Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critica al sistema-mondo

a cura di Ivana Margarese

 

Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critica al sistema-mondo è un saggio di Rachele Borghi, edito da Meltemi, all’interno della collana Culture radicali, diretta dal gruppo di ricerca Ippolita, che offre una selezione di titoli e autori impegnati nella trasformazione sociale.
Borghi discute di dominazione e privilegio e intreccia la sua esperienza personale con esperienze teoriche e argomenti scientifici in cui nel corso del tempo si è o meno riconosciuta. Il tentativo esplicito è quello di agire nella scrittura stessa un cambiamento proponendo di “giocare” insieme per decolonizzare il terreno stesso dello scrivere: quello che c’è non deve essere usato per forza così com’è ma può anche essere ribaltato, scomposto e ricomposto in un assemblaggio alternativo:

Possiamo anche solo pensare di riuscire a indossare i calzini non abbinati? Il buco nero in cui finisce sempre un calzino durante un lavaggio può trasformarsi in liberazione dall’obbligo di portare calzini abbinati? Accettare la proposta decoloniale: uscire di casa coi calzini spaiati, calpestare la ragione cartesiana.

E ancora:

“La decolonialitá è anche una proposta. Proposta di piste per uscire dalla colonialità, per non continuare a riprodurre un mondo coloniale […]. Perché la proposta decoloniale rivolta a te che fai parte della maggioranza dominante bianca e occidentale comincia dal ricordarti di prendere coscienza di chi sei e di dove ti collochi in questo sistema. L’inconsapevolezza non è più possibile”.

Il lettore si trova ad essere interlocutore diretto in un testo che sperimenta nuove forme e tenta piste differenti rispetto al modo tradizionale della narrazione scientifica. La scelta dell’autrice di spostarsi dalla narrazione scientifica – la maniera tradizionalmente insegnata e appresa per esprimersi in ambienti accademici – e non nascondersi dietro la distanza del testo la porta ad accogliere il disagio e gli sbagli della sperimentazione: “mi assumo il disagio che questa maniera di scrivere e costruire un libro suscita in me. In cambio mi prendo l’euforia della scoperta, la curiosità di vedere dove arrivo e cosa suscito, la bellezza del godere di uno spazio aperto”.

Euforia, curiosità, bellezza e piacere possono fare da apripista a un libro denso di pensiero e di rimandi. L’invito al lettore è quello di muoversi nel terreno della scrittura prendendo ciò che risuona, procedendo per salti o sospensioni. Chi scrive e chi legge possono provare a incontrarsi o scontrarsi, senza nascondersi o scomparire dietro le parole del testo, agendo uno spazio intimo. La scrittura e la lettura divengono così politiche, anche nel loro esplicitare le emozioni praticando “un atto di resistenza al regime cartesiano, all’ingiunzione della razionalità e alla distanza, che il sapere occidental-eurocentrico fa passare come unico modo possibile di scrivere la conoscenza”.

Chiamando in causa la mia esperienza di lettrice propongo di fare un’associazione con La donna che trema di Siri Hustvedt, libro apparentemente assai lontano dal saggio di Borghi, in cui vita, corpo e pensiero vengono rivendicati in un intreccio inscindibile. Hustvedt – scrittrice, poeta, saggista, (e anche compagna di Paul Auster) –  lega in questo libro analisi scientifiche e osservazioni del corpo a partire dal fenomeno del tremare, che agita il suo corpo senza preavviso:

“La coerenza non può tuttavia eliminare l’ambiguità. L’ambiguità non è né una cosa né l’altra. Non si può incasellare, non si può mettere in una scatola ordinata, in una finestra, in un’enciclopedia. È un soggetto informe o una sensazione che non può essere definita. L’ambiguità chiede: qual è il confine tra questo e quello? L’ambiguità non obbedisce alla logica. Il logico dice: ‘Tollerare la contraddizione significa essere indifferenti alla verità’. A quei particolari filosofi piace fare il gioco del vero e falso. È sempre l’uno o l’altro, non possono mai essere insieme. Ma l’ambiguità è intrinsecamente contraddittoria e insolubile, una sconcertante verità di nebbia e foschia, una figura indistinta, il fantasma del ricordo o del sogno che non può essere contenuto o stretto in mano perché vola sempre via. E non riesco a capire cos’è e nemmeno se è qualcosa. Lo seguo con le parole, anche se forse non riuscirò a catturarlo, e, ogni tanto, immagino di esserci arrivata vicina. Nel maggio 2006, sotto un nitido cielo azzurro, mi sono messa a parlare di mio padre, che era morto da più di due anni. Appena ho aperto bocca, ho cominciato a tremare violentemente. Ho tremato quel giorno e ho tremato altre volte. Sono la donna che trema.”

Il tremore è manifestazione di qualcosa che sfugge all’incasellamento a cui Husdvet sceglie di dare spazio, sottraendosi alla vergogna e al giudizio della comunità scientifica a cui lei stessa appartiene. Ecco che Borghi e Husdvet delineano entrambe, seppure con metodi e sviluppi diversi, un punto di vista che è anche punto di azione, in cui neutralità, obiettività, e distanza non sono le uniche condizioni affinché un sapere possa dirsi scientifico.
Un’immagine sulla quale Rachele Borghi torna più volte è l’immagine del caleidoscopio, metafora efficace per dare forma a un lavoro di tessitura che collega numerosi contributi teorici: bell hooks, Paulo Freire, Gloria E. Anzaldúa, Monique Wittig, Lina Mangiacapre ( solo per citarne alcun*).
Il caleidoscopio è uno strumento che permette di guardare in modo diverso e costruire immagini nuove di realtà nuove. L’approccio decoloniale che sta a cuore a Borghi non vuole soltanto denunciare la colonialità in cui siamo immersi ma vuole fare e proporre. Non rimane in attesa del permesso di parlare. Enuncia e denuncia.
Riflettendo sul linguaggio e sul suo non essere neutro o puramente descrittivo, in Decolonialità e privilegio viene riportata anche un’intervista alla scrittrice-filosofa-militante-femminista-lesbica Monique Wittig, la quale afferma:

“Non c’è nulla di astratto nel potere che la scienza e la teoria esercitano agendo materialmente e effettivamente sui nostri corpi e sulle nostre menti, anche se il discorso che esse producono prende una forma astratta. È una delle forme in cui si dispiega la dominazione, la sua espressione. Direi, piuttosto una delle sue forme di esercizio. Tutte le persone oppresse conoscono questa dominazione e devono avere a che fare con questo potere che dice: non avete diritto di parlare perché il vostro discorso non è scientifico e non è teorico, vi ponete a un livello sbagliato dell’analisi, confondete discorso e realtà, il vostro discorso è ingenuo, avete frainteso questa o quell’altra scienza.”

Il vocabolario di tutte le lingue va scompigliato. Laddove una parola manca, ci si può sforzare di ricordare, di tornare alle radici, oppure inventare. Nominare permette infatti a qualcosa di esistere. Il coraggioso discorso di Borghi contamina i territori del linguaggio, dello spazio e del corpo, proponendo una serrata analisi e fornendo al contempo un kit di attrezzi per dissotterrare ciò che il privilegio maschera per norma o neutralità, tentando non soltanto di cambiare sguardo ma di prendere la propria personale posizione e creare, così come proposto anche da bell hooks,  alleanze che diano fiducia nel cambiamento.

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