05 Mar “Le droghe” di Laudomia Bonanni
di Ivana Margarese
Laudomia Bonanni è sottile. Cuce insieme le parole, penetra e pungola. Il suo occhio sulla realtà non è mai banale, le sue figure femminili hanno lo sguardo disincantato di chi non aderisce del tutto al mondo e nel loro lucido smarrimento ricordano certi personaggi di Agota Kristof.
Questo accade anche per la protagonista di Le droghe (1982) di Bonanni, riedito dopo quarant’anni da Cliquot, libro, che nonostante l’apprezzamento di critici famosi (Prisco, Pomilio, Eco) causò alla scrittrice varie amarezze, tra cui l’esclusione dal premio Campiello, rafforzandone la voglia di isolamento. ”Oggi scrivere non basta più. Uno scrittore per prima cosa deve sapersi promuovere” ebbe a dire.
Sandra Petrignani che firma la prefazione della nuova edizione in uscita il 7 marzo così racconta:
“Era l’inizio del 1983 quando ho conosciuto Laudomia Bonanni. Le droghe era uscito l’anno prima in tarda primavera. Era andato malissimo e lei ne soffriva ancora. Un romanzo in cui aveva raggiunto – mi disse – ‘una prosa di una leggerezza e di una trasparenza che mi hanno reso molto soddisfatta’ e che Valentino Bompiani, il suo editore, aveva accolto con entusiasmo. ‘Ancora una volta un ottimo libro’ le aveva scritto. Ma le cose erano andate storte. Era uscito nel momento sbagliato. La casa editrice, che già da un decennio aveva cambiato proprietà passando alla Fiat, era in un momento di radicale ristrutturazione, licenziamenti, nuovo ufficio stampa.
Le droghe fu abbandonato a sé stesso e passò completamente inosservato. Eppure è indiscutibile il talento letterario di Bonanni, la scrittura precisa e mai consolatoria, preziosa in un tempo che vorrebbe uniformare ogni cosa e dove l’abitudine a una patina di felicità e successo lascia sempre meno spazio per lo scavo onesto e non accomodante”.
Bonanni racconta senza compiacere; in epigrafe a Le droghe riporta una frase di Hegel: “Niente è innocente tranne la pietra”.
L’individuo è continuamente minacciato da varie forme di violenza, esposto alla brutalità, in un mondo che rischia di diventare sempre più impersonale. Anche i poeti – scrive Bonanni – tolgono verginità.
L’ispirazione di questo libro è in qualche modo vicina al pensiero hegeliano e alle pagine francofortesi dello Spirito del cristianesimo e il suo destino, dove la soggettività, definita soprattutto in relazione all’esperienza amorosa, in Bonanni prende corpo nel legame tra madre e figlio e più specificamente nel legame tra una madre/matrigna e il figlio senza madre dell’uomo che la protagonista sposa. Entrambi hanno condiviso da bambini la dolorosa esperienza della perdita materna, senza quasi ricordarne le sembianze o la presenza. Entrambi smarriti si offrono a sostegno reciproco attraversando insieme anche quanto non comprendono dell’altro: “Attaccato all’infanzia e alla mia mano. Io forse attaccata alla sua, ancora debolissima. Le donne in paese l’avevano sempre creduto mio figlio, così biondo e magro (dicevano paglierino e steccolito) inseparabili come eravamo”. E ancora: “Eravamo tutt’e due deboli e spaventati”.
Nel testo c’è un richiamo alla Pietà di Michelangelo, vista insieme, a San Pietro, e al destino impossibile del contenere il figlio assunto dalla giovane madre: “Scivola, non lo regge, casca”. Parve anche a me che la delicata fanciulla non potesse reggere così, con una mano sola, quel corpo morto d’uomo”.
Il figlio non può essere sottratto alla spietatezza: egli stesso peraltro se la rivolge contro, senza sentire altre ragioni.
La scrittura di Laudomia Bonanni non può essere raccontata, bisogna abbandonarsi alla lettura e scoprirne i bagliori, i rimbombi, i ritorni. Mi sta a cuore tuttavia sottolineare l’argutezza nell’osservazione del suo stile, lontano da stereotipi e categorie uniformanti:
“Mi ha preso una mania. Inoffensiva e curiosa. In autobus ho sempre osservato la gente, mai letto un giornale o un libro. Guardarsi attorno è spettacolo. Da un po’ di tempo mi sono messa a guardare le donne, la mano sinistra, se c’è la fede. Al contrario degli uomini, le donne la portano. Essere nubili è diverso dall’essere celibi, nello stato di nubile – volgarmente zitella – è ancora implicita l’idea menomante che non ha trovato chi la prendesse. Portano la fede anche certe monache.
Se non vedo subito la mano, aspetto un movimento che la scopra, sto a spiare. L’hanno quasi tutte, per lo più carine, piacenti, anche le brutte, ma sempre con qualcosa di attraente, il corpo o una parte, le gambe, una bocca piena, un bel petto o solo quella vitalità che si guadagna la propria parte ugualmente. No quelle rinsecchite o rilassate, con una certa espressione. Sì le grasse. Indovino quasi infallibilmente. Con due fedi una sull’altra sono le vedove, sempre molto sicure di sé stesse.
La maggioranza assoluta è delle sposate. Sono tutte sposate, lo sono tutti gli uomini. Incredibile come la gente universalmente si sposi, o si accoppi, che è lo stesso. Sorprendente, anzi strano, che ci sia chi non lo faccia. Vero che ci s’insospettisce delle persone in età rimaste sole, uomini o donne. L’individuo passato attraverso la vita senza accompagnarsi, è un diverso”.
E ancora:
“Il segreto di come ci sia piaciuta un’altra persona carnalmente, l’inesplicabilità di quell’attrazione, che a un tratto cessa. Senza il sigillo legale, senza la convivenza quotidiana che crea abitudini e obblighi, ci si potrebbe lasciare tranquillamente, ciascuno per la sua strada”.
Il sentimento di solitudine è coraggiosamente portato alla luce in questo romanzo che racconta un legame profondo, anche se non di sangue, un’ostinata volontà di confronto e di protezione che spinge a uscire fuori da se stessi, a superare logiche ostinate, a scoprirsi gelosi e a sentirsi persino ridicoli:
“Mangia mangia. Mi scopro a ripeterlo continuamente: mangia mangia. La parola abusata dalle madri, il rimedio a tutti i mali. Mangia mangia. (E spiargli in bocca il canino cariato.) Mangia, su. Benché lui si limiti senza impazienza al rifiuto silenzioso. Ho finito per accorgermi del ridicolo: come se il cibo fosse la panacea universale”.
Il percorso vissuto attraverso vari momenti tra madre e figlio ricomincia in un processo simile alle figure della Fenomenologia dello Spirito hegeliana: “Mi seguirà. Ricominceremo da capo”.
Recitano i versi di una poesia di Agota Kristof contenuta in Chiodi (traduzione di Vera Gheno) : “Con un abbraccio senza tempo/da quando ti ho abbracciato/ non riesco ad abbassare le braccia/ sono immobile statua centenaria/ chiuso tra le mie braccia di pietra/ so che sei ancora qui”.
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