MORTE DI GALEASO DELGADILLO

 

Racconto di Michele Burgio

 

Nel momento esatto in cui il comandante realizzò di non avere abbastanza carburante, Galeaso Delgadillo stava ascoltando una sonata per pianoforte di Robert Schumann. In cabina di comando scese un silenzio irreale, gli occhi del copilota presero a guizzare a destra e a manca mentre quelli del comandante restarono fissi su un punto morto a trentamila piedi di altezza. Nelle cuffie dell’inconsapevole Galeaso, invece, era tutto un trionfo di virtuosismi, un rincorrersi di pizzichi e un intrecciarsi di tintinnii. Una meraviglia, non c’è che dire: la colonna sonora perfetta per uno che plana verso la morte.
Galeaso Delgadillo si era imbarcato all’aeroporto di Carrasco diretto verso Santiago. Una rotta collaudata e tranquilla che percorreva spesso dacché aveva vinto una borsa di studio per l’Academia Chilena de Bellas Artes. Non aveva fatto caso a quanta gente stesse viaggiando con lui su quel Boeing 787 quando era salito a bordo, aveva sistemato il trolley nella cappelliera e preso posto sul lato corridoio. Ad ogni modo, l’aereo aveva molti spazi inoccupati: il posto centrale accanto a Galeaso era vuoto mentre, al finestrino, un ammasso di panno chiaro con buona approssimazione avrebbe potuto essere una vecchia o il papa in persona. Il giovane aveva deciso che per quelle due ore e mezza avrebbe dormito o, quantomeno, si sarebbe sprofondato in un nuovo progetto di murales. Voleva realizzarne uno enorme, una sorta di affresco mastodontico di fronte casa dei suoi genitori. La finalità, non tanto nascosta, era che suo padre ammettesse una volta per tutte di avere un figlio in grado di progettare grandi cose. A ventidue anni si sentiva invincibile e immortale, come tutti gli artisti.
Da più di due ore non aveva tolto per un solo istante le cuffie di ultima generazione che gli sparavano nel cervello quanto di meglio l’ingegno musicale avesse prodotto negli ultimi cinquecento anni. Non aveva preferenze: per lui Vivaldi e Chet Baker stavano sullo stesso piano, un violino e una tromba si pareggiavano, purché fossero suonate bene. Aveva seguito il flusso ininterrotto delle note mentre attendeva agli imbarchi, procedeva in fila, dimostrava a sé stesso e a tutti che si poteva vivere benissimo anche senza assorbire i rumori del mondo. Quando nella fase di decollo il comandante aveva invitato i passeggeri ad ascoltare attentamente quanto l’equipaggio aveva da riferire sul comportamento da tenere in caso di improbabilissime disgrazie, aveva alzato il volume per neutralizzare qualunque ronzio capace di violare la melodia perfetta che gli entrava nelle orecchie. Fu per questo che, anche quando nel bel mezzo del volo la voce del comandante tornò a farsi sentire, Galeaso Delgadillo non si accorse di nulla. Già da qualche minuto l’aereo aveva iniziato prudentemente a perdere quota ma nessuno, neanche il più scafato tra i viaggiatori, aveva notato qualcosa di strano. Il comandante comunicava che, sì, l’aereo si stava abbassando, ma solamente per aggirare una turbolenza.
In cabina di comando, invece, aveva il viso freddo come il marmo e cercava di mettersi in comunicazione con la prima torre di controllo disponibile. Nonostante avesse accumulato più di novemila ore di volo su apparecchi di linea, quella spia che indicava un livello di carburante incompatibile con la rotta prevista lo aveva colto impreparato. Aveva già il pensiero alla stanza di albergo che lo aspettava a Santiago e ad un’amica conosciuta il mese prima: non aveva alcuna intenzione di morire e questo accadimento, adesso, dipendeva in primo luogo da lui.
All’annuncio del comandante i passeggeri non sembrarono turbati. Ed anzi, quelli che si erano leggermente assopiti si infastidirono per quell’intromissione che veniva a interrompere le prime visioni di sogno – una realtà presente ma confusa; una zia ripescata nella memoria; un centrino su un vassoio –. Galeaso Delgadillo aveva gli occhi vitrei su una rivista che reclamizzava profumi ma non guardava affatto, seguiva lo zampillo del pianoforte in tanti piccoli sobbalzi e provava una strana emozione, come di un umore zuccherino che gli invadesse le tempie. Era sonno anche per lui.
Quando il comandante ebbe l’ordine di tentare un atterraggio di emergenza nel piccolo aeroporto di San Luis, l’aereo era a poco meno di diecimila piedi dal suolo, le creste giallastre della Sierra de las Quijadas sembravano sventolare sotto un’aria tersa e infuocata. Il comandante strinse con entrambe le mani un’immagine di San Rocco di Tolve mentre il copilota cercava di tenere a bada un’inconsulta voglia di abbandonare il mezzo lanciandosi nel vuoto. Poi, entrambi, decisero di collaborare per la migliore riuscita dell’atterraggio che si potesse ottenere in una situazione come quella.
In cabina i passeggeri avevano iniziato a inquietarsi quando anziché le nuvole, come si sarebbero a ben diritto aspettati a quel punto del volo, riuscirono nettamente a scorgere dal finestrino la regione del Cuyo con le sue cittadine, la diga della Florida e la Represa Saladillo. I guidatori di tir veloci sull’autostrada, ignari del pericolo incombente sopra le loro teste, tiravano dritti verso Mendoza. Con voce flautata, come se stesse comunicando che sarebbe stata servita una seconda colazione, il comandante informò i passeggeri che, per un inconveniente, l’aereo avrebbe fatto scalo nell’aeroporto Raùl Ojeda di San Luis. I passeggeri iniziarono a rumoreggiare. Qualcuno guardò l’orologio e pensò ai programmi andati in fumo. I più sospettosi congetturarono in silenzio, ma non ebbero il coraggio di divulgare le loro farneticazioni per paura che potessero essere la pura verità e che il destino di ognuno fosse segnato. Sprofondato in una sonnolenta ipnosi, Galeaso Delgadillo ormai aveva gli occhi chiusi e non distingueva più le note né la melodia di ciò che stava ascoltando.
A cinquemila piedi dal suolo fu necessario informare i signori viaggiatori che si sarebbe trattato di un atterraggio di fortuna. Furono date disposizioni di contenersi in un determinato modo, di disporsi nella massima sicurezza e di non agitarsi. Queste parole, però, si dispersero nel vespaio di commenti confusi e angosciati dei pochi passeggeri. L’ammasso bianco di vesti sul lato finestrino uscì dall’immobilità e si rivelò per una vecchina di ottant’anni che sino ad allora aveva dissimulato il turbamento ma che adesso, percepito il reale pericolo di anticipare di qualche anno la sua uscita dal mondo, si produsse in un unico acutissimo gemito. Proprio in quel momento – e soltanto per un errore o forse per un protocollo male interpretato – scesero giù dalle cappelliere le mascherine d’ossigeno. Nessuno sapeva cosa farne e come indossarle. E allora fu la baraonda. Qualcuno gridò “Mio Signore, mio Dio, moriremo tutti!”, un uomo di mezza età, completamente impazzito, si mise a passeggiare lungo il corridoio mentre uno stewart gli berciava di tornare al suo posto, una bambina batteva sull’oblò, tentando di rompere ciò che a malapena riusciva ad accarezzare con manine tanto piccole. Mentre ormai i campi coltivati ad ovest dell’unica pista di atterraggio apparivano paurosamente vicini, anche Galeaso Delgadillo venne scosso da qualcuno: era la vecchina che gli si avventò contro, stupita che proprio lui, giovane e pieno di vita, non si fosse accorto di nulla e se ne stesse lì, a dormire placidamente mentre correva verso la morte.
Dopo qualche istante, in un boato terrificante, l’aereo toccò terra. Si alzò una nuvola di fumo e di schiuma. Il velivolo riprese quota per un attimo, come per un rimbalzo, e poi nuovamente graffiò il suolo a lungo prima di fermarsi definitivamente.
Nel bollettino venne scritto che molti ne avrebbero riportato un trauma psicologico e che i feriti furono diversi. In coda, si segnalava un solo morto: Galeaso Delgadillo, stroncato da un’anomalia cardiaca genetica che non sapeva di avere mentre ascoltava la Sonata n. 2 per pianoforte di Schumann.

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