la danza della vita ruganti

Racconti dal dolore minimo. Intervista a Nicola Ruganti

di Ginevra Amadio

 

Sono piccole storie quelle di Nicola Ruganti. Voci da un universo sommerso, abitato da individui invisibili, diversi, campioni di un’umanità che non si racconta eppure contiene mondi, moltitudini esistenziali. Meglio che qua, uscito per i tipi della casa editrice Il barrito del Mammut si presenta così, come un romanzo di voci e sentimenti, di spunti ed esperienza che si ricongiungono in un luogo chiamato anima.

I suoi personaggi sono figure ‘da parete’, uomini, donne e bambini confusi nella massa, di cui ci si accorge solo in occasione di lutti o tragedie, come ha ben sottolineato Luigi Cancrini nella prefazione. Perché ha deciso di eleggerli a protagonisti?

I personaggi di meglio che qua siamo noi e sono le persone che incontriamo tutti i giorni. Ho scelto il quotidiano perché sento che la sfida per la proposta di cambiamento in meglio bisogna che parta dalla realtà che viviamo. Ci sono scrittori che propongono questo attraverso racconti di finzione, oppure che propongono avventure esemplari con personaggi straordinari: in Meglio che qua ho sentito una spinta ben precisa verso racconti in cui il colpo di scena è rappresentato dall’imprevisto che ci assale mentre siamo bambini e giochiamo a un campo scuola; oppure quando andiamo dal macellaio e un dialogo ci squarcia pensieri insondabili.

La mia proposta con Meglio che qua è innescare nel lettore un’immedesimazione nel personaggio che vive una vicenda dolorosa, liberatoria, straziante e gioiosa che con molta probabilità è accaduta alla cugina, ad un amico lontano oppure a noi.

Se l’immedesimazione accade può darsi, per me è auspicabile, che le storie allora diventino un pensiero, un suggerimento ad aggiungere un punto di vista, una proposta di cambio di prospettiva, nella nostra vita. Nel nostro quotidiano quando la vita, con tutto il suo battito imprevedibile, ci arriva addosso e sta a noi scegliere.

C’è, in questa poetica degli esclusi, una traccia di eredità morantiana, o meglio ancora la lezione di una narrativa capace di leggere, in queste figure fragili, una speranza di futuro, di riscatto, a fronte di un’umanità anestetizzata e ipocrita. A quali autori ha guardato, quali modelli ha – come spesso accade in letteratura – inconsciamente introiettato?

È un tempo di sfide concrete: come vivere dentro una pandemia nell’epoca contemporanea, che opinione avere sulla guerra alle porte, ma non solo, c’è anche l’ingaggio quotidiano davanti alla frustrazione che colpisce noi e chi ci sta vicino, oppure sensazioni di sollievo effimere portate aventi in sostanziale e quotidiana rimozione dall’affrontare i problemi nella loro interezza, e potremmo continuare.

Davanti a questo panorama, in cui non siamo spettatori, ma attori il punto che ritengo più interessante è che sentiero percorrere per la felicità. Quale via imboccare affinché io possa vivere esperienze di felicità e anche le persone intorno a me, in particolare tutte e tutti coloro che hanno minori possibilità?

Rispondere alla vostra domanda per me significa rispondere anche a questa ultima domanda; per me la letteratura deve avere la capacità di arrivare a tutti, ed è, per me, un impegno importante impegnarmi per questo obiettivo.

Mentre scrivo non penso a nessuna scrittrice o nessuno scrittore, ma rileggendo le novelle di Meglio che qua penso che quello che ho provato leggendo Verga e Pirandello sia qualcosa di profondo che mi ha segnato. I segni di quelle letture, i segni lasciati da Rosso Malpelo o da Il treno ha fischiato sono ben marcati. Tenendo presente che per me la scrittura è lo strumento per la proposta, non facile, del riscatto personale e collettivo.

Meglio che qua Nicola Ruganti

Lei ha scelto la forma racconto, sempre meno praticata nel panorama editoriale odierno. Io ho la sensazione che questo genere sia il solo in grado di esprimere il dolore minimo, di raccontare i frammenti dell’oggi, le piccole tragedie del quotidiano intrecciate ai drammi del mondo. A cosa si deve la sua scelta?

In questi anni ho avuto la necessità – con i racconti pubblicati in Meglio che qua, e anche con tutti quelli che sono rimasti fuori dal libro – di entrare in molte storie di vita che mi sembravano utili a leggere il presente. Il romanzo ha un’esigenza di correlazione della storia, l’intreccio ha un peso importantissimo, per quanto mi riguarda il tempo che ho passato a scrivere i miei racconti era un tempo segnato dalla impellente spinta a scrivere un diario di vite. Un diario di vite fatto da tanti racconti che avessero la possibilità di entrare nelle case, nei momenti di lettura e riflessione delle persone.

Le novelle di Meglio che qua hanno temi e temperature diverse, raccontano età e momenti di vita diversi: ho sentito che il racconto aveva le caratteristiche giuste per le storie che incontravo.

Il titolo, Meglio che qua, racchiude già in sé il senso di una mancanza, di essere dolorosamente nello spazio del ‘non’: né dentro né fuori, senza storia e senza comunità. Meglio che qua come a dire: “non può essere peggio di così”.

Meglio che qua racchiude in sé un dilemma radicato in me fin dai primi ricordi dell’infanzia e che mi ha accompagna nell’età adulta: andare o restare? Rimanere dove siamo o cambiare?

Colgo l’occasione per dire che le novelle di Meglio che qua non sono necessariamente riferite a luoghi e spazi, ma sono anche, e soprattutto, un riferimento alle posizioni mentali che ognuno di noi tiene.

La domanda che attraversa tutti i racconti, e quindi tutto il libro, è: rimango nella mia posizione, dolorosa o comoda che sia, oppure mi sposto, facendo la rilevante fatica di vedere le cose della vita da un altro punto di vista?

Ci sono comunità di riferimento che abitiamo per prassi; esperienze puntuali che durano un tempo breve che ci appartengono molto di più; ci sono radicamenti in vicende che riguardano tutta la nostra vita che hanno il sapore della liberazione e situazioni di felicità estemporanea che possono rivelarsi una boccata d’ossigeno oppure l’asfissia.

Il punto è decidere, consapevolmente, qual è, di volta in volta, il nostro Meglio che qua: niente è meglio che qua oppure meglio che qua qualunque cosa?

Il suo è uno stile piano, misurato, una scrittura che lavora per sottrazione. Anche lo sguardo è quanto più ‘neutro’, come un occhio fotografico che osserva e fissa le dinamiche in atto. A cosa si deve la scelta del distacco, sostenuta anche dall’uso della terza persona?

Non sento un distacco, sento piuttosto un impegno significativo a dare dignità ad ognuno dei punti di vista dei personaggi. Questo determina il fatto che sia nel caso della prima persona sia nel caso della terza persona ci sia un rispetto grande della situazione raccontata.

Lavorando sulla scrittura in questo modo ho cercato di prendermi le mie responsabilità nel raccontare storie di possibile emancipazione, storie di persone sulla soglia di scelte dirimenti.

Spero che il risultato di questa impegnativa attenzione sia che il lettore si senta libero di vivere le vicende raccontate e scelga dove collocarsi, secondo il proprio sentire e il proprio riflettere.

In copertina: La danza della vita, Edward Munch, 1889-1900, Galleria Nazionale di Oslo

 

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