14 Ott L’avversione di Tonino per i ceci e i polacchi
A cura di Maria Tronca e Giovanni Di Marco
Giovanni, è indubbio che il titolo del tuo romanzo, L’avversione di Tonino per i ceci e i polacchi, susciti molta curiosità, quindi mi tocca chiederti: perché Tonino non tollera ceci e i polacchi?
I ceci e i polacchi sono due elementi che caratterizzano il giorno che lo segnerà per sempre, cioè quello del funerale di sua madre, la scena che apre il romanzo. La scelta di un titolo del genere, che vuole essere fortemente evocativa, serve anche a dare un tocco di leggerezza che il romanzo ha, nonostante il tema trattato sia piuttosto arduo e scivoloso.
Rimanendo ancora sul titolo, quando hai cominciato a scrivere il libro, sapevi già che si sarebbe chiamato così? Te lo chiedo perché mi è successo di iniziare a scrivere un romanzo partendo dal titolo, costruendoglielo addosso.
No, l’ispirazione è arrivata dopo. Anzi, ti dirò di più: anche una volta completata la prima stesura facevo fatica a trovare una locuzione che fosse emblematica. Alla fine, quasi per scherzo, ho scelto questo titolo partendo dal termine “avversione” che mi piaceva molto, perché la reputo una parola empatica, ripromettendomi comunque di approfondire la faccenda successivamente, con la casa editrice. Ma la redazione di Baldini+Castoldi si è mostrata subito convinta della scelta e quindi è stato confermato. Devo dire che a tanti questo titolo piace, perché suscita curiosità e non è certo banale. Ma sono sicuro che a tanti altri non piace, anche se magari non me lo dicono.
La giovane vita di Tonino viene sconvolta da un evento terribilmente drammatico, la morte della mamma. Da quel momento la sua vita sembra sfuggirgli dalle mani, più o meno lentamente, e lui smette di viverla, ma la subisce, anche a causa del grande vuoto che crea dentro di lui questa perdita. L’hai reso orfano per accentuare la sua fragilità e quindi vulnerabilità?
Sì, perché il pedofilo non colpisce a caso, ma spesso (quasi sempre) sceglie le proprie vittime tra i più deboli e sfortunati, tra chi ha carenze affettive, e quindi per dare ulteriore credibilità al romanzo ho deciso di rendere Tonino orfano.
La protagonista femminile del libro è Tania (che ho amato profondamente) con cui Tonino instaura un legame fortissimo e che prende in qualche modo il posto di sua madre. Raccontaci un po’ di lei, ti sei ispirato a qualcuno che conosci per delineare la sua personalità?
Nessuna ispirazione: Tania è un personaggio inventato di sana pianta e ritengo (anche se forse non dovrei dirlo, in quanto autore) che sia il personaggio più riuscito, perché è verace, sofferto, per certi versi anche misterioso.
L’argomento del romanzo è delicato, spinoso e scomodo: l’abuso sui minori da parte dei rappresentanti della Chiesa. Perché? Cosa ha fatto scattare in te l’esigenza di scrivere un libro su questa piaga?
Ho sempre letto molto, sin da ragazzino: fumetti, romanzi, saggi… e tempo fa mi sono imbattuto in un saggio sull’argomento di Federico Tulli, collega di Left, dal titolo “Chiesa e pedofilia”, edito da L’asino d’oro. Un libro che mi ha sconvolto e mi ha portato ad approfondire l’argomento. E più leggevo sul tema, più rimanevo turbato: dai numeri, dalle vicende, dalle migliaia di vittime sparse per il mondo, dalla mancanza di delicatezza e sensibilità da parte di chi da due millenni si erge con arroganza a guida morale dell’intera umanità; e soprattutto dal modus operandi messo in atto dalla Chiesa, emerso da documenti segreti e inchieste giornalistiche di altissimo profilo, portate avanti dal New York Times, dal Boston Globe, dall’Associated Press o dalla BBC. La Chiesa si è resa complice di reati gravissimi, negando, insabbiando, proteggendo sistematicamente i carnefici e la propria reputazione, a discapito delle vittime, abbandonate al proprio destino. Un silenzio ostinato e ingiustificato, un modo di procedere consolidato: la priorità della Chiesa era quella di non fare clamore, quindi silenzio, non collaborare con le polizie locali, pena la scomunica. Poi, se il mormorio diventava insostenibile, si procedeva a spostare il prete in questione da una parrocchia ad un’altra, favorendo ulteriori crimini, ulteriori abusi, ulteriori violenze. Mi sono spesso chiesto come si sarebbe comportato Gesù al cospetto di un minore abusato. Di certo, non come ha fatto la Chiesa di Wojtyla.
Tu sei anche un giornalista sportivo e c’è tanto calcio nel romanzo, Tonino è più che un appassionato del pallone, è un vero cultore. Questo lato del suo carattere è fondamentale, forse il calcio è l’unica cosa che riesce a non farlo annegare nel mare di abominio in cui è precipitato. È vero?
Sì, è così. La passione di Tonino per il calcio, era la mia da bambino. Per cui so bene di cosa stiamo parlando. Il calcio, lo sport in genere, può rappresentare un’ancora di salvezza, anche se non è così per tutti. Anche io, da piccino conoscevo l’album della Panini a memoria, solo che a differenza di Tonino, non ero juventino, ma avevo in simpatia il Torino.
Spesso chi è stato vittima di un abuso, diventa un carnefice, continuando a rimanere eterna vittima di un girone infernale da cui non riesce a uscire. Tonino come reagisce alla violenza subita?
Violenza genera violenza. Purtroppo è vero ed è molto frequente. Quante volte, sui giornali, abbiamo letto di persone violente con un passato problematico. Credo che per superare certe ferite bisogna diventare cinici, ai limiti dell’insensibile. È quello che succede a Tonino per non soccombere. E questo, nella realtà, può generare mostri.
Parallelamente alla vicenda di Tonino, scorre un’altra storia, quella di Marco, il fratello di Tania. Ma anche se è del tutto frutto della tua fantasia, questa narrazione si rifà a una storia vera, a una orribile vicenda di cronaca. Ce la racconti in breve?
Il fratello di Tania rappresenta il gancio tra la finzione e la realtà. Nel romanzo Marco è un monaco benedettino, a sua volta vittima (in precedenza) di abusi sessuali in un seminario austriaco. In questo caso mi sono rifatto alla storia di Padre Hans Groër, un benedettino ultraconservatore che nel 1986 Giovanni Paolo II mise a capo dell’arcidiocesi di Vienna. Un uomo ritenuto assolutamente non all’altezza del compito e di cui già allora si vociferavano le sue tendenze pedofile. Giovanni Paolo II non volle sentire nulla: tirò dritto per la sua strada, ignorò volutamente le voci e le testimonianze, non diede alcuna importanza allo sconcerto del clero austriaco, anzi si impose con fermezza, allo scopo di zittire la spinta progressista che arrivava dalla chiesa di lingua tedesca. In seguito Groër sarebbe stato accusato di aver abusato di oltre duemila bambini e ragazzi, accuse che i vertici della chiesa di Vienna in seguito ebbero a definire “credibili”. A testimoniare la fedeltà e l’affetto di Giovanni Paolo II per un personaggio tanto discusso come Padre Groër, c’è il necrologio a firma del papa polacco, pubblicato sulla prima pagina dell’Osservatore Romano dopo la morte di Groër, nel 2003, un necrologio che ho inserito integralmente all’inizio del romanzo. A prima vista si direbbe un necrologio dedicato a un sant’uomo, piuttosto che a un pedofilo. Anche questo è stato Wojtyla.
Credi che esista un modo per arginare, o addirittura eliminare, gli abusi sessuali all’interno della Chiesa?
Non saprei rispondere: posso solo dire che si è fatto molto poco per risolvere l’annoso problema. Mi sono convinto però, che l’isolamento a cui erano destinati i seminaristi (fino a qualche anno fa) e le manipolazioni psicologiche che erano costretti a subire, sin da giovanissimi, da parte di superiori, hanno contribuito a sfornare pletore di sacerdoti immaturi sul piano emotivo-sessuale. Spesso vittime, che uscendo dagli istituti religiosi, si sono trasformati con “naturalezza” in carnefici.
Il modo in cui racconti le vicende più scabrose del romanzo è molto soft, non trascendi mai, riesci a usare un linguaggio “puro”, e immagino che non sia stato facile. So che non sei credente, lo hai detto alla presentazione del libro, e mi domando se anche il distacco emotivo dalla religione ti abbia aiutato a trovare un registro linguistico così equilibrato.
Trovare l’equilibrio giusto è stata la sfida più ardua: avevo il terrore di banalizzare o scadere nel volgare. Il fatto di non essere credente mi ha aiutato a trattare la questione con disinvoltura, a prescindere dai nomi, dalle istituzioni, dai santi e dai comandamenti. L’intento non è quello di prendere di mira la Chiesa, la Religione o i credenti: me ne guarderei bene, ho molto rispetto per la spiritualità altrui, qualsiasi essa sia. Il dito, semmai, è puntato contro coloro i quali, in nome di Dio, hanno tradito l’essenza stessa del messaggio evangelico. A partire dai vertici della Chiesa di allora che hanno responsabilità morali enormi.
Ultimissima curiosità: ma a te piacciono i polacchi? E i ceci?
I ceci sì, li mangio volentieri. Per i polacchi non nutro simpatie o antipatie particolari. Certo, nell’82 quando furono per due volte nostri avversari ai Mondiali…
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