“Il canto della Moabita”: intervista a Sergio Daniele Donati

a cura di Giorgio Galli

“Ali di falco, / tagliano cieli / e separano e spezzano / e dicono «Luce» / al buio, / prima che luce sia. / Di cos’altro vuoi parlare, / poeta, / che non sia il tuo inciampo?” Una specie di dichiarazione di poetica questa di Sergio Daniele Donati, che con Il canto della Moabita (Ensemble, 2021) realizza una raccolta poetica che tende al poemetto e che, appoggiandosi soprattutto al testo biblico e al mito classico, realizza un canto del ritorno alle origini, esprime il desiderio di un ritorno a una sapienza antica. Non è sbagliato considerare le sue poesie come delle meditazioni in versi, come a componimenti dal carattere fortemente sapienziale. Proviamo a sciogliere in prosa il componimenti intitolato Nel mito e ciò apparirà evidente: “Immergiamo nel mito, dita bambine. Cerchiamo mieli tra i significati delle nostre scritture Suoni mai sentiti parlano alle nostre orecchie poco attente. E ci meraviglia lo spettacolo del tempio rinnovato dal sole, tiepido. Il suolo dal quale non proveniamo si copre dei nostri passi di ritorno. I muschi di Pan odorano di metriche giambiche e sogni fecondi. Immergiamo nel mito, a volte, dita bambine. E ci culla il canto dell’aedo, e la lira d’ambra del rapsodo canta con voce di donna ai nostri capelli d’argento”.

Caro Sergio, spiegaci innanzitutto la figura della Moabita e come mai hai deciso di dedicare ad essa la tua raccolta.

I Moabiti furono un popolo nemico degli Ebrei del quale si narra nel Pentateuco. I test sacri però tracciano con delicatezza poetica alcune figure femminili di questo popolo che ci parlano della fatica ma anche del desiderio di integrazione con l’altro da sé. Lo stesso a mio avviso fa la scrittura, nella sua funzione primaria: ci parla del desiderio d’altro e dell’Altro.

Nel libro compare tutta una teoria di maestri, dai salmisti biblici a Josif Brodskij a Edmond Jabès: segno, oltre, che di gusti raffinati, di un desiderio di continuità con una tradizione umanistica intesa in senso molto ampio. So che non hai la sfera di cristallo, ma come vedi il futuro della tradizione umanistica nel mondo della “comunicazione”? Personalmente, ho l’impressione che questo mondo abbia portato a un notevole impoverimento e a una notevole omologazione di contenuti e forme espressive.

Io non sarei così negativo. Non nego certo lo iato che questo mondo ha creato con una visione dell’uomo più antica, ma è anche vero che questo stesso mondo permette a tutti l’accesso alla parola altra e Alta. E questo dato di diffusione orizzontale, ovviamente se ben usato, non va sottovalutato.

I tuoi componimenti spaziano molto per lunghezza, da quelli brevissimi dedicati a tuo figlio che dorme -secondo me i più belli della raccolta- a dei veri e propri poemetti come quello eponimo. Tutti, però, sono accomunati da un tono sapienziale, dalla visione di un presente iperindividualistico e dalla scelta di rifugiarsi -non so se è il termine giusto- nell’insegnamento più antico, quello di uscire dal nostro piccolo io. Sono emblematici per me questi versi: “Guardalo farsi piccolo, / sottile, impercettibile; / sussurrato, bisbigliato / e sospeso. / Guardalo farsi piccolo. / Quanto è grande.” Vorrei chiederti innanzitutto se ti riconosci in una fede, dato che intessi un dialogo così intenso coi testi sacri; e poi come pensi possa realizzarsi, concretamente, nel nostro mondo un superamento delle barriere dell’egotismo, che sembra diventato una vera e propria ideologia anche politica. Se penso alla recente affermazione delle estreme destre in molte parti del mondo, ho l’impressione che le nuove estreme destre, rispetto alle precedenti, esprimano un’etica sfrenatamente individualistica piuttosto che comunitaria come quella delle estreme destre tradizionali, ed è solo un esempio. D’altra parte lo stesso mondo culturale appare improntato a una conflittualità spesso difficilmente sostenibile, e per di più le stesse espressioni creative si danno -non è evidentemente il caso tuo- perlopiù in una sorta di idioletto dell’autore che è al limite dell’incomunicabilità. Vedi, rispetto a tutto questo, degli anticorpi interni alla nostra cultura o pensi che la nostra sia una cultura autoimplosiva, nata con il comando dell’autodistruzione?

Nessuna cultura, in senso etimologico, è autodistruttiva. Se lo è, a mio avviso, non è cultura. Non si può parlare di cultura, tuttavia, senza affrontare la questione della qualità. Ciò che manca, o è carente, a mio avviso al mondo della poesia ed esempio è l’idea che la scrittura sia un fenomeno che ci attraversa, che inizia prima e continua dopo di noi, intesi come individui. La scrittura come voce dell’altro attraverso di noi, quindi. Il possessivo mal si addice allo scrivere, a mio avviso. Un buon poeta è essenzialmente una buona antenna, un buon ascoltatore, un buon ripetitore delle voci dell’Altrove. E, importante, non sto parlando di poesia iniziatica. Ciò che dico è vero per ogni forma poetica. Parte da un altrove ed è eterodiretta. Il piccolo Sergio, in questo fenomeno gigantesco, è solo un tramite, felice di esserlo certo, ma nulla di più. Così era percepita in passato la poesia, e così, lentamente, sta tornando ad essere. Se si perde l’idea di vocatio per il poetare si taglia l’anima più profonda di quel tipo di creazione. Si è chiamati a scrivere, ma come fa lo scribano. Far poesia per me significa in buona percentuale trascrivere voci non del tutto appartenenti al poeta stesso, è frutto di silenzio ed ascolto più che del ventre egocentrato del poeta.

Passando a un aspetto più tecnico, ho l’impressione che tendi ad organizzare i tuoi versi in micro unità semantiche dove spesso l’ultima parola del verso è la più importante, una sorta di parola chiave.

Che sia in inizio, in centro o alla fine di una composizione qualche parola chiave c’è sempre nelle mie (ancora il possessivo) poesie, è vero. D’altronde cosa altro è la poesia se non un passe-partout particolare in serrature un po’ poco oliate?

La raccolta contiene riferimenti anche alla mitologia greca, in particolare ad Itaca e Ulisse. In che senso intendi queste figure? E poi: è sbagliato sostenere che il ritorno al pensiero mitico, alle origini del pensiero dell’umanità ha per te un valore salvifico? E se sì, c’è una sorta di errore di percorso in cui tu -come Nietzsche con l’apparizione dei sofisti e di Socrate- identifichi un punto di rottura?

Il Mito, greco o ebraico che sia, è per eccellenza, per me, ciò che permette a chi scrive la comunicazione di un Altrove molto fecondo e ciarlone. Il Mito, in un certo senso, è il linguaggio della poesia anche quando non viene citato espressamente. O meglio, il linguaggio poetico, anche quello più intimo e personale, è in parte sempre mitologico.

A un certo punto affermi che è ora di tornare “al luogo sacro dell’ignoranza”. Cosa intendi?

Se di ritorno si tratta non può essere che una ignoranza riguadagnata, uno stupore bambino riappreso, un oblio fertile. Tornare alla condizione del fanciullo davanti ai cui occhi tutto il creato si dipana senza pre-giudizio. Per questo do a quel ritorno il connotato della sacralità: una dimensione fanciulla e fertile di non ancora conoscenza.

Da Il canto della Moabita (Ensemble, 2021)

Terza Benedizione per mio figlio mentre sogna

Verrà il tempo, figlio mio, in cui le stelle non ti daranno luce,

e l’uccello del bosco non canterà per te.

È quello il tempo in cui i messaggeri sacri vanno via lontano,

per lasciarti vedere la luce

negli occhi della donna che amerai per sempre.

Sia questo il tuo sogno.

*

Benedizione del bambino al sogno di tutti voi

C’è distanza tra parlare e dire.

lo puoi capire solo se la Parola è sacra per te

e il Silenzio è la tua guida.

Che sia questo il sogno di tutti voi.

*

La scrittura d’un bambino

Solleva la mano

il figlio del soffio.

Del mondo

colora la scorza;

ne ricompone lo scheletro,

e si perde

tra colline e pianure

del suo stentato tratto.

Si gonfia lo spazio,

si piega il tempo

su quella mano incerta

benedetta dal vento,

coperta dal velo sublime

delle eterne stagioni

della parola.

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