Riflessioni SUD

a cura di Beatrice Monroy  e Simona Nasca

 

Siamo un piccolo gruppo che si riunisce in casa mia per la necessità di cominciare a guardare al Sud con occhi diversi. Nel parlare sono venuti fuori tanti temi che desideriamo proporre per iniziare, se possibile, un confronto.

Il prima tema che vorremmo proporre è:

​​​​​​Sbagliare

….. non essere come si deve essere, come vogliono che noi siamo.

Questo sentimento di non essere a posto, nel modo giusto, è una costruzione culturale in cui veniamo tenut*, dobbiamo essere conformi a un modello di silenzio affinché la gestione dell’isola sia solo nelle mani di pochi anche se questo ci distrugge sia come persone, tarpando le nostre ali, impedendoci di avere un pensiero autonomo non controllato, sia come natura, contaminata in modo irreversibile da un turismo irresponsabile, cementificata e invasa da migliaia di turisti usa e getta .
Questo sentimento di malessere diffuso porta a cliché, stereotipitalmente cristallizzati da essere intimamente connessi con l’essenza stessa dell’isola.
Una certa cultura isolana ha abbracciato purtroppo questi stereotipi sia per pigrizia mentale, era più facile sposare il pensiero già confezionato che cercare di formularne uno nuovo, sia per timore di mettersi ai margini di una cultura vincente che comunque porta al facile successo.
Sarò e scriverò, insomma, come tu mi vuoi. E non sarò e scriverò come io, posizionat* a sud, con la mia esperienza sento la necessità di narrare.
Ci pare che – anche se preferiamo la caustica penna tardo ottocentesca di DE ROBERTO per niente romantica e nostalgica di un’epoca felice in realtà mai esistita- il romanzo di Tomasi di Lampedusa, pur rimanendo un capolavoro indiscusso è stato molto spesso attraversato da quel dibattito su quella sicilianità che oggi viene riproposta in chiave storico- turistica dal filone dei romanzi storici delle famiglie dell’alta borghesia siciliana.
È interessante come proprio questi romanzi epici che parlano di un’isola mai esistita, abbiamo un incredibile successo internazionale. Pare insomma che quello “che ci si chiede” sia proprio il folclore di una terra inesistente, di tempi felici in cui non ci sono poveri e non c’è la mafia. Niente a che fare con la realtà, dove vivono i nostri corpi attraversati da ben altri ragionamenti.
In questo passaggio ci pare che noi veniamo di nuovo costrett* a non raccontare mai di noi, spint* nell’invisibilità.
Rimangono così due terre, una reale che continua a venire sfruttata in modo selvaggio, fino al suo prossimo collasso e una immaginaria e consolatoria che ci raccontiamo come vera e che ci spinge in un sogno, in un passato mai esistito, dandoci l’illusione di quei tempi in cui la terra era felice e la gente sorrideva per le strade.
In questo immaginario, le nostre paure di essere fuori luogo sembrano scomparire nell’ombra; eppure, sono là vive e stressanti come sempre.

A nostro parere sarebbe interessante affrontarle.

 

 

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