Notte, giorno, notte. In dialogo con Beatrice Monroy

a cura di Ivana Margarese

 

Notte, giorno, notte di Beatrice Monroy è un romanzo ambientato a Palermo.
Monroy racconta l’intreccio che lega sottilmente  quattro personaggi  e con un ritmo cadenzato fa luce su dinamiche civili e sociali che da fatto di cronaca, per quanto appaiano lontane, possono anche divenire vicenda privata se abbiamo il coraggio di prestare loro orecchio.
Maggio, 1946. Nell’immediato dopoguerra viene istituita la Regione siciliana a Statuto Autonomo e decine di famiglie si trasferiscono per un impiego regionale ricevuto su chiamata diretta, in fretta e furia mentre si lavora alla costruzione di una città in cemento armato che le accolga.
Luglio, 1993. La città di cemento è abitata ora dai figli di chi l’aveva vista nascere. Durante una notte insonne Matilde cerca riposo in terrazza sulla sedia a dondolo e, quasi per caso, si ritrova ad ascoltare ciò che accade dall’altra parte della terrazza, dietro la veranda, dove ci sono Carla e Roberto che, di sera in sera, si raccontano una storia fatta di intrighi, imbrogli, violenza, omicidi.
Al ritmo del Tric Trac della sedia a dondolo Matilde non può non ascoltare, non riesce, nonostante tutto, a non ricordare: “ Noi non abbiamo bisogno di tutti questi ricordi. Rimane la vita giorno dopo giorno. Una vita smemorata la mia, ma, in fondo, che male c’è?”.


Ti domando innanzitutto quando è nata in te l’idea di questo romanzo, se lo hai scritto in breve o lungo tempo e se il titolo è ti è venuto in mente facilmente o ha richiesto una lenta genesi.

Questo romanzo ha avuto una gestazione infinita, è nato nel secolo scorso, quando non ero ancora tornata a Palermo. Da subito però ho avuto l’idea di volere raccontare la città infame, quella che sta zitta e che nessuno racconta. È nato infatti ai tempi del boom di Camilleri in cui la Sicilia si è trasformata in giallo. Gialli siciliani senza mafia e intanto qui c’era la guerra civile e il grande silenzio. Ma proprio quest’idea è stata lentissima, prima, a consolidarsi in me e, poi, a trovare il coraggio di scriverne. Infatti, la censura interna è su di noi fortissima e bisogna vincerla se si vuole scrivere per davvero di questo inquietante luogo in cui viviamo. Ci sono poi stati infiniti tentativi di pubblicarlo prima di approdare da Perrone, ma soprattutto ci sono stati i grandi incoraggiamenti di Giovanna Salvia e Piero Melati e questo mi ha dato la possibilità di superare la mia censura interna e finire la scrittura. Il titolo originario era semplicemente Carla, Giovanna Salvia mi ha suggerito l’attuale che mi piace perché scandisce la storia stessa del romanzo.

Tric trac fa la mia sedia a dondolo” è una frase, un ritmo, che compare molte volte nel testo. Ho immaginato la scena, come fossi a teatro: questa donna insonne che la notte avverte il traballare dei pensieri e della sua stessa vita che risuona distintamente, nonostante lei finisca per non prestargli ascolto. “ Tric trac fa la mia sedia a dondolo. Non le do retta”.

Sì, tric trac è il tempo della passione. Il tempo necessario per sprofondare nella verità che non è mai difficile da accogliere e infatti vedremo poi cosa fa Matilde. Tric trac è il tempo del fuori, un richiamo, se si vuole, da ascoltare. Sicuramente ha per me a che fare con il teatro e con la radio, due luoghi a me molto cari e che mi hanno insegnato appunto la necessità temporale per scandire il cammino umano. È un rallenti, insomma.

 


Il tuo romanzo racconta anche di un’amicizia rimasta sospesa come un filo che non si svolge. Due donne provenienti da uno stesso ambiente, amiche da bambine e da ragazze, che seguono percorsi differenti. Entrambi i percorsi tuttavia si rivelano, per motivi diversi, una gabbia. Che ruolo ha avuto l’amicizia nei tuoi cambiamenti di prospettiva e di vita? E che ruolo ha nella tua scrittura?

Se debbo fare un riferimento autobiografico posso dire che essendo cresciuta in una famiglia di donne, molte sorelle più grandi, per me scrivere di donne legate da lacci difficili da sciogliere mi viene naturale. La famiglia si diceva alcuni decenni fa, è una camera a gas. La famiglia per noi donne siciliane è una forza immensa e nello stesso tempo una gabbia che ci impedisce di crescere e dove non ci viene riconosciuto se non il silenzio. Sono particolarmente interessata a entrare e narrare queste gabbie in cui così spesso ci troviamo rovinandoci completamente la vita, così come succede alla due protagoniste, amiche, sorelle. Per me l’amicizia è la vera famiglia, quella che mi da, da cui ricevo e nella quale posso essere me stessa. Il tradimento di un’amicizia è terribile.

Altro elemento che emerge nella lettura del romanzo è la scelta dell’omertà. Il non volere sapere, la paura della verità, l’irrigidimento di ogni emozione. Lo scegliere una vita regolare sembrerebbe voler nascondere qualsiasi traccia di inquietudine. È un ritratto spietato. È al contempo veritiero?

Io penso di sì e di questo silenzio omertoso, di questa decisione così frequente del silenzio, scrivo. Dieci anni fa ho scritto la storia di Franca Viola in un romanzo che si chiama, Niente ci fu, pubblicato da La meridiana. Appunto, niente ci fu, tutte le donne siciliane di fronte a un sopruso almeno una volta nella vita, si sono sentite dire dalle madri, dalle zie, dalle nonne, vai avanti, niente ci fu. Imparare a rifiutare il niente ci fu è una condizione essenziale per noi donne del sud. E di questo ostinatamente scrivo.

Che valore assumono le rovine, i ruderi, i cumuli di immondizia del paesaggio cittadino nel descrivere la geografia intima dei tuoi personaggi?

Io credo fermamente che il paesaggio ci determini, se io vivo circondata da boschi o davanti al mare, io sarò in un certo modo. Se io sono costretta a vivere in un appartamento del sacco di Palermo e non vedo alberi, non vedo natura ma casomai se scendo per strada, vedo cumuli di immondizia, macerie sarò in un certo modo. Vivere nella catastrofe, nel non bello, nello sfigato comporta una depressione di base, un rifugiarsi nel tempo che fu, immaginare questa Palermo bellissima dei Florio (che poi invece la città era fatiscente) , un mondo che è stato perfetto e tappare gli occhi , così come tappiamo le orecchie. Dobbiamo imparare a chiederci come siamo e cosa significa questo sfacelo per noi, per le nostre coscienze per le nostre anime, smetterla di girare la testa…

Matilde, la voce narrante, guarda e ascolta di nascosto le vicende di Carla e Roberto. Carla e Matilde non si incontrano mai; Matilde e Roberto poche volte in cui si rivolgono frasi di circostanza. Riflettevo sulla potenza anche oppressiva che nella nostra cultura siciliana ha lo sguardo, l’essere guardati, l’essere giudicati, l’essere ammirati si sostituiscono spesso alla voglia di agire insieme alla pari.

Volevo scrivere una storia di sospensione e, dunque, di oppressione in cui i corpi sono quasi del tutto assenti e appunto, come dici, narrare l’oppressione che nasce dal sentito dire, dalle mezze frasi che lasciano aperture infinite. Dai sussurri ascoltati su una terrazza, dai giudizi sul nulla ma che servono solo a renderci per forza, a infilarci a forza in destini preordinati e sempre eguali. Qui la differenza uccide, uno sguardo o un sussurro ti rendono colpevole. Non è passato poi tanto tempo da quando le donne portavano il velo nero in testa, io me lo ricordo benissimo.


L’ultima domanda riguarda Federico e Roberto, descritti come due figure maschili quasi opposte, ma simili nella loro piena adesione a un modello che non fa emergere sfumature. Vorrei un tuo parere.

Non vorrei svelare ma non sono proprio degli opposti, per me sono due uomini che barcollano in una società machista. Federico da vincitore è un vuoto totale, è il modello vincente, Roberto è un uomo più moderno che tenta almeno di guardarsi attorno, ci prova..

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