Annie Vivanti, Il fascino delle solitudini

a cura di Ivana Margarese

 

 

Anna Emilia Vivanti, detta Annie, è una figura controversa del panorama letterario italiano. Scrittrice cosmopolita, non solo perché pensò, scrisse e visse in molte lingue e culture, ma anche per la sua visione aperta, in grado di mescolare leggiadria e profondità, senza alcuna posa.
Indipendente da correnti letterarie, da logiche editoriali e da poteri o gerarchie, la scrittura di Vivanti è una scrittura arguta che, più che indulgere in lunghi ragionamenti, stimola in maniera ironica e lieve il lettore a trarre le sue conclusioni.
Nella prefazione a Il fascino delle solitudini, raccolta di racconti di Annie Vivanti recentemente pubblicata da Readerforblind, casa editrice che si dedica anche a cercare e ritrovare opere che sono state ingiustamente dimenticate nel tempo, Nadia Terranova scrive:

“Se una donna che scrive è sempre uno scandalo, una donna che ha successo grazie a ciò che scrive è intollerabile. La critica non le risparmiò il peggio che si possa riservare a un’artista: non attacchi diretti, ma risolini e facili ironie. Luigi Russo, dovendole riconoscere a denti stretti una certa fluidità, precisava che comunque la sua narrazione era condotta «nel modo come sa e può una signora che ha nervi sensibili e fantasia allucinante», Giuseppe Antonio Borgese la definì «furia scapigliata e incongrua» e «zingara della cosmopoli romantica» proseguendo in una disistima che originava già in Benedetto Croce. Ma non furono solo i critici – tutti maschi – a mal celare l’insofferenza per la popolarità di Annie Vivanti: la sprezzante definizione di “vivantine” riservata alle sue lettrici venne da Matilde Serao, che sentiva il bisogno di sottolineare come il suo pubblico fosse com- posto da donnette che in fatto di letture si accontentavano di poco. Non era così in realtà, ma l’utilizzo del femminile dispregiativo, per di più usato da una scrittrice, la dice lunga sulla misoginia introiettata nel sistema culturale e anche sull’incapacità di comprendere una reale anomalia nel panorama letterario dell’epoca. Annie Vivanti non somigliava a nessun’altra e a nessun altro, si concedeva il lusso di andare dritta per la sua strada con grazia e tenacia”.

 

 

Vivanti nacque a Londra il 7 aprile 1866, dove il padre Anselmo, patriota mantovano di origine ebraica, seguace degli ideali mazziniani, si era rifugiato dopo i moti di Mantova del 1851. Venne in Italia, appena ventenne, a fare l’istitutrice, diede lezioni di piano, recitò in teatro e scrisse versi. Nel 1889 cominciò una chiacchierata relazione con il poeta Giosuè Carducci, a cui è dedicato anche un racconto di questa raccolta:

“Un giorno, a Milano, mi trovai timida e tremante dinanzi al formidabile scrittoio dell’editore Emilio Treves. Egli teneva tra due dita sdegnose un sottile rotolo manoscritto che io gli avevo portato.

«Che roba è?», mi chiese egli.

Io risposi, arrossendo, che erano poesie.

«Per carità! Porti via!», diss’egli agitato.

«Ma come», balbettai, «se non le ha neppur lette!» «Leggerle?!», esclamò il commendatore con la sua grossa risata, «leggerle?! Crede lei che noi stiamo qui a leggere poesie? Noi siamo qui per fare degli affari. Buon giorno!»

Forse gli apparvi piccola e triste quando volsi le spalle e me ne andai verso la porta, perché egli soggiunse come per consolarmi: «Me ne dispiace, sa! Ma ci vorrebbe, per esempio, una prefazione del Carducci. Allora si potrebbe riparlarne»”.

La scrittrice, su suggerimento del fratello, decise di andare a Bologna, a trovare Carducci nella sua storica casa sulle Mura di porta Mazzini. Il racconto descrive le emozioni confuse e la determinazione speranzosa con cui Annie si recò dal celebre poeta per chiedere una prefazione ai suoi versi . Vivanti riesce a far partecipare con delicata naturalezza il lettore alla scena:

“«Dunque, una poetessa!», ripeté Carducci. «Che cosa ha letto?»

Mi pareva che avrebbe dovuto dire: «Che cosa ha scritto». E rimasi di nuovo attonita e muta.

«Dei nostri Grandi, che cosa sa?»

Ecco! Era il momento di collocare le rosse vacche! Ma erano fuggite… Mi pareva di sentirmele galoppare sul cuore!

E dietro a loro correvano i miei pensieri, incoerenti, assurdi. E Carducci, professore, interrogava severo:

«Che cosa conosce lei di Dante?»

«Le illustrazioni del Doré», dissi, mossa da un impeto di sincerità.

Carducci rise. Rise d’un caro riso, inaspettato e gaio”.

 

Il ritratto di Carducci mescola tenerezza e scontrosità. Verso di lei infatti il poeta  si mostra per lo più critico, cosa che lei pare tradurre affettuosamente tanto da rispondere con un gioco, fingendo di provare timore, o semplicemente ridendo. Annie Vivanti, nel 1892, sposa l’inglese John Chartres ed ebbe da lui una figlia, Vivien, enfant prodige del violino. A lei e al suo straordinario talento musicale Annie dedica uno dei racconti contenuti all’interno de Il fascino delle solitudini, dal titolo “La storia di Vivien”:~

“I cari piedini di cui i passi vacillanti la conducevano, correndo, alle mie braccia, ora saliranno, gravi e solitari, la Via Dolorosa della Gloria.

Veramente ella non sa nulla di tutto ciò. Semplice e gioconda ella passa tra i sorrisi, tra gli applausi, tra le lagrime di tenerezza, inconsapevole delle emozioni che suscita, ignara della Fama che le cinge di luce la bionda testa d’arcangioletto! Ella non sa nulla, nulla dei pericoli e dei dolori dell’Arte. Nella sua candida e lieta vita infantile, il violino non è che una gioia di più.

E siano per me le ansie, per me le veglie e i batticuori. Quando nella sala rumoreggiante di pubblico, il silenzio cade improvviso al suo apparire, io stringo convulsa le mani e non respiro.

Subito il suo sorriso mi cerca. Poi, alzando il violino, ella suona – per me!

E la musica incantata ci trasporta entrambe lontano dalla folla, lontano dalla vita.

Ci porta nei paesi felici dove le fate passeggiano per giardini risplendenti; dove le bambole non si rompono, dove i fiori non appassiscono, dove i bambini restano sempre piccini – e le mamme non piangono mai”.

Vivanti racconta, con semplicità e arguzia, della vita che tanto promette e così poco mantiene, della gloria così difficile a raggiungere e così aspra a tenere, della gioventù fuggente e della vanità d’ogni cosa. Il primo racconto della raccolta inizia con una frase poetica che ben descrive la personalità dell’autrice:

“Io sono nata colla passione delle lontananze.

Non posso vedere davanti a me una strada – bianca, ignota, che conduce chi sa dove! ‒ senza sentire la necessità di percorrerla, lo struggimento di seguirla fin dove va […]. A coloro che in quella sera m’aspettavano, dedico questo libro. E ancor oggi formulo la preghiera d’allora. Ma non per me soltanto. Per tutti, per tutti coloro che in quest’ora tumultuosa e tragica errano lontano.

Ah, per ognuno di voi, che combattete e soffrite, vi sia chi palpita e prega!

E nel giorno del vostro ritorno vi siano degli occhi che spiano la strada, vi siano dei passi che corrono al vostro incontro, delle mani tese, delle braccia aperte, delle voci che dicano nel pianto:

«Ti abbiamo molto aspettato»”.

Annie Vivanti mette insieme l’attrazione verso la lontananza, la seduzione esercitata da ciò che ancora non abbiamo conosciuto, e la tenerezza, il senso di riparo, che offre il sapere che qualcuno ci attende e mantiene vicino a lui il nostro posto.
In una delle lettere che Hannah Arendt scrive all’amica Mary McCarthy, in data del 20 giugno 1960, la filosofa fa una dichiarazione genuina e sfrontatamente colma di dolcezza: “Tu sai che mi preoccupo e sono anche fermamente convinta che, finché continuerò a preoccuparmi, le cose si metteranno a posto. È il mio modo di tenere le dita incrociate”.
Se mi preoccupo o faccio il tifo per te le cose andranno meglio. Pensiero che potrebbe benissimo essere appartenuto a una scrittrice delicata e originale come Vivanti, maestra di raffinata logica di associazioni e sentimenti, omaggio a Pascal e all’esprit de finesse.

No Comments

Post A Comment