Hannah Arendt: Noi rifugiati

 

di Ivana Margarese

immagine in copertina di Silvia Rossini

 


 

 

Una pensatrice profetica 

Hannah Arendt è stata sotto molti aspetti una pensatrice profetica, grazie alla capacità di osservazione partecipe della realtà in cui viveva, al di là di ogni appartenenza. È stata tra le prime a sottolineare il dilemma insito nella condizione di apolide nel mondo moderno con riflessioni che restano valide ancora oggi.
Da ebrea tedesca internata nel campo di Gurs, nella Francia sud occidentale, Hannah Arendt scrive Noi rifugiati (1943), un breve testo illuminante:

«I rifugiati, scacciati di terra in terra, rappresentano l’avanguardia dei loro popoli – purché mantengano la propria identità. Per la prima volta la storia ebraica non è separata da quella di tutte le altre nazioni; al contrario, è strettamente connessa. Il consesso dei popoli europei è andato in frantumi quando si è consentito che i membri più deboli venissero esclusi e perseguitati”.

I rifugiati, in quanto esseri umani privi di copertura politica e in cerca di asilo, sono figure che preludono a un futuro assetto mondiale, a una nuova, complessa, comunità a venire. La prospettiva viene in questo modo rovesciata: stranieri ovunque, i rifugiati rappresentano l’avanguardia dei popoli.
Secondo Arendt l’apolide viene trascurato e ignorato dalle stesse convenzioni e dichiarazioni promulgate in suo favore. Già nel 1949, un anno dopo la proclamazione della Dichiarazione universale dei diritti umani da parte dell’Assemblea  generale delle Nazioni unite, la pensatrice acutamente ne critica sia la mancanza di realismo, in termini di concreta applicabilità, sia la fumosità concettuale.
Per la filosofa esiste un unico diritto umano: il «diritto di avere diritti» o in altre parole il diritto di poterli rivendicare. Tuttavia, dal momento che i diritti umani possono concretizzarsi solo nel contesto di una comunità politica, la perdita di cittadinanza porta automaticamente alla perdita dei diritti umani. Non esistendo spazio per l’essere umano fuori dal suo status legale e politico, la perdita della patria e dello status politico tende a coincidere con l’espulsione dall’umanità: l’individuo apolide diviene privo di un luogo e di una funzione (Bauman 2004) e la sua appare come una vita di scarto, sacrificabile.
Il punto di vista di Arendt è quello di chi guarda il mondo dal confine, facendo dell’apolidia il grande tema del nuovo scenario politico.

In Io sono confine (Eléuthera, 2019) l’antropologo Shahram Khosravi, iraniano trasferitosi in Svezia dopo un doloroso percorso migratorio, rileva, citando Arendt, quanto sia desolante constatare che le sue parole siano tuttora attuali per un numero enorme di individui rimbalzati da uno Stato all’altro.
Khosravi sottolinea anche come si tenda facilmente a dimenticare la valenza che ha la non neutralità dello sguardo; il migrante è visibile solo nelle proiezioni elaborate dagli altri: «Quando gli altri si  avvicinano,  vedono  solo  quel che mi sta intorno, o se stessi, o le invenzioni della loro fantasia, ogni e qualsiasi cosa, insomma, tranne me» (Ellison  1987). In altre parole, questo sguardo xenofobo non vede ma legge (Butler  1993).
Ai rifugiati viene richiesta una totale omologazione alle aspettative di chi deve empatizzare, con la conseguente perdita della propria residua identità. “La migrazione clandestina è una strada a senso unico, un viaggio senza ritorno”, scrive Khosravi, riproponendo in forma lievemente diversa una affermazione analoga di Stuart Hall: “La migrazione è un viaggio di sola andata. Non c’è una casa cui tornare” (1987).
Lo scrittore somalo Abdullahi Ahmed, residente a Torino, in Lo sguardo avanti. La Somalia, l’Italia, la mia storia (Add editore, 2020) ripete incisivamente che «non si può essere stranieri per sempre».

 


Io sono confine
chiude la sua riflessione ricordando la storia del viaggio di Walter Benjamin, fermato al confine francese mentre era in fuga dalla Germania nazista verso il Portogallo: privo del visto di uscita dalla Francia, la Spagna non gli concede l’accesso. Nel timore di essere consegnato alla Gestapo, in trappola tra la Francia di Vichy e la Spagna di Franco, Benjamin sceglie di suicidarsi con una overdose di morfina.
Nonostante fosse ebreo e laico, Benjamin è sepolto con rito cattolico e provvisoriamente collocato in un cimitero della stessa confessione, prima che i suoi resti dopo cinque anni, scaduta la concessione del loculo, siano gettati in una fossa comune, in una terra di confine dalla quale non sono più uscite. Hannah Arendt, grande amica di Walter Benjamin, a cui era unita da comune sensibilità, gli dedica bellissime pagine. Durante l’esilio a Parigi Benjamin, che veniva chiamato Benji, diventa per lei un punto di riferimento. Si incontrano per l’ultima volta a Marsiglia il 20 settembre 1940. Sei giorni dopo, fermato alla frontiera spagnola, Benji si toglie la vita.
La lapide nel cimitero di Portbou reca incisa una citazione ripresa dalla settima tesi dell’ultimo manoscritto di Benjamin, Tesi di filosofia della storia: «[Il documento storico] non è mai documento di cultura senza essere allo stesso tempo documento di barbarie».


We Refugees

We Refugees è un testo pubblicato per la prima volta nella rivista «The Menorah Journal», XXXVI (gennaio 1943), n. 1, pp. 69-77, uscito quest’anno in una nuova edizione per Einaudi col titolo di Noi rifugiati, postilla e note di Donatella Di Cesare:

Anzitutto non vorremmo essere definiti “rifugiati”. Fra noi ci chiamiamo piuttosto “nuovi arrivati” oppure “immigrati” […]Prima che la guerra scoppiasse eravamo persino più insofferenti verso l’etichetta di “rifugiati”. Abbiamo fatto del nostro meglio per dimostrare agli altri popoli di non essere che semplici immigranti. Dichiaravamo di essere partiti di nostra spontanea volontà alla volta di un Paese liberamente scelto rifiutando di ammettere che la nostra situazione avesse nulla a che vedere con i «cosiddetti problemi ebraici». Sí, eravamo “immigranti”, o “nuovi arrivati”, che avevano lasciato il proprio Paese o perché un bel giorno non era più opportuno restare oppure per ragioni puramente economiche.

Arendt muove da subito un confronto col termine “rifugiato”, che lungi dall’essere un termine neutro, è espressione di una storia dolorosa, di un’appartenenza scomoda e lacerata.
Il rifugiato possiede una memoria di perdite: perduti sono la casa, l’intimità della vita quotidiana, il lavoro e con esso la fiducia di essere di qualche utilità nel mondo, perduta la propria lingua, ovvero “la naturalezza delle reazioni, la semplicità dei gesti, l’espressione spontanea dei sentimenti”.
Questa memoria di “cose perdute” deve essere frettolosamente dimenticata nel tentativo di entrare a far parte di un nuovo paese. Per ricostruire la propria vita è necessario essere forti e ottimisti, desiderare, pianificare. Eppure secondo Arendt qualcosa non sempre torna: “talvolta immagino che almeno di notte pensiamo ai nostri morti o ricordiamo le poesie che un tempo abbiamo amato”.
La facciata di spensieratezza nasconde una lotta incessante contro la propria sofferenza. Questo folle ottimismo è anticamera della disperazione.
I ricordi si insinuano tra i discorsi ottimisti, rendono soli a contatto con i propri fantasmi: ecco che alcuni “una volta rientrati a casa, o aprono il gas oppure fanno uso di un grattacielo in modo piuttosto inatteso”. La morte può apparire dunque come liberazione dalle pene, dallo sconforto, dalla propria incapacità a immaginare un futuro:

A differenza di quel che avviene in altri casi di suicidio, i nostri amici non lasciano nessuna spiegazione per il loro gesto, nessuna accusa, nessuna denuncia contro un mondo che ha costretto una persona disperata a parlare e agire di buon umore sino all’ultimo giorno.

Arendt garbatamente denuncia. Il suo è un atto di accusa ragionato, misurato, ma deciso: “Sono abbastanza certa che quei dati ( sul numero dei suicidi) non sono più corretti, ma non posso dimostrarlo con nuove cifre, sebbene sia in grado di farlo senz’altro attraverso nuove esperienze”. Hannah Arendt ritiene che una seria riflessione filosofica debba scaturire dall’esperienza vissuta. Più volte dichiara di non voler avere nulla a che fare con l’astratta storia delle idee, in cui scorge peraltro quella deformazione, quell’isolarsi del pensare in torri d’avorio ossessive, che aveva reso pensatori e intellettuali acquiescenti al nazismo.
Le considerazioni del testo non si basano su numeri statistici, ma sulla osservazione dolorosa di ciò che la circonda, sul tormento e la fatica quotidiana che gli indesiderabili fanno per muoversi con prudenza, per non essere considerati molesti, per non disturbare troppo.
A tal fine finiscono per fantasticare sul loro passato, costruirlo rinnovandolo: “per descrivere il nostro comportamento è stato inventato un aneddoto divertente. Un povero cane bassotto émigré, derelitto e sconfortato, comincia a dire: «Una volta, quando ero un San Bernardo…»”. Meno si è liberi di decidere chi si è, o di vivere come si vuole, più ci si sforza di presentare una facciata, di nascondere i fatti, di recitare una parte. Ci si rende docili.
L’autrice sottolinea inoltre con inquietudine il regime di internamento a cui furono sottoposti gli ebrei tedeschi prima dal governo francese in quanto tedeschi, poi dai tedeschi in quanto ebrei: “Siamo stati i primi “prisonniers volontaires” che la storia ricordi. Dopo l’invasione tedesca il governo francese non ha dovuto far altro che cambiare il nome della ditta: dopo essere stati imprigionati perché eravamo tedeschi, non siamo stati liberati perché eravamo ebrei”. Divisioni, confini, limiti a inscrivere una identità che non trova spazio da nessuna parte:

È la stessa storia che si ripete continuamente in tutto il mondo. In Europa i nazisti hanno confiscato le nostre proprietà, ma in Brasile dobbiamo pagare il 30 per cento dei nostri averi, esattamente quanto versano i membri più fedeli del Bund der Auslands- deutschen. A Parigi non potevamo lasciare le nostre case dopo le otto di sera, perché eravamo ebrei, mentre a Los Angeles siamo sottoposti a restrizioni perché siamo “stranieri nemici”. La nostra identità è cambiata così di frequente che nessuno riuscirà a scoprire chi siamo davvero.
Purtroppo le cose non vanno meglio, quando abbiamo a che fare con gli ebrei. La comunità ebraica francese era assolutamente convinta che tutti gli ebrei provenienti dall’altra riva del Reno fossero, come si dice, Polaks – ovvero Ostjuden, secondo il modo in cui vengono chiamati nella comunità tedesca. Ma quegli ebrei che venivano realmente dall’Europa orientale non potevano essere d’accordo con i loro fratelli francesi e ci chiamavano Jaeckes. I figli di costoro che odiavano gli Jaeckes – la seconda generazione nata in Francia e debitamente assimilata – condividevano per parte loro l’opinione diffusa tra gli ebrei francesi dell’alta società. Così all’interno della stessa famiglia si poteva essere chiamati Jaecke dal padre e Polak dal figlio.

Queste leggi non scritte condizionano la vita quotidiana più delle dichiarazioni ufficiali di ospitalità e buona volontà.
La discriminazione è un grande strumento sociale di morte che consente di uccidere le persone senza spargimento di sangue; i passaporti e i certificati di nascita, talvolta persino le dichiarazioni dei redditi, anziché essere documenti amministrativi, diventano mezzi di differenziazione sociale.
Arendt rende esplicito come gli esseri umani scelgano in gran parte di assoggettarsi agli standard sociali poiché quando la società non li approva perdono fiducia in loro stessi. Si è pronti a pagare ogni prezzo pur di essere accettati dalla società. Ed è altrettanto vero che quei pochissimi che tentano di farcela da soli, senza ricorrere a trucchi e stratagemmi per inserirsi e assimilarsi, pagano per i loro sforzi un prezzo sproporzionato, mettendo inoltre a repentaglio quelle poche possibilità che, in un mondo sottosopra, vengono concesse persino ai fuorilegge.
Il dialogo, la comunità, il valore dell’essere nati e abitare la terra sono quotidianamente minacciati dal tentativo di rendere gli uomini superflui. Scrive ne Le origini del totalitarismo (1951):

Possiamo dire che il male radicale è comparso nel contesto di un sistema in cui tutti gli uomini sono diventati ugualmente superflui […] il pericolo delle invenzioni totalitarie e che oggi, con la popolazione e lo sdradicamento in rapido aumento dovunque, intere masse di uomini sono di continuo rese superflue nel senso della terminologia utilitaristica. È come se le tendenze politiche, sociali ed economiche dell’epoca congiurassero segretamente con gli strumenti escogitati per maneggiare gli uomini come cose superflue.

La riduzione degli uomini a “cose superflue” sta agli antipodi di quello che il pensiero di Arendt intende testimoniare, ovvero il valore di ogni singola nascita e dell’azione di cui gli uomini sono capaci in virtù dell’essere nati e dell’abitare insieme in dialogo tra di loro.
Ne La vita della mente la filosofa ricorda che Socrate, secondo quanto riportato da Senofonte, si valeva di una metafora per esplicare l’attività del pensare: “I venti in sé sono invisibili, tuttavia ciò che essi fanno è manifesto e in certo modo noi avvertiamo il loro avvicinarsi”.


Bibliografia

Arendt Hannah (1943), We refugee, «Menorah Journal», 31:69-77 [ed. it., Noi rifugiati, Einaudi, Milano, 2022].

Arendt Hannah (1983) [1955], Men in dark times, Harvest Book, New York [ed. it. L’umanità in tempi bui, Cortina, Milano, 2018.]

Arendt Hannah (1994) [1951], The origins of totalitarianism, Harvest Book, New York [ed. it. Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2009].

Bauman Zygmunt (1998), Globalization. The human consequences, Polity Press, Cambridge [ed. it. Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari-Roma, 2018].

Bauman Zygmunt (2003), Liquid love. On the frailty of human bonds, Polity Press, Cambridge [ed. it. Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Bari-Roma, 2019].

Bauman Zygmunt (2004), Wasted lives. Modernity and its outcasts, Polity Press, Cambridge [ed. it. Vite di scarto, Laterza, Bari-Roma 2007].

Butler Judith (1993), Endangered/Endangering. Schematic racism and white paranoia, in Reading Rodney KinReading urban uprising, Routledge, New York, 15-22.

Ellison Ralph (1987) [1952], Invisibile man, Penguin, Harmondsworth [ed. it. Uomo invisibile, Einaudi, Torino, 2009].

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