempre nuovo) a partire dai propri fantasmi interiori. O, almeno, senza ignorarli. Per questo dico che un libro, magari bello, magari importante, che però nasce esclusivamente da una teoria, dal bisogno di incarnare una teoria, rischia di restare ‘freddo’. E un libro ‘freddo’ difficilmente è innovativo.

Femminismo e maternità è uno tra i tantissimi temi che emergono nel corso del vostro dialogo. Vi chiederei di fare un breve focus su questo argomento ancora oggi per molti versi perturbante e conflittuale.

È una domanda vastissima, perché parlarne significa riferirsi a più livelli di rappresentazione e di immaginario. Oggi si parla e straparla di maternità in letteratura, oramai il tema è esploso, perché le tante scritture diverse conducono a riflessioni e riscoperte teoriche tra le più varie, a volte polarizzate. Alcune visioni sono per me più significative e preziose di altre (penso alla maternità nelle opere di Elena Ferrante, ad esempio, o al magnifico discorso di Adriana Cavarero durante un seminario dello scorso autunno al Gender Lab della Unistrasi, dedicato al contatto della singolarità vivente e incarnata con il processo della zoè). Il racconto della maternità diventa per me più acuto e profondo se scava nell’oscuro materno – il tremendo materno di Ferrante, la frammentazione della smarginatura.
La
scrittura di tante autrici, o di filosofe come Cavarero, Maria Zambrano e Hannah Arendt spesso mi aiuta a capire le asperità del tema, mostrandomi anche le ricadute assolutamente concrete nel quotidiano. Il femminismo ha tutt’ora un rapporto assai complicato con l’idea di maternità, perché permane il fantasma del sacrificio, oppure si preme ancora una volta su visioni di misticismo della maternità. D’altra parte, il corpo femminile anche in quanto corpo capace di generatività è uno spazio di conflitto oggi più che mai; proprio su questo aspetto il femminismo italiano si sta letteralmente lacerando, soprattutto una certa prospettiva neoliberista ha, per me, il grande demerito di aver consegnato agli estremismi di destra il compito di custodire – anche linguisticamente – lo spazio del materno, peraltro esaltando l’individualismo e il benessere del sé per sé.
Le scritture di Maria Rosa Cutrufelli (penso all’Isola delle madri) vanno in direzione contraria, perché sfidano le sicumere dell’individualismo, proponendo pratiche di relazione che smussano il rischio di estremizzare un’ideologia del materno che sia solo biologica, o solo culturale, senza dimenticare la singolarità della materia vivente coinvolta.


 All’interno del testo fai un riferimento ad Anna Banti e scrivi: “Nel 1948 Banti scrive un bellissimo racconto, Le donne muoiono, in cui si chiede (e ci chiede) perché questo avviene, perché le donne muoiono, scompaiono, si dissolvono nella Storia, mentre gli uomini no. La sua risposta è che le donne, a differenza degli uomini, non hanno la seconda memoria”, cioè la memoria del passato, che per lappunto viene trasmessa solo di padre in figlio. Insomma alle donne manca una genealogia femminile, il racconto di sé nel tempo storico. Ed è precisamente questo che vorrei fare con il mio lavoro: restituire alle donne la memoria di sé”. Restituire alle donne la memoria di sé è un compito fondamentale e prezioso per favorire un cambiamento in termini di consapevolezza e interazione. Vorrei però chiederti del tuo legame con Anna Banti? È una scrittrice che ami? Quali libri hanno per te costituito una scoperta?

Maria Rosa: Anna Banti è tutta una scoperta! Per il suo modo di tessere una difficile genealogia femminile, riportando in vita figure come Artemisia Gentileschi, o inventando ‘personagge’ ribelli, determinate e avventurose come Lavinia (nel racconto lungo ‘Lavinia è fuggita’). E soprattutto per il suo modo di raccontarle, che rifugge da ogni possibile vittimismo. Non è un’operazione semplice raccontare le donne, che sono assenti, per l’appunto, nel ‘tempo storico’. Cioè nella memoria collettiva. Lo dice magistralmente Edith Wharton, nella sua autobiografia (“Uno sguardo indietro”, ed. Elliot). Dei suoi nonni e dei suoi bisnonni (ossia degli uomini della sua famiglia) può ricostruire facilmente la vita, ma quando vuole cimentarsi con la vita delle nonne e delle bisnonne… il vuoto! Nessuno sa dirle niente e la loro esistenza, scrive Wharton, è riassunta dall’espressione: “Le signore, Dio le benedica!” E questo è tutto. Per fortuna ci sono le scrittrici, alcune scrittrici, che non si lasciano spaventare dal vuoto e dall’assenza e che provano a dare forma alla vita dimenticata delle donne.

Anna Banti è tra le prime ad aver tentato quest’impresa impossibile (o quasi).
Ma il libro di Banti che mi ha sorpreso di più è “Noi credevamo”. Il primo (o comunque uno dei primi) romanzi che raccontano l’Unità d’Italia dal punto di vista di un meridionale, e che mette in scena la disillusione, le speranze perdute. Una sfida a quella retorica risorgimentale che affligge tanti testi a firma maschile. Il protagonista è un gentiluomo calabrese, un garibaldino repubblicano (figura immaginaria, ma ricalcata sul nonno dell’autrice stessa), che racconta la sua ‘rivoluzione tradita’. A lui Anna Banti fa dire una frase che a una donna della mia generazione risuona molto familiare: “Noi, dolce parola. Noi credevamo”.

Lemergenza climatica e i suoi effetti sui corpi e sulle relazioni tra esseri umani: questo è il sottofondo de “Lisola delle madri”, pubblicato nel 2020 da Maria Rosa. Vorrei domandare qualcosa di questo libro che secondo me è possibile traccia segreta per leggere “Campo a due”.

Serena: L’isola delle madri contiene un’intuizione formidabile sul valore del legame tra donne, sulla dimensione del desiderio capace di superare il controllo patriarcale sulla maternità e sulla generatività, anche se il racconto può risultare spaesante e distopico, con tanti lati oscuri (ad esempio, le differenze di classe tra le protagoniste, le diverse interpretazioni del desiderio di maternità…).
Si tratta
soprattutto di un romanzo assai lucido e rivelatore del tempo che stiamo vivendo, perché esplora le possibilità di una resilienza femminile a fronte della devastazione contemporanea del pianeta. Amo il fatto che contenga riferimenti e omaggi al pensiero di donne dal coraggio straordinario, come Rachel Carson e Margaret Atwood. Soprattutto, mi piace il modo in cui la pratica anomala di una maternità condivisa venga narrata a partire dall’evento della nascita stessa, dalla figlia che cerca l’origine. La sua storia restituisce peso e valore all’idea di una necessaria genealogia femminile che spesso oggi tendiamo a perdere, o a dare per scontata. Questo bisogno di recuperare ciò che è stato tramandato dalle donne che sono venute prima di noi è, secondo me, un fulcro del femminismo contemporaneo, da non dimenticare.

Maria Rosa: Quello che posso dire è che, in questo libro, ho cercato di raccontare un modo diverso d’intendere la maternità. Non più vista come ‘destino’ e nemmeno come ‘scelta’, ma come ‘campo’ (per l’appunto) di relazioni. Come progetto che non è più strettamente personale (o familiare), ma che va oltre la singola donna (o la singola famiglia). È un progetto di vita che chiama a una nuova responsabilità collettiva, a un modo diverso di muoversi in questo nostro mondo devastato. Il futuro, mi vien voglia di dire, non è (non più) una somma di singoli desideri o di singole scelte, ma una visione condivisa.

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