Bayo Akomolafe: “forse anche il mondo vuole rendere noi dei posti migliori”

a cura di Ivana Margarese in dialogo con Rebecca Rovoletto

 

Un pianeta in mutazione epocale chiede di ripensare alle nostre epistemologie e posture. Servono immaginari potenti che stimolino una riconnessione con l’immanenza e l’agentività del mondo, che da sempre plasma la nostra antropologia ed ecologia. La proposta di Bayo Akomolafe, intrisa della sua tradizione yoruba, ci accompagna a toccare i bordi del nostro essere umani-mai-del-tutto-umani in un mondo “scandalosamente” vivente.

 

 


 

Comincio col chiederti da dove nasce questo vostro gruppo di lavoro su Bayo Akomolafe.

Il gruppetto che si è creato, nasce da un’onda atmosferica del tutto stocastica, come lo sono i fenomeni “naturali”. Un paio di anni fa, indipendentemente l’uno dall’altra, io e Fabrice Olivier Dubosc intercettiamo questo autore sconosciuto e iniziamo a studiarne le proposte epistemiche. Fabrice, egli stesso autore e psicologo decoloniale, aveva già dato vita al gruppo di ricerca e al blog “Clinica della crisi” come spazio di riflessione sui temi globali che affliggono quest’epoca. Io, da una prospettiva ecologica multidisciplinare e da attivista territoriale, avevo appena co-fondato l’associazione Ecotòno che sviluppa progetti di rigenerazione ecologica da una prospettiva de-antropocentrica. Finalmente, ci conosciamo e le belle energie convergono. Ne nascono la traduzione del saggio “Queste terre selvagge oltre lo steccato”, che uscirà a maggio per Exòrma, e il sito postactivism che raccoglie altro materiale tradotto in italiano.
Sia pure provenendo da percorsi diversi, ci accomunano varie cose, tra cui il contatto con comunità native, che ci hanno aperto a cosmologie e ontologie altre. Ciascuna e ciascuno di noi da tempo si interroga sui cortocircuiti delle nostre impostazioni, anche quando si pongono a critica: decolonizzare il pensiero e le pratiche è una operazione detox abbastanza profonda, che non riusciamo ad affrontare se rimaniamo dentro al paradigma della modernità occidentale (coloniale, capitalista, patriarcale).


 

Etica ed etologia hanno la stessa radice?

Bella domanda perché pone l’attenzione sul nostro modo di definire cose e concetti. Etica ed etologia non solo hanno etimologicamente la stessa radice ethos, ma direi che sono la stessa cosa. Solo che il nostro sistema di pensiero ha sempre bisogno di separare l’Uomo dal “resto del mondo”. La comune accezione di etica ha una genesi confessionale, quindi morale, che esalta l’esclusività delle scelte di comportamento umane; mentre l’etologia moderna ha ascendenze illuministe-meccaniciste e presume di osservare da pura spettatrice i comportamenti animali, incluso l’uomo in quanto primate. In entrambi i casi l’umano è ontologicamente “altro da tutto il resto”. È la stessa separazione che incontriamo in mente/corpo o cultura/natura che struttura il nostro Zeitgeist: polarità problematiche in un mondo intra-agente, ben approfondito dai lavori di Gregory Bateson e Philippe Descola. Il comportamento, anche quello “mentale”, umano o nonumano, è sempre un movimento ecologico in quanto relazionale, sempre collettivo, transcontestuale, multisoggettivo e multispecie. L’invito, di cui anche Akomolafe si fa carico, è quello di spostarci di lato rispetto alle categorizzazioni abituali, facendoci accorgere dell’agentività (agency) nonumana, a-morale del mondo e considerando il nostro essere nel corpo immanente e cosmico della Terra.

Timothy Morton è un pensatore con una visione originale del rapporto tra uomo e ambiente. Quali sono i concetti del suo pensiero che trovi interessanti mettere in evidenza?

Morton è tra l3 esplorator3 più radicali nella direzione postumanista – ricordo che la sua Ontologia Orientata agli Oggetti sfilaccia a fondo i confini dogmatici tra i corpi. A Morton dobbiamo la formulazione del concetto di iperoggetti: entità talmente vaste, queer, pervasive, non-localizzabili e vischiose da sfuggire alla nostra comprensione. Caos climatico, mercati finanziari, logistica globale, estinzioni di massa, estrattivismo, biosfera, lo stesso Antropocene sono incatturabili come “oggetti” in un silo concettuale, pur determinando la realtà che esperiamo. Possiamo maneggiarne solo frammenti, solo alcuni aspetti, mai la loro intricata enormità. Accettare l’irriducibilità di questi “fenomeni”, come chiave di lettura del mondo, è una sorta di resa consapevole dell’antropocentrismo di sorveglianza, per imparare a navigare incertezza e complessità, come definite da Nassim Taleb. Ma dentro a questa mostruosità (nel senso latino del termine) c’è una postura ludica, ben evidenziata da Morton e peraltro comune a tutto il vivente, che si richiama alla nostra competenza antropologica mitopoietica, quella che ci ha fatto dipingere rocce ipogee nei momenti più eco-critici della nostra storia di specie. Questa idea di gioco, come luogo di sperimentazione, di allenamento all’immaginazione, di apertura a ordini di grandezza altrimenti inaccessibili è, secondo Morton, un modo per liberare il desiderio dalla domesticazione, dai recinti elettrificati della modernità e “fare mondo dalle rovine”.

Ti domando di introdurmi brevemente la figura di Bayo Akomolafe e il suo concetto di Afrocene.

Bayo Akomolafe è un intellettuale emergente, che intreccia una solida formazione accademica “alla maniera occidentale” con la cosmologia yoruba delle sue origini. Ha una capacità non comune di transitare i confini disciplinari, quelli del pensiero critico e quelli archetipici usando un linguaggio poetico, praticando la diffrazione della fabulazione speculativa teorizzata da Donna Haraway. Direi che usa, sul piano narrativo, quella competenza ludica di cui abbiamo appena detto che si esprime anche con l’invenzione di neologismi spiazzanti e spesso ironici. Uno di questi è appunto “Afrocene”, ovvero tutto ciò che il riflettore della modernità ha oscurato, marginalizzato, reso patologico o folckloristico. Afrocene è, da un lato, una epistemologia decoloniale – asse portante del lavoro di Akomolafe – che problematizza la struttura e la lettura eurocentrica dell’assetto del mondo (sia quella dominante che quella della critica tradizionale) e la sua hybris soluzionista. Dall’altro, è una proposta situata che recupera elementi comuni a molte tradizioni indigene, come l’invito al rallentamento (slowing down), al prestare attenzione alle “ombre” e ai mostri, al riconoscere la generatività delle crepe e l’intelligenza non-esclusivamente-umana del mondo, al sostare con la perdita e il trauma cui “l’intrusione di Gaia” ci sta sottoponendo. È un modo diverso di intendere la respons-abilità come impegno politico alla comprensione somatica del mondo, attraverso pratiche radicali, pensiamo alla descolarizzazione teorizzata da Ivan Illich ad esempio, che possano consentire l’emersione di possibilità differenti.

Riconoscere ciò che si crede una maniera fissa o stabile del nostro modo di essere come postura apre a un ripensamento di categorie rigide che spesso conducono a fanatismi e conflitti. C’è da dire che nell’ambito della filosofia occidentale già lo stesso Kant nel Settecento con la sua rivoluzione copernicana ha proposto una concezione diversa del soggetto e del suo abitare il mondo, che ancora oggi potrebbe essere preziosa in termini di collaborazione e pace, quantomeno tra gli esseri umani?

Mettiamola così. Nell’orizzonte delle filosofie occidentali e nel paradigma centrato su anthropos, il suo impianto critico di certo prospetta un superamento etico delle impostazioni meccanicistiche, cartesiane e baconiane, che lo hanno preceduto. Ma spostare Homo da predatore (della ‘natura’ e dei suoi simili) a buon amministratore non tocca il cuore della questione. Kant è il filosofo illuminista che sistematizza la figura antropocentrica moderna, in chiave morale, del buon pater familiae. La critica kantiana si porta dietro quei grossi grumi che sono l’astrazione, il dualismo dialettico soggetto-oggetto, l’apriorismo e l’universalità delle categorie. Il problema che si pone oggi è proprio la centralità di un Uomo universale, depositario del vero, del giusto e del sublime – sia pure dal punto di vista gnoseologico – all’irrompere di forzanti planetarie che non si “conformano a regole precise” e richiedono uno shift di postura conoscitiva. Con tutte le cautele, nell’alveo del discorso che stiamo facendo, trovo più utile un recupero di figure come Giordano Bruno o qualcuno dei presocratici, che riportano l’umano nell’ordito del mondo. Infatti, non si tratta tanto di “relazionarsi al mondo in modo diverso”, come si confrontano due cose separate, quanto di essere consapevoli delle intra-azioni intime, fluide, vividamente corporee che ci intessono a un mondo animato, agentivo e vivo ad ogni scala, al di là degli attributi che gli applichiamo. Per le correnti filosofiche postumaniste e neomaterialiste – ma penso anche al grande lavoro di Bruno Latour –  cui lo stesso Akomolafe fa riferimento, l’eccezionalismo umano, che va a braccetto con quella separatezza, è da superare. A questo proposito, vorrei aggiungere che il nostro etnocentrismo nei confronti delle filosofie ed epistemologie “altre” ci ha storicamente impedito di riconoscere l’apporto dei mondi non-bianchi – persino all’interno delle nostre stesse formulazioni, questione trattata anche da David Graeber, ad esempio. Ascoltare queste voci apre davvero nuove prospettive.

 


 

C’è un apporto del pensiero femminista nella figura della postura di cui parla Bayo Akomolafe?

C’è ed è molto significativo. La stessa Karen Barad, fisica e teorica transfemminista, è sua amica e mentore. Nell’epistemologia di Akomolafe sono evidenti riferimenti che vanno da Donna Haraway a Judith Butler , passando per l’ecofemminismo di Greta Gaard, e gli apporti dei femminismi neri di bell hooks o Gloria Anzaldúa. Ne è a tal punto permeato da aver coniato il termine “cronofemminismo” proprio in merito all’approccio che abbandona il tempo lineare-produttivista per sostare in quelle che chiama crepe e che hanno principalmente una valenza di diversa temporalità, come funzione dell’attenzione. Ma la stessa figura di Ésù – la divinità trickster del panteon archetipico yoruba, che Akomolafe evoca spesso – è il dio dei crocevia, dell’intersezionalità totale, della disgregazione dei binarismi: di genere, di direzione, di identità fisse, di connotati spazio-temporali. Spezzare l’’universale’, spezzare l’’essenzialismo’ è quello che fanno tipicamente i femminismi ed è quello che fa Akomolafe nel suo restituirci un mondo queer, mostruoso, chimerico, mai puro, ma generatore di assemblaggi umani e nonumani che ci spostano dalla fissità dei nostri concetti.

Bayo Akomolafe scrive: “In un mondo animista quando si cominciano a vedere le cose in termini di relazioni, contaminazioni e linee di fuga, invece che di punti dissociati da altri punti, come accade nella modernità, quando cioè si cominciano a vedere che le cose che si snodano e sconfinano… ci si comincia a render conto che l’umano non è mai stato una cosa precisa”. Il suo è un appello a una dislocazione di sguardo che consenta di ripensare il nostro essere responsabili.
Il filosofo nigeriano parla inoltre del nostro essere tutti bloccati all’interno di una stessa struttura gerarchica che chiama la “nave schiavista”. A cosa possiamo affidare la possibilità di un cambiamento? 

La metafora della “nave schiavista” serve a visualizzare i rapporti gerarchici tra chi ha il privilegio di stare sul ponte di coperta e via via, al di sotto, chi è considerato a vario titolo inferiore, senza dimenticare la stiva che contiene la “natura” in forma di mercanzia o risorsa. La struttura di quella nave si è dilatata diventando il mondo liberista globalizzato, mantenendo le enclosures che separano i corpi e ne determinano relazioni e comportamenti. Tutti ne facciamo parte, bloccati nel suo fasciame e agiti da esso: siamo nativi della nave schiavista. Secondo Akomolafe qualsiasi “soluzione” che si produce al suo interno, anche nelle migliori intenzioni, anche per contrasto contro-egemonico, rischia di replicare i modelli della struttura stessa. Oltretutto, la “nave” è in balia di enormi turbolenze (ecologiche, geopolitiche, sociali, …) che stanno aprendo crepe nello scafo: aggiustare quelle crepe è proprio ciò che qualsiasi “armatore” farebbe, per assicurare la tenuta della struttura e del suo carico. Ma come dice Stacy Alaimo, in apertura del suo Exposed, “l’Antropocene non è il momento di mettere le cose a posto”.

Per Akomolafe – in questo richiamandosi a Undercommons di Stefano Harney e Fred Moten – serve una ”politica fuggitiva”. Fuggire da cosa? Da ciò che la modernità ha apparecchiato per tutti. Dalle architetture interpretative che ci tengono bloccati nelle dialettiche binarie e oppositive. Serve dis-abilitarci: sostare nei crocevia, assumere una temporalità cronofemminista, incontrare Ésù e permettere al non-ancora-pensato di emergere. Serve fare mondo in quelle crepe (lui lo chiama “fare santuario”) cercando nuove alleanze sulla base di una comprensione di noi-nel-mondo radicalmente rivista.

Se bell hooks scrive un “Elogio del margine”, Bayo Akomolafe sottolinea il valore delle crepe, la loro potenzialità in termini di cambiamento di prospettiva e azione. Vedi un’affinità nella volontà di entrambi di rivolgersi a ciò che solitamente viene ignorato o considerato materiale di scarto per indicare una trasformazione?

Assolutamente sì. Molta parte del pensiero critico, occidentale e non, e delle numerosissime pratiche attive di trasformazione dei modelli relazionali dimostrano come i posti marginali, periferici, i luoghi “ai bordi dell’Impero” sono le uniche topografie dove avvengono le trasformazioni, dove c’è spazio per una “radicale possibilità”, per citare appunto bell hooks. Questo, per chi come me si occupa di ecologie, è perfettamente “ovvio”, perché in quelli che noi chiamiamo ecotoni, o zone di margine, si genera il massimo potenziale di vitalità in virtù di questo essere meticci, ibridi, vernacolari. Sono i luoghi dei metabolismi necessari alla rigenerazione dei viventi. Solo per dire che queste metafore non sono “metafore” ma profonda comprensione ecologica. Non si tratta solamente di osservare ciò che viene oscurato, di lavorare con ciò che viene ignorato, ma nel caso di Akomolafe (e di Fred Moten) di resistere all’imperativo di “portarlo alla luce”. La “natura” per fare humus dagli “scarti”, ha bisogno di gestazione, ha bisogno di quiete e di silenzio: cose che fatichiamo a considerare risorse naturali, per dirla con Barry Lopez, di cui tuttavia necessitiamo come l’aria.

“Le nostre mappe, per quanto dettagliate e puntigliose, verranno sempre sabotate dal territorio; il mondo ha un suo genio, i suoi avvallamenti e i suoi frattali, nonnulla appena mormorati e fragorose bestemmie. Il mondo è più ampio di ogni trama, più complesso di ogni conclusione, più sul pezzo di un giusto castigo, più nobile del pensiero antropocentrico, e più ricco di un approdo. In breve, non siamo noi a fabbricare da soli il mondo, anche il mondo fabbrica noi. Forse anche il mondo vuole rendere noi un posto migliore. Capirlo non significa trovare finalmente la pace, o l’illuminazione, o tornare a casa… significa continuare a sperimentare, a teorizzare, a toccare la vescicola sempre nuova del nostro divenire”. Vorrei un tuo commento su questo frammento di Bayo Akomolafe.

È un bellissimo passaggio che ribadisce i limiti delle nostre credenze e delle nostre narrazioni, tradotte in rappresentazioni riduttiviste del mondo. Nel suo Vita delle piante. Metafisica della mescolanza, Emanuele Coccia formula il concetto di “point de vie” (punto di vita) in sostituzione al “point de vue” (punto di vista) nel quadro di una postura conoscitiva incarnata e situata nel vivente. Credo che comprendere il mondo dal “punto di vita” – sempre contingente, metamorfico, ridondante, co-creativo – sia l’esercizio di reciprocità che ci spetta e che permette al mondo, che da sempre ci plasma, di renderci dei posti migliori.

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