I numeri sono buonissimi. Dialogo con Valeria Viganò

a cura di Ivana Margarese

Immagini di Quasirosso

I numeri sono buonissimi è un racconto scritto da Valeria Viganò per Tetra edizioni. Viganò con poetico disincanto ritrae la solitudine della protagonista, voce narrante della storia, che a seguito di un abbandono crea intorno a sé un mondo sempre più rarefatto, in cui gli esseri umani finiscono per dissolversi e l’ossessione sembra riconsegnare la donna a un universo primigenio di simboli, odori, minime attese:

“Gli altri si muovono verso destinazioni che si ignorano, ognuno ha un compito, un dovere: il figlio da riprendere in piscina, la cena con gli amici, una riunione di lavoro, una celebrazione o una ricorrenza e il regalo da comprare, la messa del vespro, un incontro furtivo da giovani fidanzati, gruppi di ragazzi vocianti e indifferenti che si spintonano e sghignazzano.
Vanno e vengono sotto la finestra, parlano al cellulare, aspettano che il verde scatti nell’oblò del semaforo. Un’immensa carica di frustrazioni e gioia, preoccupazioni e soddisfazioni, un coro di combinazioni che pullulano intorno, le pulsazioni diverse che battono al ritmo di un tempo sconosciuto e ignoto, altro da sé che si vuole sempre piegare e da cui si viene sempre piegati. Un’eterna illusione, finché si è vivi”.


Comincio col chiederti del titolo numeri sono buonissimi. Da dove nasce?

Nasce da due momenti con un doppio significato: la bontà dei numeri è data dal legame affettivo che la protagonista instaura con loro, i numeri la sostengono, le danno un senso, a loro lei si rivolge. E quando, nella sua povertà, non riesce a trovare da mangiare, appallottola il foglio su cui li  annota e se lo mangia.

Il testo è dedicato “a tutti i cani del mondo”. Dopo aver letto l’intero racconto sono rimbalzata indietro a questa dedica ed è come se avessi nuovamente “annusato” il personaggio della protagonista, la sua percezione delle cose, profonda e probabilmente lontana da quella che ci concediamo oggi in un ritmo sempre più veloce, in cui le cose ci accadono dentro cornici, quasi vivessimo in una catena di montaggio fatta di appuntamenti e compiti da portare a termine. A cosa ti sei ispirata nell’immaginare questa donna?

Come sempre in letteratura si mescolano esperienze personali con l’immaginazione. La donna che trascriveva i numeri esisteva veramente, la mia osservazione dei suoi gesti e della sua persona ha fatto scattare la percezione della vita che poteva avere avuto, della sua storia ovviamente inventata. Mi colpiva la sua meticolosità mescolata all’ordine apparente nonostante il suo non avere dimora fissa né lavoro. Le ho cucito una vita prima, a me interessa porre l’attenzione su esseri umani che non si piegano alle convenzioni, che sono capaci di rifiutarle per cercare un sé autentico. E’ un gesto rivoluzionario che si paga a caro prezzo.

“Aspettava una persona. Fra tutte le volte che si era recata alla stazione ve ne era stata qualcuna in cui aveva creduto di riconoscerlo”.
Un altro elemento di grande interesse è dato per me dalla presenza dei treni e della stazione. Un ambiente che è possibile legare a un immaginario letterario passato, che racconta di separazioni e abbandoni sentimentali o ancora di finali tragici e amori tormentati. Lo stesso cinema che ha spesso reinterpretato queste storie nasce negli stessi anni in cui compaiono le ferrovie e le città e le distanze cambiano forma. Vorrei sapere, dal momento che la protagonista ha sofferto per un abbandono amoroso al punto da trasformare la sofferenza in ossessiva attesa, se si tratta di un’eco consapevole?

Sì, anche se il treno, come mezzo di partenza e arrivo, è attualissimo nel processo di separazione e ricongiungimento. Sono due momenti emotivi sempre intensi laddove esiste una distanza. Avrei potuto scrivere di un aereo o di un traghetto, che è il mio mezzo preferito, ma sarebbe stata una scena da una parte troppo tecnologica e dall’altra troppo romantica. Personalmente odio il treno e le stazioni, sono sempre fonte di sofferenza e quindi particolarmente adatti alla trama del mio racconto.

“Lei proseguiva l’amore che tra loro c’era stato solo con il suo pensiero elucubrante che valicava i chilometri che la dividevano da lui, luminoso come un laser, più tenace dei fragili cavi telefonici, di ogni satellite in cielo. Non c’erano fulmini che bastavano a interromperlo, né la neve che sommerge i pali, né le mareggiate che li svellono, o l’assenza di rete per un guasto. Nemmeno la incapacità umana, i blocchi volontari di una email, come lui aveva posto in essere, potevano intaccare o far saltare la corrispondenza delle affinità e della dedizione.[…] Nessuno sapeva ciò che sapeva lei. Che l’amore fa davvero ammattire. […] Chi non ha mai atteso un amore che non torna?”.m“ Chi non ha mai atteso un amore che non torna?” è una domanda che senza scomodare la psicoanalisi coinvolge ciascuno di no. Tutti abbiamo fatto in un modo o nell’altro esperienza di questa attesa e abbiamo sperato di vedere tornare ciò che avevamo perso. Da cosa nasce l’idea di dedicare il tuo racconto a questo tema?

Nasce da un capitolo dedicato in Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, Libro che ho amato molto perché analizza l’amore nelle sue sfumature più recondite. L’attesa ha in sé la speranza e la devastazione, talvolta alternate. Può durare un’eternità, protrarsi all’infinito quando non si viene a patti con la perdita. La donna che nel racconto attende un uomo che non la ama più desidera che lui torni ad amarla contro ogni ragionevolezza. Non agisce, attende che lui agisca, gli dà un tempo che lui ha già agevolmente cancellato. L’ossessione della donna verso di lui è passiva nei suoi confronti ma attiva verso se stessa. Le viene data, per un caso fortuito, la possibilità di scrivere la sua storia da parte di un piccolo  editore che in realtà intravede solo un possibile  guadagno. L’esperienza è negativa, le parole non possono tradurre la sua disperazione e quindi la donna le rifiuta, così come aveva rifiutato un lavoro alienante in ufficio. Si rivolge ai numeri che diventano simboli di un alfabeto agli altri sconosciuto ma che ha per lei un significato, un suono, un’armonia. Li legge per strada nel suo vagabondare e li annota su un quaderno. Diventa una vagabonda sorretta dai numeri e dai ritmi naturali, e non da orari umani, ai quali si conforma, vivendo in un parco. E’ una vera outsider della vita.

Quale ruolo ha la “verità” nel tuo testo, nei tuoi testi?

La verità dell’andare a fondo nei personaggi, nel presentarli viventi. Al punto che loro stessi rivelino una verità che a me importa. In fondo dico la verità attraverso di loro, una verità che ovviamente mi preme. Virginia Woolf scriveva “Desiderare il vero, attenderlo, laboriosamente distillare poche parole, sempre desiderare”.

L’ultima domanda riguarda il suono dei numeri : “I miei numeri hanno un suono anche quando non vengono pronunciati, e io li ascolto”.

Come detto, lei ha la capacità di trovare una musica nei numeri per come si compongono persino in una targa automobilistica annotata nel quaderno. E’ un suono alternativo e muto di fronte al vociferare infernale del mondo, a tutte le parole e i discorsi e il blabla inutile e continuo che dobbiamo sopportare ogni giorno. E’ anche un invito da parte mia a stare in silenzio in vari ambiti e fare spazio al nostro sentire, al nostro riflettere, al nostro ascoltare. A fermarci, a vivere fuori dagli schemi che tutto cospira a creare, dalle aspettative che la nostra società ci impone.

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