Lady Constance Lloyd. L’importanza di chiamarsi Wilde. Dialogo con Laura Guglielmi

a cura di Francesca Grispello e Ivana Margarese

 

Lady Constance Lloyd. L’importanza di chiamarsi Wilde è un romanzo di Laura Guglielmi, che racconta la vita di Constance Lloyd, moglie di Oscar Wilde, dando voce a una delle figure femminili più sottovalutate e trascurate di fine Ottocento.
La scrittrice racconta in prima persona, identificandosi direttamente con la propria eroina. Il ritratto che emerge è quello di una ragazza colta e sognatrice che ha fortemente seguito le proprie ambizioni cercando di guardare oltre le contingenze e la propria epoca.
Laura Guglielmi, con cura e dedizione, descrive Constance e la sua abilità nel restare in equilibrio nonostante un’infanzia difficile e l’epocale scandalo che travolse il marito, devastandole l’intero mondo.
Due sono le epigrafi al libro, una di Virginia Woolf: «In quanto donna non ho patria, in quanto donna non voglio patria alcuna, in quanto donna la mia patria è il mondo intero». La seconda di Alfred Tennyson: «È meglio aver amato e perso, che non aver mai amato».
Il libro, pubblicato nel 2021 dall’editore Morellini, è parte della collana “Femminile singolare”, diretta dalla scrittrice Sara Rattaro.

Ivana: Vorrei ci parlassi della genesi di questo romanzo. Hai raccontato che spesso quando parli di Constance Lloyd Wilde molti ti chiedono stupiti: “Ma come, Oscar Wilde aveva una moglie?”. Cosa ti ha condotto all’incontro con Constance?

Quando mi è stato chiesto dalla casa editrice di scegliere una donna del passato per scrivere un romanzo biografico, ho pensato prima a Mary Shelley e poi a Constance, su cui avevo lavorato in passato per scrivere un breve saggio per un altro libro. Lei è sepolta nel cimitero monumentale di Staglieno a Genova, città in cui ho scelto di vivere. Sapevo poco di lei e pensavo, come tutti, che fosse stata un ripiego per il grande scrittore omosessuale. La vedevo come una persona sofferente, con una vita immensamente triste. Invece in quel frangente scoprii delle cose del tutto differenti. Wilde la sposò perché era veramente innamorato di lei, non è assolutamente stata un ripiego e nemmeno una vittima di suo marito. Erano la coppia più famosa della Londra di fine Ottocento, però mentre lei dopo il processo è stata completamente dimenticata, Oscar invece è stato riabilitato tanto da diventare un’icona. Oscar è stato iniziato all’omosessualità, quando aspettavano il loro secondo bambino, da un ragazzo di 17 anni che poi è diventato anche molto amico di Constance, Robert Ross. Poi Constance è una donna estremamente moderna, non lo ha mai lasciato e sono rimasti legati anche quando lui è finito in carcere, benché anche lei si fosse innamorata di un altro.

Francesca: Nelle prime pagine si legge “Forse, però, un giorno o l’altro, le radici di qualche albero avrebbero preso vita e come braccia mi avrebbero catturata e trasportata dall’altra parte della Terra, dove avrei trovato un giardino simile, con alberi uguali, ma una madre diversa. E anche un altro padre, che mi avrebbe abbracciata”.
Per tutta la lettura del libro quest’immagine non mi ha mai abbandonata. Essere abbracciata dagli alberi, dalla natura per contrastare e superare una realtà ostile, il bisogno di essere amata come figlia e creatura, di essere riconosciuta e non più mortificata come donna e persona.Si può collegare il bisogno di ritornare all’origine con il bisogno di liberarsi dai moralismi e dalle costrizioni. La natura ancora una volta è un simbolo che libera?

Io trascorro ore immersa nella natura. Una storta dietro l’altra, ho percorso tutta l’Alta Via dei Monti Liguri, un crinale che divide il Mediterraneo dalla pianura Padana lungo più di 400 chilometri che parte da Ventimiglia e arriva a Sarzana. Gli alberi li abbraccio, i fiori non li colgo. Cerco di non attraversare i prati per non calpestare nulla. Amo il loro silenzio, il loro abbandonarsi alle stagioni con fierezza, sopravvivendo alla galaverna come alla siccità senza lamentarsi. Puliscono l’aria dove noi immettiamo i peggiori veleni, sono i migliori compagni degli umani. Non è un caso che ormai da anni indago nel labirintico immaginario di Italo Calvino. Benché fosse un uomo, era avanti, molto avanti. Sarà merito di sua madre Eva Mameli, la prima docente di botanica in Italia, sarà per il padre che aveva sposato una donna così autorevole e determinata, lasciandola libera di studiare ed esprimersi come meglio voleva. Il Barone rampante, infatti, cito, scrive la Dichiarazione dei Diritti degli Uomini, delle Donne, dei Bambini, degli Animali Domestici e Selvatici, compresi Uccelli Pesci e Insetti, e delle Piante sia d’Alto Fusto sia Ortaggi ed Erbe. Era un bellissimo lavoro, che poteva servire d’orientamento a tutti i governanti; invece nessuno lo prese in considerazione e restò lettera morta. È ora che gli umani inizino a rispettare la natura, per me in cima alla gerarchia degli esistenti non ci siamo noi. Il mondo non è stato fatto a nostra immagine e somiglianza. Tutti gli esseri viventi hanno pari diritti. Soprattutto quelli che non si possono difendere, come i bambini. Infatti, ho smesso di mangiare carne e solo ogni tanto mangio un po’ di pesce. Ho intenzione di smettere del tutto, piano piano.


Ivana: “I miei insegnanti apprezzavano la mia intelligenza, a patto che non la spingessi più in là del consentito. E continuai a nutrire forti dubbi su quale dovesse essere la mia reale natura. Scoprii presto che simili domande non trovano risposte”. Constance tuttavia, a dispetto di quel che le si chiede, nutre il bisogno di trovare rifugio da una realtà spesso dolorosa nei libri e nell’immaginazione. Da adulta scriverà nei suoi appunti: “La cultura non deve essere rassicurante, ma aiutare a pensare”. Vorrei una tua riflessione in merito.

Stando così a stretto contatto con Constance per così tanti mesi e leggendo le sue lettere, piano piano l’ho sentita davvero simile e sorella. Tante cose che trovavo su di lei, i pensieri che articolava, i suoi pareri erano simili ai miei. Come la mia Constance, anche io ho sempre fatto domande scomode da bambina ai miei genitori, alle mie maestre, che spesso mi castigavano. Mi ricordo ancora la faccia estremamente imbarazzata della mia maestra di catechismo alle elementari, che peraltro era l’unica che mi trattava con dolcezza. Avevo letto sul vocabolario il significato della parola vergine e chiesi alla maestra: come mai la Madonna è vergine e mia mamma no? Che cosa ha fatto di male? Un imbarazzo, che si tagliava con il coltello. E i miei compagni che non avevano capito bene la mia domanda, mi fissarono con le loro faccine perplesse, come a dire: “Laura, ne combina sempre una”. Sicuramente Constance faceva domande di questo genere, per cui veniva punita da una madre atroce. Per fortuna quando ero piccola io alle bambine era concessa molta più libertà. Però non ancora come alle ragazze di oggi. Le domande scomode sono frutto di una ricerca, della sete di conoscenza. La cultura deve far pensare, le opere non devono essere belle o rassicuranti, ma devono costringerti a elaborare un pensiero. Non necessariamente rispondere a canoni estetici che solletichino il pubblico. Da decenni bazzico gli ambienti dell’arte contemporanea e quindi devo dire che la retorica della bellezza mi spaventa un po’.

Ivana: “Nella mia vita erano state sempre le donne a mettermi il bastone tra le ruote. Ero così diversa dalla maggior parte di loro? Mi esprimevo con più libertà, non tenevo la lingua a posto. Dalla mamma a zia Emily, nelle loro gonne ingabbiate, nei loro cappelli ornati con strani e lugubri uccelli imbalsamati, nei loro corsetti di ossi di balena, che deformavano le articolazioni e non facevano respirare, le donne non capivano che non aveva più senso vivere in quel modo”. La cultura patriarcale è stata ed è, come è noto, spesso introiettata dalle donne stesse. Certamente oggi sono tante le esperienze di comunità femminile e c’è una sensibilità maggiore verso questo tema, anche se ancora adesso si fa fatica a lavorare insieme come alleate. Potresti dirci qualcosa della tua esperienza su questo argomento?

Ho avuto diverse cape sul lavoro. E spesso non volevano farmi emergere, neanche quelle dichiaratamente femministe. Poi, quando sono stata capa io, ho notato che diverse mie collaboratrici quando potevano si alleavano con gli uomini miei pari, usando le classiche arti seduttive. Devo dire che mi trovo molto bene in compagnia delle donne del Nord Europa, come Constance. Quando scrivevo il libro, pensavo che la mia personaggia non sarebbe piaciuta agli italiani-e. Avevo davvero paura di questa cosa. Constance era troppo sicura di sé, assertiva, intraprendente. E invece mi sono resa felicemente conto che le donne italiane finalmente hanno capito quanto sia importante che vengano rispettati i loro diritti. E in tante hanno amato e amano Constance.

Ivana: Nel romanzo compare anche la figura di Georgina Mount-Temple, grande mecenate dei Preraffaelliti, femminista, antivivisezionista e vegetariana. L’amicizia che nasce tra lei e Constance riesce a risollevare quest’ultima da un periodo triste e difficile, in cui sente che il marito, Oscar, si sta sempre più allontanando. Quanto può essere fecondo per nuove idee e espressioni creative il legame tra amiche?

Per me l’amicizia tra donne è fondamentale, è tra le cose più importanti della vita. È bello condividere le proprie gioie, aspettative e desideri. Le donne però sono un po’ permalose e questo è un risultato della cultura patriarcale, che le ha rese insicure. Io invece sono sincera e un po’ burbera. Anche se hai un uomo da anni, è fondamentale condividere con le amiche vacanze, serata a cena fuori o al cinema, fare trekking assieme. Amo queste cose. Le donne della mia generazione però a volte le sento un po’ indietro. Nel modo di agire, sento più vicine le mie giovani studenti universitarie. C’è da dire che ho vissuto molto in giro per l’Europa, a partire dai 17 anni. Non riesco mai a star ferma troppo in un posto. Come Constance, ahimè.

Francesca: In una lettera al fratello Otho: “il mondo non è ancora pronto per donne che pensano e agiscono da sole…” E più avanti… “Non era facile conciliare la mia appartenenza di classe alle mie idee. Ormai avevo fatto l’abitudine a essere sempre fuori posto.” Come il primo ministro Gladstone – apprezzato da Lady Constance – è sempre vero che “Il tempo è dalla nostra parte”? Adesso le donne hanno un posto?

Direi di sì, in alcuni posti del mondo più che in altri. Al momento sono ancora fiduciosa. Vedo che cose in cui ho sempre creduto, certi miei discorsi o atteggiamenti scomodi, oggi fanno parte del comportamento della maggior parte delle ragazze. Faccio un esempio: la mattina vado a prendere un po’ di sole passeggiando per il quartiere. Anche per raccogliere le idee sul libro che sto scrivendo ora. Un po’ da flâneur. E ogni volta faccio delle scoperte. Mica da poco. Ad esempio stamattina, mentre camminavo nel parco, ho visto studenti femmine e maschi entrare nel campetto. Mi sono detta: se sono insieme giocheranno di sicuro a pallacanestro, non a calcio. E mi sono ricordata la mia adolescenza di liceale. Quanto ho sofferto a fare ginnastica ritmica mentre i maschi andavano al campetto di calcio. Tornavano sudati e felici. Ho sempre rotto le scatole a tutte le mie prof di ginnastica, ma il massimo che ottenevo era fare un po’ di salto in alto. Ebbene invece gli e le studenti oggi hanno cominciato a giocare a calcio tutti insieme, sorvegliati dalla prof, che avrà avuto più o meno la mia età. Ero in cima alla scalinata e loro là sotto. Non ce l’ho fatta, ho preso il cellulare e mi sono messa a scattare foto. Un ragazzo se n’è accorto e si è messo a urlare: «Scusi, cosa vuole? Che cosa abbiamo di strano?». Al che anche la prof mi ha apostrofato: «Perché sta facendo le foto?» Che imbarazzo, non vi dico. Però mi son fatta forte e ho detto a voce molto alta: «Scusate, ma vi ho visto e mi sono emozionata. Quando ero giovane, per me sarebbe stato un sogno giocare a calcio nell’ora di ginnastica. I ragazzi e le ragazze non la facevano mai assieme». Al che è partito un applauso. Non è successo niente per fortuna, ma forse è meglio che la mattina me ne resti a casa a scrivere.

Francesca: La struttura del libro ci permette di ascoltare la voce interiore di questa potente donna, è una scelta molto vincente ed efficace. Come è nata l’idea di predisporlo in questo modo?

Avevo cominciato a scrivere in terza persona, poi Sara Rattaro, direttrice della collana Femminile Singolare, mi ha consigliato di passare alla prima persona. Io ne avevo paura perché poteva scattare l’identificazione. Invece per costruire la narrazione c’è bisogno di un certo distacco critico dal proprio personaggio, però ho provato a seguire il suo consiglio. E mi sono resa conto che funzionava. Anzi che era meglio, perché ad un tratto mi sono sentita quasi responsabile di risarcire Constance, scrivendo una sorta di autobiografia che lei non aveva avuto tempo di scrivere perché è morta troppo presto. Oppure, spesso pensavo, questa autobiografia esiste ed è sepolta in qualche baule di una vecchia soffitta genovese.

Francesca: Questo libro è anche un omaggio a Genova, puoi dirci di più.

Genova è una città difficile, però Constance ha trovato qui la sua pace, circondata dagli amici di Margaret Brooke, la sua amica inglese. Mi sono cimentata nella descrizione del paesaggio ligure, dopo decenni che studio, anche come ricercatrice, i testi di Montale, Caproni, Sbarbaro, Campana, tra cui alcune donne come Ferro e Lagorio. E soprattutto la narrativa di Calvino. Sono nata a Sanremo, poi nel periodo universitario ho vissuto a Roma, Londra e Dublino, per approdare a Genova. Mi ha folgorato il suo bosco di pietra, il centro storico medievale, anche attraverso le canzoni di De André che ascoltavo da adolescente, soprattutto la città vecchia:

Nei quartieri dove il sole del buon Dio
Non dà i suoi raggi
Ha già troppi impegni per scaldar la gente
D’altri paraggi

Parlare di De André per raccontare Genova è un cliché, è un po’retorico, ma questo è quello che è successo a me. A volte maledico Fabrizio, perché questa è una città dura e a volte inospitale, altre volte sento di amare Genova profondamente e di non poterne più fare a meno.

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