In dialogo con Lea Barletti

In dialogo con Lea Barletti
Di Francesca Grispello
O dell’attualità di teatro e amore.

Per mestiere e vocazione: attrice, scrittrice, presenza di corpo e voce, di inchiostro e spazio.
Lea Barletti è un’artista estremamente densa di senso, il senso disarmato di ogni essere umano che è creatura tra le creature. Mi sono incuriosita qualche anno fa al suo lavoro
Monologo della buona madre che mi ha riconciliato con quel teatro di parola e voce, che ti interpella e che ti lascia con un moto di respiro diverso.

Quando e come ti sei accorta che le parole e la scrittura erano un accesso importante e uno dei mezzi che avrebbe caratterizzato parte di te.
La mia (amata) maestra delle elementari, la maestra Anna, mi chiamava “la poeta” (sì, in anticipo sui tempi del gender), ma ad essere sincera a questa cosa ci ho pensato solo adesso, cercando di rispondere alla tua domanda. E allora mi sono ricordata che ho sempre amato scrivere, ma poi ad un certo punto della vita avevo smesso, insomma avevo come trascurato questa parte di me. L’ho riscoperta quando sono andata a vivere a Berlino, è stato un modo per ritrovarmi, per tenermi insieme con le parole, con la mia lingua, in un posto sconosciuto.
E questa è la versione che racconto sempre, ma le parole, le parole in genere, la capacità di esprimere i pensieri, hanno sempre avuto un potere magico, per me, e questo potere magico era la capacità di connetterti con altre persone, di avvicinarti agli altri, di comunicare, insomma.
Uno dei lavori che ad un certo punto, avrò avuto 10 o 11 anni, avrei voluto “fare da grande” era la logopedista. E se mi chiedevi perché, rispondevo: per aiutare chi non riesce a dire le cose.

E io vi regalo il mio sgomento
vi regalo l’occhio, la bruciatura
l’angolo ferito dello sguardo.
Io vi regalo la mia ultima bugia
la paura della fine, il mio sonno intatto
la verità dei tendini, l’ascolto delle ossa.
Io vi regalo il muscolo incoerente, la parola di troppo
la pietà inesatta, il precisissimo inciampo
la sconcezza del mio colore vergine e salato
l’affondo moderato e cantabile
da cui non trovo scampo.


Il teatro, sei attrice.
Anche qui, come nasce la passione e l’impegno e poi la dedizione verso il teatro. Come e quanto ti metti in gioco mentre ti fai presenza, mentre sei vista? C’è stata un’opera o evento determinante in questa direzione?
Ho iniziato prestissimo, avevo 14 anni e volevo “fare teatro”. Ma questo fare teatro era piuttosto vago, astratto, nella mia mente. Abitavo a Lecce e ai tempi di teatro lì se ne vedeva davvero pochissimo, anzi credo zero, e io ci ero stata forse una volta soltanto, anni prima a Roma con mia zia Marina, piccolissima, a vedere “La gatta cenerentola” della Nuova Compagnia di Canto Popolare, mi ricordo ancora “Uno roie tre e quatto… cinche sei sette e otto…”
Ma insomma non ne sapevo nulla, e così questo desiderio di “fare teatro” si aggrappava all’unica cosa che, in una famiglia di architetti, mi appariva come concreta e fattibile: la scenografia. Ma corsi di scenografia per ragazzi a Lecce non ce n’erano e così trovai l’unico laboratorio esistente, di recitazione, presso Astragali Teatro, con Marcello Primiceri, bravo maestro e gran bella persona morta tragicamente pochissimi anni dopo. La vera folgorazione fu andare, su suggerimento di Marcello, a Bari al Teatro Petruzzelli (che teatro! Enorme! Che impressione!) a vedere
Il potere della follia teatrale di Jan Fabre. Non ricordo quasi nulla, se non la scena in cui un’attrice buttava in terra rompendoli uno dopo l’altro decine di piatti di porcellana… e io che pensavo: sì sì, anche io! è questo, proprio questo che voglio fare! Forse ci sarebbe da chiedersi: fare teatro? o rompere i piatti?

Sei in compagnia con Werner Waas, siete una compagnia teatrale. Come nasce e si snoda questa collaborazione che si origina con mitologie diverse?
A Roma, fine anni ’90, avevo fatto un laboratorio con lui e la sua compagnia di allora, “Quellicherestano”, e poi uno spettacolo, Pene d’amor perdute, con la sua regia. Lo spettacolo era venuto proprio male, il suo peggiore – lo dice pure lui, eh! -, l’atmosfera delle prove era a dire il vero non propriamente felice, anzi, sembrava una vera e propria “catastrofe annunciata”, ma lui mi piaceva, ecco, e allora dopo (dopo! Non avrei mai sopportato di fare l’attrice che si fa una storia con il regista! Il mio personale codice etico me lo impediva…), a lavoro concluso, ci siamo ritrovati e messi insieme. Lo spettacolo era andato malissimo, un vero fiasco, ma io mi ero innamorata… Chissà, forse ha qualcosa a che fare con il mio amore per la fragilità, gli errori, i passi falsi. Per le persone che cadono, che hanno dubbi, che provano, si espongono, si mettono in gioco e poi magari… sbagliano, sì, e stanno lì, nude, davanti agli occhi di tutti e però non si nascondono. Non direi mai per i “perdenti”, perché è una parola che odio, rappresenta un modo di dividere le persone secondo un modello di prestazione e di sfruttamento, un modello capitalista, pubblicitario, che mi è estraneo e odioso. Purtroppo è (ed era già allora) il modello dominante. Nell’arte come in tutto il resto. Per me è assolutamente insensato. La vita vera non ha nulla a che fare con vincere o perdere, avere successo o fallire. E nemmeno l’arte. Entrambe hanno a che fare con le persone, con l’incontro tra le persone, con la ricerca di senso, la dipendenza e l’interdipendenza, i dubbi, la fragilità, la solitudine, i paesaggi interiori ed esteriori e il bisogno di comunicarli, la capacità di sentire… e con l’amore! L’amore e le persone (e gli alberi, ma qui aprirei un’altra parentesi infinita) mi interessano più di tutto, più di qualsiasi altra cosa, e secondo me è quello che davvero interessa a tutti. Poi ognuno ricopre, traveste, questo bisogno, questo interesse, con un abbigliamento diverso. E a volte ci si dimentica persino di cosa c’è sotto quell’abbigliamento, quel costume.
So che dire cose così suona naive e fuori moda. Di più, suona quasi svergognato, impudico. Suona più impudico che parlare di sesso. Di sesso si parla continuamente. Che noia. Dovrei parlare di sesso o di politica, forse, o di temi più attuali, più “seri”? Ma cosa c’è di più attuale delle persone e dell’amore?
Va bene, insomma, per tornare alla tua domanda poi abbiamo cominciato a fare tutto questo insieme. Riassumendo: abbiamo cominciato a cercare un senso. Insieme.

Il Monologo della Buona Madre, il testo su Peter Handke, come scegli e scegliete temi e immagini?
Un testo ci deve parlare. E deve parlare di noi. Ma non – o non solo – di noi in quanto Lea e Werner: di noi in quanto esseri umani. Deve essere, in questo e solo in questo senso, attuale. Tutti i buoni testi sono attuali. E lo sono senza bisogno di “attualizzarli”. Uno dei nostri ultimi lavori è l’Antigone di Sofocle. Qualcuno sente davvero il bisogno di attualizzare l’Antigone? Se lo si fa è perché ci si perde appresso al superfluo. L’attualità è superflua.

2023 siamo a teatro. Cos’è il teatro nel 2023?
La ricerca di ciò che non è superfluo, ovvero, per me, l’incontro e il dialogo con altri esseri umani. In tedesco c’è questa parola bellissima, “Mitmenschen”, che letteralmente significa “con-umani”. Io faccio teatro per incontrare i miei conumani, per condividere con loro una ricerca di senso.

Nella tua grammatica c’è una componente della visione, dell’esposizione (carne, crepe, ossa, terra…) la tua scrittura prende dal tuo essere attrice e ti espone. Cosa cerchi nell’esposizione e nella visione?
La mia è effettivamente una grammatica del corpo. Parto dal corpo, perché è il luogo dove nasce la parola, dove cresce la lingua. La mia scrittura è nel corpo, prende dal mio essere corpo, corpo parlante, esattamente lì da dove prende il mio essere attrice. Mi espongo, corpo, parola, lingua, per essere vista, per incontrare me stessa attraverso lo sguardo degli altri e allo stesso tempo incontrare gli altri rimandando loro, attraverso di me, un’immagine di sé.
Ma in realtà non faccio differenze: io, gli altri…
Io sono io solo per caso, è una frase dal Kaspar di P. Handke che sento profondamente mia e assolutamente vera.

Spezza il guscio del sonno
escine gheriglio intatto
incastro perfetto di emisferi.
Separa con delicatezza
riunisci con furore.
Non c’è incontro senza deviazione
senza perdita di conoscenza.

Non solo scrivi e sei attrice, ma anche donna. C’è una “questione femminile” nel mondo del teatro e delle arti? Essere donna è ti ha mai penalizzato?
Sì certamente. C’è una questione femminile nel mondo, e quindi anche nel teatro e nelle arti. Ma direi delle ovvietà. Ne dico solo una, di ovvietà (tralasciando tutte le altre, come per esempio l’essere diventata madre, con tutto ciò che comporta per il lavoro, eccetera): da giovane mi faceva rabbia non essere presa in considerazione come essere pensante, erano tutti troppo occupati, uomini e donne, con il mio aspetto fisico. Negli ultimi anni mi sono riconciliata con il mio corpo, e da quando il mio aspetto fisico passa un po’ in secondo piano a causa dell’età, finalmente mi sento “autorizzata” ad usarlo, e mi accorgo che forse sono io a non aver capito subito che invece che cercare di far dimenticare il corpo per far risaltare il pensiero (che pensiero assurdo, eh!), avrei forse dovuto lasciare maggiormente che il pensiero splendesse e si esprimesse attraverso il corpo. Magari avrei dovuto fare la danzatrice, invece che l’attrice. È un pensiero ricorrente degli ultimi dieci anni, nei quali infatti ho danzato molto. E faccio yoga tutti i giorni, da sola, o a volte anche con altri.
La danza e lo yoga hanno riconnesso il corpo alla parola. E così da allora cerco il luogo dove possano splendere, anche solo per un attimo, insieme. Per poi magari scomparire, entrare nella crepa, farmi crepa e passaggio io stessa. Ma questo che c’entra con la questione femminile? C’entra, c’entra.

Nel 2018 hai scritto “Libro dei dispersi e dei ritornati” 11 racconti per 12 foto naufragate e una radiografia. In questo volume imbastisci 11 storie prendendo spunto da immagini di vecchie fotografie trovate al mercato. Cosa ti ha sollecitato nell’ispirazione, insegnato nello scriverlo e lasciato?
Il debito e la riconoscenza. Il debito ha sollecitato il desiderio di scrivere. Come ho scritto nella premessa al libro, guardando e acquistando quelle fotografie di persone sconosciute, mi sembrava di aver contratto un debito con loro. E allora ho scritto: per riconoscenza. Riconoscenza è un’altra parola che amo. Ho scritto perché ho visto e riconosciuto l’umano in quelle vecchie immagini dimenticate, e mi ci sono riconosciuta. Per me non c’è niente di più assurdo del pensarmi indipendente. Nessuno è indipendente, siamo tutti inesorabilmente legati e dipendenti gli uni dagli altri. Bisogna solo riconoscerlo. Ed essere riconoscenti.

 

Le immagini più del ricordo possono far germogliare nuova vita?
Le immagini, e per immagini intendo quelle create dalla visione ma anche dall’ascolto, quindi dalle parole, dal suono, dal ricordo, dalle emozioni e da qualsiasi altra cosa, sono porte, passaggi verso qualcosa di nuovo che vuole esprimersi, esistere, essere visto e accolto. Se il canale interno è aperto e la connessione può avvenire, allora può germogliare nuova vita, sì. Si tratta di lavorare perché il canale resti aperto. È un lavoro, quello, a volte anche faticoso, ma è l’unico lavoro che valga la pena di fare.

Sei italiana e vivi in Germania. Ti senti emigrante, espatriata o europea?
Ah, che domanda.
Più che altro mi sento in esilio, un po’ ovunque e un po’ da sempre. La mia casa sono le persone che amo, e quelle sono sparse in tanti luoghi diversi, quindi mi è difficile rispondere, nel senso di collocarmi. Dell’Italia, oltre ad alcune persone, mi manca molto il paesaggio, soprattutto quello della campagna romana, il profilo scuro dei pini e il sentire che, non lontano, c’è il mare. Quello è il paesaggio che più corrisponde al mio paesaggio interiore e mi manca molto, sì. E questa mancanza contribuisce sicuramente alla sensazione di esilio. Ma poi se mi chiedi: dove vorresti vivere? Non lo so.

La lingua tedesca apparentemente durissima, trovo sia una lingua molto poetica e che contiene mola visione. Cosa ne pensi? Cosa ti ha offerto la lingua tedesca?
La lingua tedesca è una lingua bellissima, che solo lo stereotipo italiano considera dura. Invece, come dici tu, è una lingua poetica, molto complessa e piena di sfumature. Una lingua che trova una parola per ogni cosa e se non ce l’ha, ti lascia la possibilità di crearla. È una lingua creativa e aperta, per lo meno a livello di lessico. Mi ha insegnato che se non so come dire una cosa, posso sempre provare a inventarla ex novo.

Lea BarlettiDopo la chiusura forzata a causa della pandemia, la ripresa degli eventi dove ti sta conducendo? Raccontaci dei tuoi prossimi obiettivi e delle tue prossime tappe.
Tra poco (il 27, 28 e 29 Gennaio) saremo a Lecce presso i Cantieri Teatrali Koreja, con una “personale” Barletti/Waas. Dopo tanto tempo tornare nella città dove sono cresciuta con una panoramica piuttosto ampia del nostro lavoro (oltretutto su quattro dei testi in scena, tre sono miei!) è una cosa che mi fa felice e mi emoziona molto. Spero che tanti miei vecchi compagni di strada abbiano voglia e curiosità di venire e di avere così la possibilità di riconoscerci.
Magari non mi ricorderò qualche nome, ma la riconoscenza è possibile anche così.
Al di là di questo, sto studiando per diventare insegnante di Yoga, ed è un percorso che sento molto. Io che non ho mai pensato di poter insegnare nulla, che anzi ho molti dubbi sul fatto che si possa davvero insegnare qualcosa in generale, sto vincendo questo pudore (o timore che dir si voglia), attraverso lo yoga. In seguito, da vecchia, forse molto vecchia (più vecchia di quanto già sono) potrò forse anche pensare di condurre un laboratorio di teatro. Premettendo sempre come primissima cosa, ai miei “allievi”: l’unica cosa che ho capito è che bisogna trovare il modo di lasciare il canale aperto e libero, il canale che permette di sentire le emozioni e di lasciarle essere. Quello che se è sgombro e funziona, fa sì che tu possa essere tutto e tutti, e che nessuna emozione umana ti sia estranea. Bisogna rendersi trasparenti, non aver paura di guardare e lasciarsi guardare, lasciare il canale aperto anche quando si ha paura e si vorrebbe chiudere, chiudersi, e non guardare più. E dov’è questo canale? ah, non lo so. Non so se è nello stesso luogo per tutti, ma il mio corre lungo tutto il corpo, verticalmente, nel mezzo, lungo la colonna vertebrale e si allarga e si apre all’altezza dello sterno.
Comunque. Non so se ho obiettivi e tappe precise da raccontarti, ma so che voglio continuare a lavorare per tenere questo canale aperto, per riconoscere ed essere riconosciuta dai miei conumani. Teatro, yoga, scrittura, canto, va bene tutto, sono solo mezzi. Tanto l’unica cosa che mi interessa è l’amore.

Un libro: Le onde, V. Woolf
Una città: Roma
Una persona: non una sola
Un odore: quello dei panni asciugati dal sole
Un cibo: mozzarella, quella buona pugliese
Un libro: Mia madre ride, C. Ackerman
Un brano: Into my arms, Nick Cave
Un verso
Ma il tuo dolore mi penetra fin nelle fibre più strette del mio corpo universale di Amelia Rosselli.

Per informazioni:
https://barlettiwaas.eu/

1 Comment
  • Massimo Binarelli
    Posted at 18:38h, 14 Gennaio Rispondi

    Mi piace il tuo aprirsi e sconvolge il tuo dare una via ad uscire dal corpo verso l’altro a cercare un verbo che sia parola. e gesto per fondersi tutti in quella terra rossa pastosa odorosa di olivo che ci è madre. Massimo

Post A Comment