In tutto il mentre che possiamo (Un racconto nomade)

racconto di Giuseppe Cappitta

Mentre cammino per strada penso al mio camminare per strada. Al fatto stesso di camminare per strada, ai piedi e le scarpe, all’asfalto, a ciò che vedo innanzi e si avvicina e ciò che in ambo i lati si avvicenda; al moto, al modo di locomozione, al gesto ritmico, alla prosodia del camminare.

Giugno pare fuggire maggio e tuffarsi in luglio – giuglio mi vien di chiamarlo – assolato come di piena estate da mane a filinonia e ben oltre (che qui da noi, in famiglia stretta stretta, ‘filinonia’ è il lungo abbiocco postprandiale, una più fitta pennichella, in penombra, col venticello che fa corrente, se Dio vuole), poi farsi caldumido al calar della sera. Ma stasera l’aria è fresca, la sento carezzare le braccia scoperte, la luna è gibbosa calante, il cielo deserto di nubi: a largo margine dell’alone lunare s’affacciano tepide le stelle.

Si sta bene, è una brava sera.

Sto andando a rifornirmi di ciliegino, capperi, olive nere. E penso pure a questo: al ciliegino, ai capperi, alle olive nere, ingredienti che, manco a dirlo, faranno comunella col filetto di merluzzo. Ha un nome questa ricetta? Può darsi, non so; può darsi sia “filetto di merluzzo con ciliegino, capperi e olive nere”: l’insieme delle parti – la fantasia dell’unione, dell’intersezione, del comple(ta)mento – in luogo dell’intero. Come se mi chiamassi “cervello, cuore, stomaco e organi genitali e tutto il resto”. Piacere – dico – cervello, cuore, stomaco e organi genitali e tutto il resto. E certo anche i pensieri e i sentimenti tutti, a costo di farmi impronunciabile. Invece di nome faccio Giuseppe, nome proprio di persona invero più che comune, il più comune nell’Italia del XX secolo, sì che il Novecento avremmo potuto chiamarlo Giuseppe. (C’è da chiedersi: se così fosse, il bel monologo di Baricco avrebbe avuto eguale fascino e fortuna? Per quanto bel, certo che no).

Ora, di tutto il pensabile – il pesabile sulla bilancia del ragionamento; il pescabile dal mare/lago/fiume/torrente dei pensieri (non l’oceano, ché di ‘sperienza di oceano mai ne ho avuta) –, è a questo che penso, al camminare, alle implicazioni motorie, alle giustapposizioni sensorie, alle ragioni culinarie del mio camminare, e nel frattempo io – uno e duplice, l’uno ch’è dentro-dentro e l’uno ch’è dentro-fuori, eppur sempre uno, l’uno e mezzo, me medesmo – io penso a me che penso tutto questo. L’alterità metamorfica del pensiero; metacognizione di dubbia utilità, mi bisbiglio.

E riflettendoci sussù, questa faccenda del pensare a passo d’uomo m’appare interessante: faccio quel che penso, penso quel che faccio o farò di lì a breve, pochi secondi, minuti tutt’al più, polpastrello manso che percorre la sua mappa breve, di tappe sparute, senza divagare, senza fantasticare, commisurato, coerente, regolare. Ecco una verità: nel camminare il pensiero si fa semplice. Simplex, simplĭcis: sem- («uno solo»), plec-, da cui plicare («piegare») e plectĕre («intrecciare»): «piegato una sola volta». Laddove anche il riflettere è un piegamento: re- , flectere: «volgere indietro» (il pensiero). Il pensiero incurvato.

Ma perdonatemi, ora sì che inizio a divagare, adesso che sono seduto e fermo, e più sto fermo e più divago, sedotto in itinere dal labirinto animato delle frasi che si annodano, dei significati che vi si annidano, s’annicchiano enimmattici, tortuose siepi tenebrofulgenti di parole dove sovente vado a perdermi, dove talvolta cercandomi mi scopro, mi scovo, ritrovo me e altri di quandinquando, e può darsi che gli altri siate voi, qualcuno di voi altri, qualcuno che può darsi sia tu, tu e io nel labirinto, labirintù e labirintìo, anìmule sperse tra le digressioni che vanno annumerandosi, fanno viluppo, subisso di pharmakon-deviazioni di cui si nutre si droga si cura e s’avvelena sua maestà l’immobilità, pocappoco s’avvelena, adesso che sono seduto e fermo, e più sto fermo e più divago, e un tantinello ci manca che inizi a fantasticare, drammaticamente com’è mio solito – il ‘dramma’ della prisca etade ellenica, δρᾶμα -ατος, l’«azione», l’agire nella scena, la rappresentazione, tragedia commedia e farsa –, adesso che sono seduto e fermo, e più sto fermo e più divago, e poco ci manca che inizi a fantasticare, a viaggiare con la mente, viaggiare per la mente, a spiegare le ali o piegarmi su me stesso, origami a forma di gru, animale di carta volante non volante, migratore immobile, ora che sono qui seduto e fermo, che sto qui a ripetermi, a riflettermi, a riflettere, l’annorbante ammorbante ammaliante riflettere senza bisogno di complementi diretti, intransitivo, verbo sovente compulsivo, della distrazione e della distruzione, verbo del divenire e del perire, del pensiero transeunte, impermanente, sfuggivo, rapidoso rapidissimo come un… pesce, ecco che ritorna, alla chiusa del cerchio, il pesce, il merluzzo, animuzzo vàgulo, poiché infine questo ho imparato quest’oggi dal filettuzzo con ciliegino capperi e olive nere: che inversamente, diversamente dall’immobilità, nel camminare il pensiero può finalmente adagiarsi, farsi spettatore del mondo, auditore placido di sé stesso, può dirsi mite e quieto, leggero sospinto, sì da galleggiare, passeggiare con grazia, planare sul reale, pensiero d’acqua terra aria, pensiero nucleare, elementare, essenziale, pacifico, cui basta scorrere, scorrere soltanto, ecco un gatto, penserà il pensiero, ecco un filino d’erba spuntare dal muro a secco diroccato, e uno e due e tre e più filini/ciuffetti d’erba di tutte le multitudini a farci caso, e ancora l’abbaiare e ‘l guaire di cani in lontananza, la brezza di terra, il salmastro nell’aria, un rivolo d’acqua dal tubo di scolo di una casa, ivi una pozzanghera, una ranucula sperduta (presto ne arriveranno in gran quantità, dal pantano alle viuzze per chissà dove, e ritorno), ancora i tubi di scolo le mura le porte le finestre di tutte le case, le luci delle case, il cielo, la luna, le tacite stelle, ora di cena, pensa il pensiero, merluzzo ciliegino capperi olive, mi par di sentire già il profumo, passo dopo passo, l’asfalto, le scarpe, l’asfalto, le scarpe, adagio adagio, fra largo e andante, senza fretta nel minuzzolo di mondo mio, particella blàndula di sto mondo che però non si dà pace, cui non diamo pace, che crolla di stanchezza e si frantuma e frammenta, arranca arranca, e da tempo parrebbe il caso di rallentare, rallentare e (ri)pensarsi e procedere camminando, senza correre (perché di correre e rincorrerci, di rincorrere il tempo, tempo mai ne avremo a sufficienza), senz’affanno, non per sopraffare, non per fuggire o cercar riparo, non per arrivare, ovunque arrivare, sempresempresempre arrivare, soltanto rallentare e pensarsi e procedere camminando, soltanto camminando, un passo dopo l’altro, con umiltà e pazienza, adagio adagio, mentre camminiamo, in tutto il mentre che possiamo.

Biografia

Giuseppe Cappitta nasce a Siracusa il 9 novembre 1985. In ambito letterario è autore di opere di narrativa e poesia, cui si aggiunge una miscellanea di testi a indirizzo critico, filosofico, memoriale. Vive a Marzamemi.

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