05 Mag “Vite parallele e fantastiche di Pellegra Bongiovanni e Teresa Bandettini”: in dialogo con Giulio Mozzi
a cura di Ivana Margarese
Vite parallele e fantastiche di Pellegra Bongiovanni e Teresa Bandettini è il tuo racconto per Tetra. Vorrei esplicassi la ragione dell’aggettivo «fantastiche» dal momento che sia Pellegra Bongiovanni sia Teresa Bandettini sono due poete realmente esistite, di cui tu peraltro documenti per quanto possibile le vite con dovizia di particolari.
Non mi sono dato lo scopo di raccontare la vera vita di Pellegra Bongiovanni e Teresa Bandettini. Ho letto un po’ di cose, certo, ma molto meno di quanto sarebbe servito per un lavoro scientifico. Non ho nemmeno le competenze: non sono uno studioso di letteratura, non sono un filologo. La «fantasticheria» è soprattutto verbale: ho usato una quantità di anacronismi linguistici – «star system», «coach», «crowfunding», «roba da Beatles» eccetera – e di parole che in un saggio vero e proprio sarebbero decisamente fuori registro – «carucce», «bruttini», «aveva premuto il culo», «patriotticissima», «rococheggianti», «carinerie», «pettegolissime» – per dare a tutto il racconto il tono, appunto, più della fantasticheria che del resoconto. Anche la narrazione ondivaga, divagante, in cui si salta di palo in frasca senza nemmeno un «a capo», ha – secondo me – la struttura del sogno.
Pellegra Bongiovanni è una figura misteriosa, di cui si sa assai poco, ma che intraprese un’impresa coraggiosa: quella di scrivere un’opera in cui immaginandosi Laura risponde ai componimenti di Francesco Petrarca, Risposte a nome di Madonna Laura alle Rime di messer Francesco Petrarca, pubblicata nel 1762.
Il tuo incontro con Pellegra Bongiovanni inizia tempo fa e ha a che fare con un dono. Potresti raccontarcelo?
Come si legge nel testo, incontrai il nome di Pellegra Bongiovanni leggendo un saggio sulle scrittrici di quel tempo. La bizzarria della sua impresa mi colpì; e quando scoprii l’esistenza di un’edizione critica delle sue Risposte me la procurai. Mi sembrò un libro geniale. Questo avveniva una decina d’anni fa. La vaga idea di scrivere qualcosa su Pellegra mi girò per la testa, come tante altre cose mi girano per la testa, per qualche anno. Poi mi fu donata la prima edizione delle Risposte – un oggetto che, fantasticando, la stessa Pellegra poteva aver avuto tra le mani – e il proposito si fece molto più serio. Ma ancora non riuscivo a trovare il bandolo della matassa. Lo trovai quando mi imbattei in uno scritto di Luigi Fornaciari, un letterato dell’Ottocento, su Teresa Bandettini. La celebrità di questa, e l’oscurità della Bongiovanni, mi tentarono a scrivere qualcosa che le mettesse a confronto. Poi, quando mi misi a scrivere – torrenzialmente, secondo il mio solito – la faccenda mi prese la mano: la storia di queste due donne si è trasformata in qualcosa di autobiografico, e in una riflessione sulla condizione di chi, come me, dedica una parte importante della propria vita alla scrittura.
Il tuo racconto contiene alcune riflessioni personali sullo stato della letteratura oggi, sul suo scopo o meno e sul tuo lavoro di insegnante: «Da trent’anni campo insegnando quella cosa che oggi è chiamata, con orribile calco sull’inglese, scrittura creativa, e che una volta era Retorica, o Belle lettere, o Bello scrivere; e da una decina m’è venuto l’uzzolo di conoscere, e anche collezionare un po’, la teorica e la manualistica pubblicata su questa materia nei secoli scorsi: se non altro per poter rispondere a ragion veduta a chi periodicamente si alza in piedi a dire che la scrittura non s’insegna». Cosa lega queste tue considerazioni alle due figure femminili di questo racconto?
La letteratura era, nel Sei-Settecento, qualcosa di molto diverso da ciò che è adesso. Era una pratica sociale diffusa – nelle classi colte, ovviamente –, addirittura obbligatoria. Saper scrivere un decente sonetto era importante come sapersi vestire bene o saper ballare senza pestare i piedi al partner. Ed era quindi del tutto ovvio, all’epoca, che la pratica della letteratura si insegnasse e si apprendesse. Nel nostro tempo convivono un’idea della letteratura come mestiere – con tutto il corteggio di ciò che un mestiere implica: la preoccupazione per i soldi, l’insistenza sulla tecnica, la caccia al successo e così via – e un’idea di letteratura quasi sacrale, come se la letteratura avesse lo scopo, che so, di sanare i dolori del cuore umano o di salvare il mondo. Io penso che la letteratura sia uno dei tanti modi, uno dei più potenti, in cui le persone stanno in relazione tra loro – anche a distanza di migliaia di chilometri o di anni. Non sopporto la sua riduzione a una tecnica, e non sopporto nemmeno l’enfasi con cui talvolta se ne parla. Pellegra Bongiovanni e Teresa Bandettini suscitano in me una certa nostalgia, la nostalgia di una letteratura considerata solo per quel che è: una cosa umana, per mezzo della quale gli umani si parlano.
Teresa Bandettini, a differenza di Bongiovanni, fu celebre, applaudita e ammirata. Fu anche amica di Vincenzo Monti, in quegli anni all’apice della fama in qualità di quasi poeta ufficiale di Napoleone per i paesi di lingua italiana. Sapresti descriverci la loro amicizia?
No. Non conosco abbastanza le loro vite. Non sono, ripeto, un ricercatore, uno storico o un sociologo della letteratura. Sono uno che fantastica.
Scrivi tracciando un ritratto delle letterate di fine Settecento:
«Quel che è certo è che tra le varie improvvisatrici che, sempre in concorrenza tra loro, percorrevano – avide di fama, riconoscimenti e quattrini – i salotti di tutta Italia e le affollatissime assemblee degli arcadi, non doveva correre sempre buon sangue; esse oscillavano, scrive Tatiana Crivelli in La donzelletta che nulla temea, già citato, “fra il desiderio di instaurare un fronte comune di solidale difesa degli interessi femminili e il timore di vedere eclissato dal successo dell’altra il proprio spazio di celebrità”; né mancavano le tenzoni, le sfide, i concorsi più o meno truccati, le scommesse, le sponsorizzazioni autorevoli, i furti di rime, le claque plaudenti o fischianti; e quanto ai quattrini, questi giungevano spesso dagli estimatori, o dagli amanti, o dagli estimatori-amanti, o come rimborso spese per la partecipazione a questo o quel ricevimento, a questa o quella serata poetica». Pensi che qualcosa sia mutato nei rapporti tra donne, viste le significative conquiste del Novecento, o si è ancora ferme a quell’oscillazione, certamente “umana troppo umana”?
Credo che, come sempre nella storia, la differenza stia soprattutto tra chi è ricco e chi è povero.
Una donna che improvvisava versi suscitava meraviglia e poteva essere ammirata in questo dilettevole stupore fintanto che non avesse avuto l’ambizione di pubblicare e reclamare uno spazio che si posiziona sul principio di realtà. Per le scrittrici del tempo era una colpa l’ambizione? A me pare una faccenda complessa anche potere stabilire cosa sia o non sia davvero ambizioso. Tu hai un tuo punto di vista sull’ambizione?
Per osar prendere la parola in pubblico ci vuole una certa ambizione; di più, ci vuole anche un pizzico di vanità. Io credo di essere bravino a scrivere, e una schiappa – che so – a cantare: per questo scrivo, e non canto. La mia ambizione è fare al meglio delle mie possibilità qualcosa per cui mi pare di avere un certo talento. Naturalmente mi fanno piacere i riconoscimenti: e non me ne sono mancati. Non farei nulla, tuttavia, al solo scopo di ottenere un riconoscimento. So che questo è il mio comportamento perché me lo posso permettere. Se fossi messo a confronto con il bisogno, non so come mi comporterei.
C’è un passaggio del racconto che vorrei condividere: «E, insieme, da questi fasti da quattro soldi, da queste glorie di cartapesta, da questa società letteraria tutta inchini e vezzeggiamenti, mi saliva su una sorta di malinconia; una sorta di nostalgia, addirittura. Sono trent’anni che pubblico libri, e sono trent’anni che devo fare i conti con l’irrilevanza della letteratura e con la vacuità della Repubblica delle lettere». Susan Sontag scriveva che la nostra società affida la sua memoria alle immagini fotografiche non vedendone la vulnerabilità, il loro essere qualcosa destinato facilmente a scomparire. Come la fotografia di Sontag, questo tuo racconto potrebbe essere un “grato” memento mori?
Da un secolo e rotti si celebrano periodicamente i funerali del romanzo. Oggi è di moda sostenere che la letteratura sta morendo – perché sta scomparendo la pratica della lettura. Ma io non possiedo una sfera di cristallo nella quale intravedere il futuro. Sì, ho spesso la sensazione di essere uno che pratica un’arte moribonda. Sarà quel che sarà. Io posso solo badare alla mia opera.
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