L’odio migliore. Dialogo con Michele Orti Manara

 

Di Giuseppe Grafo Cinà

 

Quattro marzo.
Quattro autori.
Quattro pubblicazioni.
Quattro euro ciascuno.
Quattro per quattro: formato quadrato.

È il format proposto dalla neo casa editrice Tetra-, che ogni quarto giorno del mese pubblica una nuova quartina di racconti, ognuno in un suo volumetto dedicato, rilegato in un elegante formato quadrato e una veste grafica curata con tutta l’attenzione che merita quel prodotto letterario spesso erroneamente valutato come secondario, che è il racconto. 

È proprio questa tipologia di prosa il fulcro del progetto editoriale: se da un lato il racconto offre la possibilità di condensare contenuti, idee, stili, dall’altro è un formato che per sua natura può assolvere alle esigenze dello stile di vita frenetico contemporaneo, così da coinvolgere anche i meno inclini alla lettura.  A garantire la qualità delle pubblicazioni, un’attenta selezione tra le firme più interessanti dell’attuale panorama editoriale italiano.
Tra queste, Michele Orti Manara dà il suo contributo alla quartina del mese di marzo. “L’odio migliore” racconta con cinica ironia le dinamiche spesso spietate del lavoro dell’impiegato moderno, relazioni intrise di pregiudizi e ipocrisie derivate dall’impostazione gerarchica e competitiva che abita le mura degli uffici aziendali. A trainare la storia, l’arrivo di un nuovo collega, piacione nei modi e impeccabile sul lavoro, preso di mira dal cinico Zauni, la voce narrante, per i piccoli furti che si verificano nell’ufficio, in aggiunta a un sentimento di antipatia presente a priori.

Ne parliamo con l’autore.

Ho riconosciuto il brano dei Marlene Kuntz citato nel titolo prima ancora di averne conferma nell’epigrafe. Mi sono sempre interrogato sul significato di quelle parole, Godano le usa per creare il paradosso allegorico di uccidere un tormento (che dà anche il titolo all’album, “Ho ucciso Paranoia”): l’odio che uccide ciò che suscita odio. Cosa è per te l’odio migliore? Può esistere un odio giustificabile?

Dunque, la canzone è entrata in sintonia con il racconto per puro caso. Mi è capitato di ascoltarla un giorno, mentre lo stavo scrivendo, e la primissima frase («Ho ucciso paranoia, la mia concubina») mi è sembrata adattarsi alla perfezione all’atmosfera sottilmente paranoide che si respira nell’azienda in cui è ambientata la storia. Rimuginandoci un po’ su, poco prima della pubblicazione, le cose si sono “saldate” ancora di più, al punto da dare al racconto lo stesso titolo della canzone. Aggiungerei solo una cosa: nel caso del racconto, il migliore non si riferisce a un sentimento eticamente giustificabile, o giustificato, anzi direi quasi all’opposto: l’odio provato dal protagonista per il nuovo collega non ha nemmeno una causa tangibile. È quella che definiremmo una fortissima antipatia “a pelle”; e questo la rende assoluta – nel senso etimologico del termine. L’odio migliore, in questa accezione, sarebbe insomma quello che si esprime nella sua forma più pura, immotivata, istintiva e istantanea.

«La moglie di Sabatini è un cesso.
Fu la prima cosa che pensai quando me la presentò alla cena di Natale dell’azienda.
Lui: unghie curate, abiti su misura, giovane, affascinante, profumato.
Lei: un cesso.
[…]
Finalmente una crepa che rischia di mandare la sua perfezione in frantumi.»

Un incipit che va dritto al focus del racconto, quella competitività nociva con la quale ormai conviviamo, probabilmente amplificata in alcuni luoghi di lavoro sotto l’influenza di un sistema capitalistico onnipervasivo. È ciò di cui volevi parlare nel racconto?

Per quanto certe dinamiche abbiano parecchi riscontri nella realtà, il motore di tutto il racconto è l’odio immotivato di cui parlavo prima. È da lì che sono partito, e dall’intenzione di scrivere una storia in cui tutti – o quasi – i personaggi risultassero sgradevoli, a partire dal protagonista che la racconta in prima persona. Non volevo però che questo fosse particolarmente violento, o minaccioso, ma solo un individuo un po’ meschino, arrivista ma al contempo accidioso. Un cattivo in sedicesimo, diciamo così. L’incipit condensa in poche righe buona parte delle sue piccinerie, è una sorta di avvertimento sull’aridità del paesaggio mentale che ci aspetta andando avanti con la lettura.

«Sabatini sorride sempre, sorride a tutti.
E secondo me quando uno sorride così, senza ritegno e senza motivo, è perché ha qualcosa da nascondere; quindi […] mi ripromisi di smascherarlo.»

Dietro tanto cinismo, cos’è che porta al punto di diffidare della serenità dell’altro? Siamo davvero così assuefatti dall’idea che la felicità o l’equilibrio siano solo un’utopia o un’illusione, qualcosa che nasconde un inganno?

Non saprei, faccio fatica a rispondere a nome di un noi generalizzato. Ma mi prendo la responsabilità di farlo a nome del protagonista: e sì, per uno come lui, abituato a un ambiente lavorativo asfittico, del tutto privo di solidarietà o anche solo delle più basiche norme di rispetto e buona educazione, la gentilezza non può che essere una maschera, o una trappola. Qualcosa di cui diffidare per principio, insomma, e che deve per forza nascondere un inganno, o un secondo fine.

Nella dilagante produzione del genere thriller, delle sue numerose declinazioni che dominano il mercato dell’intrattenimento narrativo, mi ha fatto sorridere l’idea di incentrare un “giallo” su un caso trascurabile di cleptomania. Ci ho visto un invito a tornare coi piedi per terra, persi a ingigantire problemi quotidiani insignificanti, forse per sfuggire alla noia o alla mancanza di stimoli. C’è qualcos’altro dietro questa scelta? 

In un certo senso anche la componente “gialla” del racconto ha una genesi e un percorso simili a quelli del protagonista. Anche qui non ci troviamo di fronte a fatti eclatanti, da cronaca nera, ma a piccoli furti di oggetti senza troppa importanza. Di nuovo, crimini in sedicesimo, che possono acquistare importanza solo sotto la lente deformante delle dinamiche aziendali.
Scelto un protagonista sgradevole, e deciso che l’ambiente di lavoro sarebbe stato perfetto come cornice, aggiungere questa sorta di indagine un po’ ridicola mi sembrava una buona idea per amalgamare il tutto.

I due impiegati del racconto mi sembrano entrambi vittime dell’attuale società della performance: l’uno attivamente, il nuovo collega che ostenta un “odioso” perfezionismo, l’altro passivamente, la voce narrante che lo subisce anziché ignorarlo. Fuori dal racconto, la stessa dinamica la ritroviamo, amplificata, nei social media, vetrine virtuali di un esibizionismo dedito alla continua ricerca di approvazioni. Dalla tua posizione di social media manager, cosa puoi riportare in merito a questo fenomeno?

Nel racconto in effetti si fa un riferimento ai social network come strumento di intrusione nella vita privata degli impiegati da parte della dirigenza dell’azienda. Per il resto, durante la scrittura non avevo in mente questo parallelismo; però sì, potrebbe essere una chiave di lettura interessante.
Riguardo a me: non faccio più il social media manager da più di un anno perché la cosa stava diventando un po’ complessa da gestire, da un punto di vista squisitamente psicologico. Ma con i miei profili personali alterno periodi di (autoinflitta) sovraesposizione ad altri di rifiuto, in cui cancello tutto quello che ho pubblicato in precedenza. Non un segnale di grande equilibrio, me ne rendo conto, e in un certo senso anche una specie di rappresentazione un po’ schizofrenica delle due tipologie di cui parli.

Una curiosità, forse più personale, da occasionale disegnatore: il ruolo chiave nella svolta del racconto è dato a una matita, per la precisione un’intera collezione di matite pregiate custodite dal protagonista come rimedio pratico a un suo problema con l’inchiostro. Nella homepage del tuo sito web c’è l’immagine di una matita, subito dopo il testo di apertura. C’è un collegamento o è del tutto casuale?

Il collegamento è dato dal fatto che scrivo a mano la prima stesura dei racconti, il che mi ha portato a una certa fascinazione – leggasi: amore smodato con l’aggravante del collezionismo – per le matite. E quando mi sono ritrovato a scrivere di furti di cancelleria, le matite sono entrate in maniera naturale nella storia. Anche se il modello che uso per scrivere è un po’ meno raro ed esotico di quello che si cita nel racconto.

In conclusione, L’odio migliore mi è piaciuto soprattutto per il finale: oltre che accattivante e risolutivo rispetto alla storia, lascia anche spazio a diverse riflessioni. Questi finali portano ad apprezzare anche la funzionalità dell’intera struttura del racconto, dove niente è lasciato al caso. Qual è l’iter – se ce n’è uno – del tuo processo creativo?

Non ho un metodo fisso, ci sono storie che so già dove andranno a parare fin dall’incipit – ed è proprio lì che vanno a finire –, altre che cambiano direzione in corsa, altre ancora che brancolano nel buio per un bel po’ prima di trovare il filo.
Questo racconto fa parte del primo gruppo, che è anche il più semplice da scrivere. Se hai già ben chiaro dove devi arrivare poi puoi procedere “a ritroso”, e i pezzi vanno al loro posto abbastanza facilmente.
In generale, c’è una cosa che è cambiata col passare del tempo: quando ho iniziato a scrivere racconti – e parliamo di una ventina di anni fa – ero convinto, un po’ ingenuamente, che il finale dovesse essere per forza di cose molto netto, definitivo. Poi un po’ alla volta mi sono reso conto che non di rado un finale aperto può funzionare meglio, che ci sono anzi racconti in cui questa indefinitezza è forse l’unica conclusione possibile.
Il finale de L’odio migliore è un po’ una sintesi delle due possibilità: c’è un plot twist, ma quello che succede dopo non viene specificato. C’è un bivio, ed è lì che finisce la storia.
Parafrasando – indegnamente – Čechov: Se in un racconto compare una pistola, bisogna che prima o poi spari; ma forse non è sempre necessario dire apertamente chi sarà a premere il grilletto.

Michele Orti Manara è nato a Verona nel 1979 e vive a Milano. Ha pubblicato la raccolta Il vizio di smettere (Racconti, 2018) e il romanzo Consolazione (Rizzoli, 2022). Suoi racconti sono apparsi anche nelle antologie Hotel Lagoverde (Liberaria, 2021, a cura di Gianluigi Bodi) e Club Silencio (Arcoiris, 2022, a cura di Emanuela Cocco).

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