Trenta giorni e 100 lire. Dialogo con Ester Rizzo

 

di Ivana Margarese

 

Trenta giorni e 100 lire, romanzo storico di Ester Rizzo – giornalista licatese e coreferente per la Sicilia dell’associazione “Toponomastica femminile”, da sempre in prima linea per i diritti delle donne e il riconoscimento della questione di genere – racconta la storia vera di un gruppo di donne pacifiste siciliane che furono condannate a trenta giorni di carcere e una multa di 100 lire per aver manifestato contro la guerra. Scrive Rossana Florio, direttrice dell’Archivio di Stato di Agrigento che è stato il luogo fisico delle ricerche storiche di questo libro, nella prefazione:

“La storia di queste donne restituisce il vero e autentico senso di un incontro, che è la condivisione, un’azione rivelatrice della straordinaria sensibilità femminile e di un modo di sentire, di conoscere e di comprendere, senza troppe argomentazioni, l’animo umano. Tra di loro ci sono cure, attenzioni, tenerezze. Ci sono parole urlate, pronunciate, sussurrate e altre non dette. Ci sono lacrime, prezioso distillato del complesso animo femminile, che solo loro sanno comprendere.
Le protagoniste, di fronte ad un cambiamento subito e generato dall’evento tragico della guerra, scelgono di non piegarsi e di avere coraggio, quel coraggio dell’azione che nasce dal cuore, dove risiede la loro vera forza. Perché è con il cuore, con quel sottile sentire oltre le parole e oltre gli sguardi, che sapranno sanno superare le distanze, anche quelle sociali, e procedere unite verso un atto di eroismo: la protesta.
Quel coraggio serve ancora e non deve essere mai dimenticato”.

 


Trenta giorni e 100 lire è il tuo ultimo romanzo, edito da Navarra Editore, in cui racconti la vicenda di un gruppo di donne pacifiste siciliane che nel 1916 furono condannate a trenta giorni di carcere e una multa di 100 lire solo per aver manifestato contro la guerra.
Per scriverlo hai consultato il materiale dell’Archivio storico di Stato d’Agrigento, coniugando insieme memoria e immaginazione – dal momento che il tuo lavoro non è un saggio ma un’opera narrativa.
Qual è stato il metodo che hai adoperato e quali le emozioni che hai provato nell’accedere a questi documenti?

Se per metodo intendi un “metodo di scrittura” non ho utilizzato alcun metodo nella narrazione. Quando per il materiale d’archivio insufficiente devo ricorrere ad una formula narrativa creo sempre in maniera molto spontanea senza schemi prefissati.
Il metodo di ricerca delle fonti invece, per “Trenta giorni e 100 lire” è stato molto rigoroso. Avevo appreso di queste donne siciliane pacifiste da un saggio di Santi Correnti “Donne di Sicilia”dove erano elencate date e luoghi delle proteste. Avevo effettuato delle ricerche in alcuni Comuni siciliani, interpellando anche storici locali, ma non c’era alcuna traccia di questi eventi. Ho anche consultato e letto più di una ventina di libri sulla Prima Guerra Mondiale sia in Italia che in Sicilia ma non ho trovato alcun cenno. Anche una minuziosa ricerca sul web non mi ha fornito alcun risultato. Ho deciso così di cercare eventuali sentenze di condanna inflitte a queste donne nell’Archivio di Stato di Agrigento che territorialmente era per me più facile da raggiungere.

Poi la pandemia ha bloccato le mie ricerche. Alla prima apertura post covid, grazie alla grande professionalità e disponibilità d ella dottoressa Rossana Florio, Direttrice dell’Archivio di Stato di Agrigento, ho potuto visionare i fascicolidegli anni 1916, 1917 e 1918 e finalmente trovare le sentenze relative ai processi. Da quei documenti preziosi sono emersi inomi, l’età, la paternità di quelle donne ed anche le modalità delle proteste. Ho avuto finalmente la conferma che quei fatti erano realmente accaduti e che erano stati relegati nell’oblio intenzionalmente perché “esempi scomodi” da tramandare.
L’emozione provata in quel ritrovamento è difficile da descrivere, posso solo affermare che è stata grande ed intensa.

La condizione femminile e soprattutto l’attenzione verso le storie di donne dimenticate e occultate dalla memoria collettiva è elemento centrale del tuo lavoro di ricerca e di scrittura. Da dove nasce questa esigenza? Si tratta senza dubbio di un’indagine necessaria, ma ti chiedo più direttamente quanto l’ambiente in cui veniamo al mondo e cresciamo influisca sul nostro percorso. Le donne in Sicilia abitando in un’isola hanno faticato forse più che in altre zone d’Italia per essere riconosciute nei loro diritti, anche i più semplici come quello di avere la possibilità di studiare e trasferirsi per farlo dai piccoli centri in città.

L’esigenza di ricercare le storie obliate delle donne l’ho avvertita sin dai tempi del Liceo. Avevo percepito che era impossibile non trovare alcuna figura femminile nei libri di testo scolastici. Non c’erano letterate, filosofe, scienziate. Sembrava che le donne non avessero mai partecipato a nulla, mentre in alcune mie letture autonome ed extra scolastiche c’erano tracce ben visibili. A testimonianza di ciò ricordo che con altre studentesse stampammo in occasione di un otto Marzo un giornalino d’istituto dedicato alle donne nella letteratura e nella Storia e la tesina che presentai agli esami di Maturità aveva come titolo “Le donne nella Letteratura Italiana”. Il Commissario che mi interrogò mi chiese se volessi parlare della Beatrice di Dante o di Laura del Petrarca. Trattenendo un moto di stizza gli spiegai che volevoparlare di Gaspara Stampa, di Matilde Serao, di Elsa Morante, di Grazia Deledda, di Sibilla Aleramo e di tante altre. Mi resi conto, con grande soddisfazione, di essere molto più preparata di lui ma mi resi anche, amaramente conto, di come gli studi scolastici discriminassero le donne. Sono passati 45 anni ed è ancora così.
Per quanto riguarda la fatica delle siciliane per essere riconosciute nei loro diritti credo si debba sfatare uno stereotipo ricorrente. Le donne siciliane al pari di quelle delle altre regioni sono state delle donne che hanno fatto la Storia d’Italia in tutti i sensi ed in tutti i campi ma sono sempre state ignorate dalla storiografia ufficiale scritta da uomini misogini. L’unica differenza, ma simile in altre regioni, è stata la loro collocazione territoriale che rendeva più arduo l’accesso ad attività di studio o di lavoro. Questi ostacoli comunque sono stati brillantemente superati da tante di loro.

Trenta giorni e 100 lire è un romanzo plurale, hanno voce più donne. Vorrei passare in rassegna con te alcune delle figure femminili che racconti cominciando da Tanina, la madre abbandonata che ripone nell’unico figlio tutte le sue speranze e con gioia si sacrifica per dargli un futuro migliore. Futuro che purtroppo non avrà perché verrà ucciso in guerra. Tanina, annientata dalla morte del figlio, ritrova gioia solo quando può prendersi cura  nuovamente di qualcuno, due orfani di padre, rimasti soli con la giovane mamma. È una figura che mi ha colpito per la sua modestia, il suo rigore morale e la semplicità con cui sa agire per il bene comune, tutte qualità assai rare in questo nostro tempo. Altre figure coraggiose sono quella di Angelina, che unisce una grande sensibilità a una forte voglia di indipendenza, o di Felicia, animatrice della protesta.

Si, è un romanzo plurale. Voci e figure di donne create spesso dalle testimonianze di altre donne che mi hanno raccontato i ricordi orali tramandati da nonne e bisnonne. Ricordi densi di rigore morale ma anche di affetti, di dolori, di solidarietà, di caparbietà. Valori che certamente rischiano di perdersi in una società odierna dove immagini e parole veicolano modelli insulsi e stereotipati soprattutto di figure femminili.


 

L’altra figura di cui vorrei domandarti è donna Concetta, la donna ricca del paese, anche lei, nonostante la differenza di ceto, accomunata alle donne tutte per il destino non facile che comunque le spetta. C’è qualcuno a cui ti sei ispirata nel ritrarre questo personaggio?

Donna Concetta è il frutto del ricordo personale della mia nonna materna, dei suoi racconti e di alcune  letture  come quella di Elvira Mancuso.

Un posto speciale ha la figura della zia di Concetta, una donna capace di portare un vento nuovo, di dare speranza. Potresti dirmi qualcosa in proposito?

Di questa zia ne parlava mia nonna. Ovviamente era già morta quando sono nata io. Ricordo che la sua frase,scandalosa per quei tempi ,veniva utilizzata da mia nonna a seconda delle circostanze. Se voleva stigmatizzare un comportamento troppo audace era usata come monito e mia nonna sentenziava:” Non è che dobbiamo ragionare come quella pazza della zia Adelina?” Se invece si discuteva su un matrimonio in crisi o su un marito prepotente o che limitava la pur poca libertà della moglie diceva “Aveva ragione la zia Adelina”. Ancora oggi io ripeto scherzosamente, ma non troppo, quella frase alle mie nipoti o alle mie amiche quando le vedo troppo coinvolte emotivamente in una relazione che limita la loro libertà o che le fa soffrire. E’ indubbio che ho sempre istintivamente “parteggiato” per quella zia rivoluzionaria nata dai miei calcoli approssimativi intorno al 1880 e che non si è piegata al “quieto vivere” imposto ad una donna.

Sullo sfondo del romanzo c’è il viaggio verso l’America, quella terra nuova in grado di offrire anche alle donne possibilità di lavoro e di pensiero, sottraendole a un contesto che troppo facilmente le ha confinate in un ruolo che non tutte sentivano proprio. Peraltro la stessa guerra privandole della presenza degli uomini aveva mostrato loro quanto fossero capaci di fare da sole, creando reti e valorizzando le poche risorse che avevano a disposizione.

Il viaggio verso l’America costituì per tante di loro un’occasione di emancipazione. Partirono, spesso sole o con i figlioletti alla ricerca di una vita migliore. Furono coraggiose e si portarono dietro valigie piene non solo di miseri vestiti ma di grandi sogni e speranze.
Anche la Grande Guerra fece emergere la coscienza di avere un grande valore nella società al pari degli uomini. Anche in quell’occasione le donne diedero prova di essere la spina dorsale che permise al Paese di andare avanti ma con vigliaccheria furono ricacciate tra le mura domestiche e dovettero ancora aspettare quasi trent’anni per ottenere il diritto di voto.

Vorrei mi parlassi dell’associazione “Toponomastica femminile”, di cui fai parte, che è da sempre in prima linea per i diritti delle donne e il riconoscimento della questione di genere.

L’Associazione Toponomastica femminile nasce nel 2014.   Precedentemente, nel 2012, esisteva solo una pagina fb creata dalla Presidente attuale, Maria Pia Ercolini, in seguito all’osservazione fatta da una studentessa che  evidenziava come le strade di Roma erano intitolate quasi esclusivamente a soggetti maschili. L’intento primario dell’Associazione è quello di restituire visibilità, negli spazi e nei luoghi in cui quotidianamente ci muoviamo, alle donne che hanno contribuito a migliorare la società in tutti i settori: da quello letterario a quello scientifico, da quello sociale e politico a quello artistico, solo per fare alcuni esempi.

E’ stato fatto un censimento delle vie intitolate, dai piccoli borghi alle grandi città d’Italia, che ci ha permesso di ricavare una percentuale che evidenzia il gap di genere anche nella toponomastica e nell’odonomastica. La media delle strade intitolate alle donne si aggirava intorno al 4% mentre le strade intitolate agli uomini al 40% . Inoltre classificando le intitolazioni femminile ci siamo rese conto come quel 4% era costituito, per la maggior parte, da intitolazioni fatte a Sante o Madonne o a figure mitologiche.

Un lavoro lungo e faticoso a cui abbiamo partecipato in tante ma che ci ha permesso di elaborare un piano di iniziative rivolte soprattutto alle scuole di ogni ordine e grado ( esempio ne è il Concorso sulle Vie della Parità) e alla cittadinanza. Oggi su tutto il territorio nazionale organizziamo mostre fotografiche e documentarie,corsi di formazione, conferenze, convegni, salotti letterari, itinerari turistici di genere, pubblicazioni specifiche e tante altre iniziative miranti a sottrarre dall’oblio le tante donne dimenticate o quasi sconosciute che nei territori di appartenenza o anche in contesti nazionali o sovranazionali hanno contribuito in maniera determinante a migliorare la società. Siamo presenti nelle Commissioni Toponomastiche di tante città e negli ultimi anni la nostra azione si è estesa anche in ambiti internazionali con riconoscimenti dalle istituzioni comunitarie. La nostra rivista ufficiale è Vitamine vaganti che è nata nel 2019 ed ha cadenza settimanale. Quella delle associate( ed anche alcuni associati) a Toponomastica Femminile è un’attività che richiede tanto impegno e dedizione ed è svolta gratuitamente e spesso in spirito di collaborazione con altre associazioni .

L’ultima domanda la riservo a un argomento che mi sta particolarmente a cuore ovvero l’amicizia tra donne, che certamente ha un ruolo prezioso nel romanzo. Cosa puoi dirmi a questo proposito?

L’amicizia e soprattutto la solidarietà fra le donne non ha soltanto un ruolo prezioso in questo romanzo.
La solidarietà femminile è preziosa, ancora oggi, nel percorso di emancipazione femminile.
Purtroppo non sempre se ne comprende l’enorme valore a causa di comportamenti, da parte di alcune donne, di replicare “modelli maschili” per arrivare a cariche o incarichi di prestigio. Spesso a volte, per ignoranza o per inconsapevolezza, “sviliscono” il femminile partendo addirittura dal linguaggio.
Ma quando si ha la fortuna di incontrare altre donne, e sono tantissime, orgogliose del loro genere e generose nel riconoscimento del valore delle altre, nasce immediatamente quel sentimento che definiamo “sorellanza”.
E sarà la magia della sorellanza a regalare un mondo migliore alle bambine di oggi che saranno le donne di domani. Non dobbiamo dimenticarlo mai, così come hanno fatto le nostre antenate.

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