Piccino

di Rossella Caleca

 

Immagine in copertina: Henri Matisse, Woman on a Sofa, Yellow and Blue Background, 1936

 

Andare sulla spiaggia dopo una mareggiata era la cosa che più amavo del mese di ottobre. Dopo le prime burrasche che annunciavano l’autunno, il mare tornava mio: via i turisti dagli alberghi, i villeggianti dalle seconde case, via i bagnanti dalla sabbia, si incontravano solo, al tramonto, rari pescatori dietro le loro lenze, e presto anche questi sarebbero scomparsi. Quella mattina ero sceso in spiaggia all’alba, dopo una notte rigata da una tempesta elettrica asciutta e inquieta, in cui non avevo preso sonno.

Qualche mese di volontaria solitudine non mi aveva ancora portato serenità, né cancellato il mio disturbo, la sensazione di vuoto allo stomaco che mi affliggeva ormai da anni; mi aveva insegnato però a godere la gioia del silenzio, a riempire di me lo spazio dell’assenza degli altri esseri umani. E di questo spazio era parte camminare da solo in riva al mare.

La risacca aveva orlato la sabbia di detriti e lunghe posidonie che cominciavano ad asciugarsi, tra cui camminavo gettando intorno uno sguardo ozioso, ancora appannato dal sonno mancato. Conchiglie ce n’erano molte, anche insolite; notai che alcune si muovevano ancora; i paguri che le abitavano dovevano essere ben vivi.

Mi caddero gli occhi su una in particolare, piuttosto grande, un’elica rosea e affusolata che si muoveva con brevi scatti. Il piccolo animale che la spostava fece emergere la testa, e quella testa non apparteneva a un mollusco, e in cima aveva due occhi che mi fissavano.

Raccolsi la conchiglia e lo guardai da vicino. La testolina era occupata quasi per metà da grandi occhi neri, rotondi. Aveva orecchie grandi, a punta, qualcosa che sembrava un naso. Non aveva la bocca. Il corpo, piccino, scompariva nella spirale.

Restai ad osservarlo per un po’, senza alcuna paura e, direi, senza quasi meraviglia; mi rendevo conto – una parte di me si rendeva conto – che stavo osservando qualcosa di straordinario, un animale – se lo era – mai visto prima, del genere di quelle creature fantastiche illustrate nei bestiari medievali o narrate in miti remoti, ma un’altra parte di me sembrava riconoscere del tutto naturale l’esistenza di quella nuova specie.

Lo portai a casa, posai con cautela la conchiglia sulla scrivania. L’esserino non cessava di fissarmi, con interesse, sembrava. Quando gli chiesi, sussurrando: “cosa sei?” le sue orecchie si mossero leggermente. Nessuna risposta: ma la testolina seguiva ogni mio movimento.

Considerai la cosa. Ero solo, non sarei tornato in città – avevo già deciso – per altri due mesi almeno. Poteva farmi compagnia.

Lo presi delicatamente per un orecchio, tirandolo fuori dalla conchiglia, e lo posai sul mouse pad. Si arrampicò velocemente sul monitor del computer, con l’aiuto di due braccine simili a tentacoli continuò ad avanzare dietro lo schermo fino ad affacciarsi con la testolina giù dal bordo superiore.

Aveva il corpo simile a quello di un gamberetto. Pensai che di sicuro non avrebbe avuto grosse esigenze. Intanto continuava a fissarmi con interesse, sembrava non ci fosse altro al mondo, per lui, che la mia persona. Era come se, nato allora dalla sabbia, avesse riconosciuto in me l’essere a cui affidarsi.

Cominciò così la nostra convivenza, in sintonia silenziosa e completa. Decisi di non dire nulla ai pochi che ancora entravano a casa mia – uno solo per la verità. Del resto il piccolo si mimetizzava perfettamente, sembrava un gadget di quelli che i ragazzi tengono sui monitor.

Il mio amico – più che altro un conoscente, in realtà – venne in effetti a trovarmi qualche sera dopo, chiacchierammo vagamente, come al solito, per un po’; ero teso, preoccupato che potesse girare per casa, magari sedersi alla scrivania, che un movimento tradisse la presenza del mio piccolo ospite, o, peggio, che lui stesso decidesse di strisciare giù dalla sua posizione abituale e fare capolino in cerca di me. Finii per accompagnare alla porta l’amico, con una scusa assai debole – gli dissi che mi stava assalendo un’improvvisa emicrania. Del resto, anche lui era abituato ai miei modi. Tornai rapido alla scrivania: il piccino non s’era mosso. Bastava, quindi, non passargli davanti quando c’era qualcuno: lui restava lì, in attesa del mio ritorno. Stava sempre lì, osservandomi mentre scrivevo – avevo iniziato a scrivere la storia della mia vita, giusto per chiarire alcune cose – tranne quando, la sera, lo posavo sul comodino, perchè potesse riposare nella sua conchiglia, accanto a me. Dopo la fine della mia ultima relazione sentimentale, era la prima volta che qualcuno restava accanto a me tutta la notte, e a volte avevo la sensazione, che, pur con quegli occhioni chiusi, vegliasse benevolmente su di me. Per la prima volta da anni, dormivo benissimo, un unico sonno senza sogni.

Progressivamente mi apparve sempre più evidente che il piccino, così lo avevo chiamato, era senza dubbio un qualcuno, non un qualcosa. Qualcuno la cui unica occupazione era adorarmi.

Gli rivolgevo, di quando in quando, la parola: lui non poteva rispondermi, ma ascoltava con estremo interesse, e questo mi bastava. I suoi occhi interamente neri erano pozzi di infinita comprensione. Avessero fatto come lui le persone che più mi avevano ferito nella vita, quelle stesse che avrebbero dovuto amarmi! Invece, nessuno mi aveva mai ascoltato – né guardato – così. E non chiedeva nulla: sembrava non avesse alcun bisogno.

Cominciai a pensare che sarebbe stato difficile riprendere la consueta vita in città. E’ vero che non lavoravo più – lasciare finalmente quell’ambiente velenoso, gremito di gente invidiosa, era stato una liberazione – ma non avevo voglia di rivedere certe facce, le facce false di amici e parenti, ma anche quelle degli estranei che abitualmente incontravo – il portiere, il giornalaio, la commessa del supermercato – gonfie di tedio e indifferenza. C’era poi da affrontare alcune ultime questioni finanziarie e la prospettiva mi disgustava. Quanto sarebbe stato meglio rimanere sempre al mare, nella solitudine accogliente dell’inverno, con l’eco delle onde ingrossate rotolante dietro le persiane. Col piccino, non sarei stato solo.

Disposi così delle mie cose in modo tale da potermene restare tranquillo lì dov’ero. La nostra simbiosi diventava sempre più perfetta: il piccolo imparò progressivamente a salirmi sulla spalla e ad installarsi in equilibrio tra il collo e l’orecchio, così lo portavo con me mentre cucinavo o giravo per la casa; era una presenza umida e sottile, leggerissimo, si muoveva senza lasciare tracce, e senza scivolare mai, sempre attaccato a me con impercettibile tenacia.

Non so quando la paura cominciò a salirmi dentro. Forse fu una notte, quando, dopo sogni perturbati di cui non conservo il ricordo, mi svegliai di colpo nell’angoscia di non sentirlo respirare – il suo respiro era una vibrazione leggerissima, che si avvertiva solo pelle contro pelle – ma era invece accanto a me, proprio nella piega del collo, ed aveva aperto gli occhi, come sempre, non appena io avevo aperto i miei. Nei giorni seguenti realizzai che da quando c’era il piccino quell’impressione di vuoto interiore, quella cosa simile a una fame mai saziata che provavo fin da ragazzo, che di giorno ingannavo ma di notte si faceva sentire e assorbiva i battiti del mio cuore come un buco nero, quella cosa là da quando stavo col piccino non c’era più. E se lo avessi perduto?

Divenni inquieto e nervoso, ripresi a muovermi con gambe pesanti, misurando le stanze in continui andirivieni, come in passato, nei momenti peggiori. La notte stavo sveglio per ore, pago di vedere il mio piccolo compagno vegliare quietamente con me, solo a tratti crollavo in sonni agitati. Presi ad essere, mentre sbrigavo le faccende di casa, attentissimo a non fare movimenti bruschi, come per evitare urti o cadute che mai s’erano verificati; ma, oltre ogni precauzione, diventava sempre più ferma la certezza di essere in pericolo. Il mio tesoro era estremamente vulnerabile.

Sarebbe bastato uno stupido incidente domestico. Sarebbe bastato un gatto. O forse un’altra notte elettrica. Se, come era venuto, fosse scomparso? Non potevo permetterlo.

Presi la decisione qualche giorno dopo, gliene parlai, e lui fu d’accordo. Non mi rispose certo con le parole, ma col lampo degli occhi.

Così lo portai pian piano davanti al mio viso, tenendolo con due dita, e aprii la bocca.

Rossella Caleca vive a Balestrate, in provincia di Palermo. Sociologa, si occupa di progetti per l’inclusione sociale di persone svantaggiate. Ha pubblicato racconti nelle riviste “Marea”, “Mastro Pulce”, “Mezzocielo”, su siti web e nelle antologie Le personagge sono voci interiori (Vita Activa, 2016), La speranza è una strana invenzione (Vita Activa Nuova, 2021), Visioni di futuro (Il filo di Eloisa- Associazione culturale Eloisa Manciati, 2022); un suo racconto ha conseguito il primo premio nella V edizione del concorso letterario “Elca Ruzzier. Una donna da non dimenticare” ed è stato pubblicato nell’antologia Prisma di frammenti. Storie di donne (Vita Activa, 2021). Ha pubblicato inoltre una silloge poetica dal titolo La stagione accanto (Samuele Editore, 2021).

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