“Annientare” di Michel Houellebecq: la vita non è un film americano

di Guido Di Muccio

“La vita non è un film americano” potrebbe essere il sottotitolo dell’ultimo romanzo di Houellebecq. Che inizia come un thriller o una storia d’intrighi spionistici alla Ian Fleming (il padre di James Bond, l’agente segreto 007), ma poi smorza quest’ispirazione fino a soffocarla, via via lasciando emergere un’altra trama, quella vera: gli ultimi mesi della vita banale di un uomo qualunque, un grigio burocrate, la cui unica relazione col mondo delle spie è che lavora per un ministro (quasi presidente) della repubblica minacciato da terroristi non identificati ed è figlio di un alto dirigente della DGSI (la Direction générale de la Sécurité intérieure, sezione del Ministero dell’interno francese incaricata dei cosiddetti “servizi segreti”).

Serve un po’ di tempo al lettore per arrivare a capire che la storia di terroristi hacker e agenti segreti con cui si apre il romanzo è solo contorno. Che il filo conduttore è la vita di un uomo qualunque. E che il colpo di scena del thriller è che lo spettatore alla fine muore senza sapere come va a finire. A romanzo terminato, retrospettivamente, si vede che la trama intreccia un filo rosso centrale e diversi fili collaterali. È la storia di un uomo (Paul Raison, il filo rosso) dentro la storia di una famiglia (la sua: moglie, genitori, fratelli, suoceri) dentro la storia di una Nazione (la Francia) dentro la storia del mondo di oggi. Il disegno complessivo della trama risulta quindi policentrico, frantumato, incompleto, non finito. Come la realtà, che è un puzzle di difficoltà inarrivabile.

Di seguito daremo un breve sunto della trama, per ciò solo che rileva per il commento finale. La storia, come detto, inizia nel segno di un intrigo da romanzo di spie o di film d’azione. I servizi segreti francesi stanno indagando su una minaccia alla sicurezza nazionale. Video orrifici sono stati immessi nella rete internet da un’entità terroristica senza volto ma in possesso di tecnologie avanzatissime, una spietata Spectre del tipo di quelle combattute dall’agente segreto 007 James Bond. In uno dei video è simulato il ghigliottinamento del ministro dell’economia Bruno Juge. Via via che la vicenda si dipana, la Spectre alzerà il tiro, compirà attentati distruttivi. Arriverà ad affondare una nave carica di migranti, sterminando cinquecento persone. Chi sono? Perché lo fanno? Che ideologia li muove? Di destra, di sinistra? La Spectre dissemina messaggi in codice, con elementi forse satanisti, ma gli analisti stentano a decifrarli.

Incontriamo presto il protagonista del romanzo, Paul Raison. È un funzionario dello Stato. Diplomato all’ENA, la storica École nationale d’administration, fondata da De Gaulle e abolita da Macron, dalla quale per decenni sono usciti gli alti dirigenti della pubblica amministrazione francese. Ispettore delle finanze, è nel gabinetto del ministro dell’economia Bruno Juge. È sposato con Prudence, pure lei ispettore delle finanze. Sono vicini ai 50 anni d’età, non hanno figli. Da molti anni si sono allontanati l’uno dall’altra. Vivono come due estranei, separati in casa. Condividono solo il frigorifero. Non hanno più rapporti sessuali. Il padre di Paul (Édouard) è stato un alto funzionario dei servizi segreti francesi, ora è in pensione e vive con una compagna giovane e devota, Madeleine. La madre di Paul è morta. Paul ha anche una sorella, Cécile, e un fratello molto più giovane, Aurélien, a loro volta sposati. La moglie di Paul ha padre e madre ancora vivi e una sorella. I contatti con tutti loro sono saltuari.

Questa è la vita di Paul all’inizio del romanzo. Banale e noiosa. Il brivido della Spectre lo sfiora appena da lontano: è minacciato il ministro Juge, per il quale Paul lavora. Tre eventi turbano quest’iniziale calma piatta e non sono colpi di scena da film d’azione. Il primo è l’ictus del padre di Paul. Il secondo è il riavvicinamento di Paul a sua moglie. Il terzo è il cancro di Paul, che salta fuori ai due terzi della trama e lo trascina in un lampo alla morte.

L’ictus che colpisce il padre di Paul lo lascia quasi del tutto paralizzato ma cosciente. Paul, la sorella Cécile e il fratello Aurélien, coi rispettivi coniugi, lasciano le loro case (vivono sparsi in Francia) e si riuniscono nella casa di famiglia, nella campagna del Beaujoulais, per stare vicini al genitore e decidere come curarlo al meglio. Il romanzo si diffonde sulle loro vite come tante altre. Nella villa paterna Paul si ritrova nella sua stanza di ragazzo e rievoca la sua vita d’allora: la passione per il film americano Matrix e per l’attrice protagonista, laddove la sorella preferiva Il signore degli anelli (ecco i film americani!). Parla al padre, che reagisce solo muovendo gli occhi, e riesce a raccontargli cose che non gli ha mai detto. E scopre di lui cose che ignorava: che ama De Maistre (il nemico della rivoluzione francese e dell’égalité) e che custodisce nel suo studio un dossier sull’organizzazione terroristica che minaccia il ministro Juge. Il dossier, che Paul consegna ai colleghi del padre senza aprirlo, contiene spunti forse utili per decifrare i messaggi dei terroristi (gli esperti ipotizzano ideologie retrostanti tra satanismo, fedi cyborg e derive new-age). Con l’infermità del padre, Paul si riavvicina a sua moglie. Scopre in lei una seguace del Wicca (credo religioso neopagano incentrato sulla natura, che professa tra l’altro la reincarnazione). I due tornano gradualmente a parlarsi, a dormire nello stesso letto, a fare l’amore e a sentirsi dipendenti l’uno dall’altra. In una parola: ad amarsi.

Quando Paul, dopo aver a lungo rinviato la visita, finalmente va dal dentista per un dolore che lo tormenta e scopre di avere il cancro in bocca, la storia torna coi piedi a terra, sbattiamo la faccia contro la realtà della condizione umana: non c’è nessuno 007 a salvarci dalla Spectre (la Morte). I medici (competenti, pietosi) consigliano a Paul l’asportazione chirurgica, ma perderebbe lingua e mandibola. Lui per paura, senza confrontarsi con la moglie, opta per la chemioterapia. Passa il tempo delle lunghe sessioni di chemio leggendo Conan Doyle e Agatha Christie: ha pensato di leggere Pascal, ma poi non se l’è sentita. A volte sta meglio, a volte peggio. La cura non ha successo. La morte, gli annunciano dolenti i medici, arriverà nel giro di uno o due mesi. Paul incontra per l’ultima volta la sorella. Si congeda anche dal padre. Entrambi malati terminali, i due non si parlano. Si limitano a guardare i movimenti delle foglie del giardino d’inverno nella casa di famiglia. Nelle scene finali del romanzo, Paul intuisce che la moglie Prudence si protegge dal dolore che l’aspetta con la sua fede wiccan: crede che lui e lei si reincarneranno e ritroveranno in un’altra vita. Poi, probabilmente stordito dalla morfina che assume come cura palliativa, Paul scivola in un sogno finale da passaggio nell’aldilà.

“Avremmo avuto bisogno di meravigliose menzogne” è la frase di chiusura del romanzo e probabilmente la chiave di lettura.

La spy story resta tronca. La vita – questo pare il messaggio di Annientare – non somiglia a un film americano o a un romanzo d’azione o poliziesco: opere in cui la razionalità vince, il male è sconfitto e ogni cosa alla fine è illuminata. Non è come i film che Paul amava da ragazzo (Matrix) né come i romanzi che sceglie di leggere negli ultimi mesi di vita (le storie di Sherlock Holmes e di Hercule Poirot). La vita umana somiglia invece all’intreccio di Annientare. Umberto Eco scriveva (Sei passeggiate nei boschi narrativi) che “poiché la finzione narrativa è più confortevole della realtà, cerchiamo di interpretare la realtà come fosse una finzione narrativa”. Leggiamo la vita (individuale e collettiva) come fosse un romanzo: però del genere dei Tre moschettieri (la cui trama è un disegno chiuso e coerente), non dell’Ulisse (che cerca di rispecchiare il mondo attraverso frammenti di realtà); del genere di Conan Doyle e di Agatha Christie, appunto, non di Beckett. Ecco, Annientare inizia come una spy story, un genere narrativo tipicamente a disegno chiuso, in cui i fatti alla fine si riordinano in un disegno sensato. Leggendo il primo capitolo ci sintonizziamo su questo genere. Ci aspettiamo quindi che alla fine ci sarà svelato chi sono i terroristi e quali i loro moventi. Invece il romanzo termina senza che il mistero sia risolto. L’attesa va delusa, come se il romanzo fosse incompiuto. A ben vedere, invece, è compiuto così. C’è un sottile parallelismo tra Paul, il protagonista del romanzo, e noi lettori. Paul è dentro il romanzo ma assiste alla spy story come uno spettatore esterno (non è un terrorista, non è minacciato, non è un poliziotto); noi siamo fuori del romanzo e seguiamo la spy story con gli occhi di Paul. Ci immedesimiamo in Paul. A un certo punto finalmente intuiamo che forse (nelle intenzioni dello scrittore) noi siamo Paul: de te fabula narratur. Ed ecco allora che l’imprevista malattia mortale di Paul – fulminante, dissonante dalla trama attesa – ci trasmette la sensazione che la nostra morte arriverà e non sarà la fine della storia: il mondo andrà avanti senza di noi, per la sua strada; proprio come nel mondo di finzione di Annientare le indagini sul terrorismo proseguiranno anche dopo la morte di Paul. Morire significa essere cacciati dal cinema prima della fine del film, perdere il libro prima di terminare il romanzo, senza poter quindi capire il senso degli avvenimenti. In Annientare la trama come disegno razionale tipica delle storie del genere thriller o crime è sconvolta dall’erompere della casualità, come nella vita vera. Altro che spy story!

Ma poi la storia umana è un romanzo con una trama chiusa? Lascia intravedere un disegno coerente? È un intreccio come quelli di 007 o come quello di Aspettando Godot? Una risposta a questa domanda e una chiave di lettura del romanzo può essere cercata nel fatto che i terroristi senza volto inviano messaggi in codice indecifrabili. Eco scriveva anche (opera citata) che “C’è una regola aurea per ogni criptoanalista o decrittatore di codici segreti, e cioè che ogni messaggio può essere decrittato purché si sappia che si tratta di un messaggio. Il problema col mondo reale è che ci stiamo chiedendo da millenni se ci sia un messaggio e se questo messaggio abbia un senso”. Come la pensi Houellebecq al riguardo lo sappiamo dai romanzi precedenti: non c’è nessun senso ultimo, nessun disegno razionale nel mondo. Morendo siamo strappati via dal cinema prima della fine del film, ma comunque la fine ci avrebbe delusi: nessuna spiegazione sarebbe giunta a comporre gli eventi passati in un quadro sensato. Infatti in Annientare i messaggi dei terroristi restano indecifrati. Quindi il romanzo, se rispecchia la vita, deve restare aperto: i misteri devono restare irrisolti. L’autore degli attentati deve restare in ombra, non identificato, perché nella poetica di Houellebecq l’organizzazione terroristica (la Spectre) è il simbolo dell’orizzonte oltre il quale la nostra intelligenza del mondo non riesce a risalire: è il simbolo della Natura come un tutto che ci contiene e di cui non arriviamo a farci un’immagine compiuta. Intuiamo solo che questo tutto è un distruttore dall’ideologia incomprensibile, né di destra né di sinistra, il cui unico scopo evidente è annientare.

Una conferma di questa chiave di lettura ce la danno i sogni di Paul. Ci vengono raccontati a cadenza regolare, ma non hanno una funzione precisa nella narrazione, non gettano luce sulla storia, non spiegano le azioni del personaggio. Perché allora tanti sogni nel romanzo? Il punto è che anche dei sogni da secoli ci domandiamo se contengano un messaggio, se abbiano un significato: in molte credenze religiose, e anche nel cristianesimo, i sogni sono a volte messaggi divini; nella psicanalisi, sono messaggi decifrabili dell’inconscio. I sogni di Paul non sono messaggi, non hanno senso. E sono più simili a incubi che a bei sogni. È chiaro che per Houellebecq i sogni non hanno senso e con il loro essere insensati e spaventosi sono il simbolo migliore dell’esperienza umana.

Tutto qui allora il messaggio di Annientare? La realtà è come un incubo e noi siamo fatti della stessa sostanza dei (brutti) sogni? No. C’è dell’altro. C’è che i sogni (belli) aiutano a vivere la vita, a sopportare l’insensatezza della realtà. Rispetto ai precedenti romanzi di Houellebecq, si schiude in questo una prospettiva nuova e forse più matura. Nonostante la disperazione sia l’umore di fondo, il mondo resti un luogo cupo e terrificante e la vita un’esperienza senza senso simile a un incubo, c’è stavolta una luce al fondo del tunnel. Innanzitutto le relazioni umane. Di solito i protagonisti di Houellebecq hanno a stento un genitore lontano o un parente anaffettivo. Paul invece non è un uomo solo. Ha relazioni d’amicizia e d’amore, ha una vera famiglia, con moglie, genitori, fratelli (figli sarebbe troppo!). L’amore – che in questo romanzo è soprattutto una capacità sovrumana delle donne (Madeleine, Maryse, Prudence, Cècile) – fa capolino in tutte le sue sfaccettature: coniugale, filiale, amicale. Non solo l’amore la fa da padrone, ma è amore potente, capace di abnegazione (Madeleine e Prudence amano i loro compagni morenti con dedizione materna, caritatevole). Altra novità: il sesso in questo romanzo è quasi solo il lato nascosto dell’amore. L’unica scena di sesso senz’amore è nell’episodio della nipote escort di Paul, che però è farsesco e quasi di maniera (la maniera di Houellebecq). Per il resto i personaggi “fanno sesso” solo per amore, cioè fanno l’amore. Addirittura sia Paul sia Bruno restano astinenti per anni, finché non s’innamorano di nuovo. Ed entrambi i moribondi, sia Paul sia il padre, coi loro corpi malati e sfatti, continuano fino alla fine a fare all’amore con le loro compagne. Una sterzata sorprendente per uno scrittore che da sempre ci ha abituati a trame lardellate da scene pornografiche di sesso crudo senza sentimenti.

Inoltre – altra novità – le idee religiose non sono qui condannate come assurdità che spingono alla violenza (come in Piattaforma. Al centro del mondo) o camuffano debolezza e opportunismo (in Sottomissione) oppure avidità e depravazione (l’azraelismo in Lanzarote), ma sono invece accettate come fioriture naturali e salutari della psiche umana: la sorella e la moglie di Paul (personaggi positivi) sono l’una cattolica, l’altra seguace della Wicca. Lo stesso Paul è agnostico, non ateo, e legge Pascal (che è citato spesso). Si intuisce che le fedi religiose restano per Houellebecq narrazioni non razionali, ma adesso hanno una funzione salvifica nella vita umana, non ottenebrante. La razionalità non è la via per la felicità. Houellebecq lo dice a chiare lettere: “[Paul] Non pensava che alla lunga la razionalità fosse compatibile con la felicità, era perfino abbastanza certo che portasse in tutti i casi alla completa disperazione” (p. 545 dell’edizione italiana). Dire che la razionalità non è compatibile con la felicità equivale a dire che la felicità non è compatibile con la verità, che nella tradizione filosofica occidentale è tutt’uno con la razionalità (il reale è razionale, per dirla con le parole del campione di quella tradizione, Hegel). Di qui si spiega la frase finale del romanzo, posta a suggello del sogno delirante di Paul morente: “Avremmo avuto bisogno di meravigliose menzogne”. Non della verità ha bisogno l’uomo (Houellebecq intende la verità cui conduce la razionalità occidentale: il materialismo scientifico), ma di menzogne: di illusioni che diano senso al mondo, che per Houellebecq non ne ha. La verità (della razionale scienza) porta alla disperazione, mentre le menzogne (tali sono per Houellebecq le credenze religiose) proteggono e rendono la vita vivibile. È un messaggio filosofico in sintonia con certo nichilismo moderno. E con quello del nostrano Leopardi: le “illusioni” come schermo contro l’agghiacciante vista della Natura, il cui simbolo in Leopardi è lo “sterminator” Vesuvio (sterminatore: che annienta). Mentre in questo romanzo è l’innominata Spectre, mostro divoratore che annienta senza ragioni comprensibili. E di cui il cancro è una faccia come tante.

In conclusione, Annientare suggerisce che i film americani, i gialli alla Sherlock Holmes, le storie di spie alla Bond non dicono niente della vita vera (perché la vita non ha senso mentre in quei romanzi tutto alla fine quadra), ma sono però l’appagamento di un desiderio profondamente umano: vincere il male, dare senso al reale, comporre in un quadro comprensibile gli innumerevoli aspetti della realtà. Un desiderio che non va contrastato perché ingannevole, ma assecondato perché risanante: abbiamo bisogno di meravigliose menzogne! Abbiamo bisogno di arte e di fede.

Un romanzo da consigliare? Sì e no. Sotto il profilo della resa artistica, non è questo il capolavoro di Houellebecq. La trama è forse ben concepita; l’esecuzione però deludente. Sembra a tratti di leggere gli appunti di lavoro non sgrossati dello scrittore.

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