ROSANERO

A cura di Giovanni Di Marco e Maria Tronca

 


Maria, iniziamo dal titolo… essendo una storia ambientata a Palermo è facile pensare ai colori della squadra di calcio, ma c’è molto di più. A cosa vuole alludere il titolo?

Il titolo, come hai detto tu, strizza l’occhio ai colori della squadra del Palermo, ma soltanto per dare un indizio immediato sull’ambientazione geografica. Il “molto di più” sono i toni che assume la vicenda man mano che si svolge, un po’ rosa e un po’ neri.

La storia è grottesca e si rifà all’atavico duello tra il Bene e Male (in questo caso la legalità e l’onesta contro l’arroganza e la disonestà). Tu ci porti in un contesto popolare, in una Palermo verace e variopinta. Da cosa nasce l’idea – in termini narrativi – di un mafioso (Calogero Mancuso) che nel momento del trapasso entra nel corpo di una bambina (Rosellina Restivo) da cui imparerà tante cose, prima fra tutte la pietà e il rispetto per il prossimo?

L’idea è arrivata così, senza un perché, ricordo benissimo che una mattina, mentre andavo a fare la spesa, allora abitavo a Milano, ho pensato: “Ma cosa succederebbe se l’anima di un mafioso, entrasse dentro il corpo di una bambina di 9 anni?” L’idea mi è sembrata divertente e ho deciso di trasformarla in un romanzo.

Hai sfruttato un topos antico, quello dello “scambio di persona”, che si presta alla grande alla commedia. Eppure riesci attraverso una trama essenziale e intrigante, e una prosa molto fluida, ad essere parecchio originale e divertente, e soprattutto a far riflettere il lettore. Quanto è stato complicato trovare l’equilibrio giusto?

Non è stato complicato, è stato spontaneo, direi naturale. Quando scrivo, divento i personaggi che creo, entro dentro di loro, o forse sono loro che entrano in me, non l’ho ancora capito bene, riesco a pensare con la loro testa e a parlare come loro. Mi immergo totalmente nella loro personalità.

Si ride, certo, ma si riflette: quanto è cambiata Palermo negli ultimi anni, quanto è ancora vittima della Mafia, delle cosche di quartiere, del pizzo?

Sinceramente, non lo so. Sicuramente con l’associazione “Addio pizzo”, a cui hanno aderito tantissimi esercenti, le cose sono migliorate, si parla di meno di estorsioni e di intimidazioni, ma sono quasi certa che non siano sparite e che un sottobosco di marciume esista sempre. Quanto alle cosche e ai clan, non credo che sia cambiato nulla. Sono sempre lì, a incancrenire la città, l’isola. L’intera nazione.

Nel romanzo c’è un’assenza che si palesa ripetutamente, quella della madre della piccola Rosellina, un’assenza-presenza molto forte, da cui scaturisce (anche per quello che si scopre andando avanti nella lettura) un nucleo familiare “diverso”. Un concetto oggi al centro del dibattito politico, ma che nella cultura occidentale – che affonda le sue radici nel cristianesimo – è la normalità, piuttosto che l’eccezione.

La famiglia tradizionale, la famiglia allargata, la famiglia arcobaleno, mi sa che ne ho dimenticato qualche altra, ma basterebbe solo famiglia, a patto che ci sia l’amore. Che le sue fondamenta siano il rispetto e l’assoluta volontà di realizzare il bene dell’altro. Tutto il resto sono parole. E Rosellina è fortunata perché è molto amata, da tutti. Anche da chi non c’è più.

La prosa è infarcita di parole e frasi dialettali, che però non rallentano mai la lettura, anzi la vivacizzano, contribuendo a creare le giuste atmosfere, a dare concretezza e spessore ai personaggi. Ci racconti il tuo rapporto con il dialetto, come hai scelto di dosare il siciliano nel testo, senza lasciarti prendere la mano…?

Palermo è un cabaret a cielo aperto e, andando in giro per le sue strade, si sentono esclamazioni, battute, antichi modi di dire veramente esilaranti. Io li ascolto e li conservo in un cassetto della memoria, lo so che prima o poi mi serviranno. Col dialetto ho un rapporto conflittuale, tanto mi piacciono le cose che ho citato, quanto mi disturba la sua violenza fonetica in situazioni di conflitto, anche soltanto verbale. A casa dei miei si parlava sempre e solo italiano ma con quell’intercalare dialettale presente in tutte le famiglie, ma proprio tutte. E io l’ho assorbito, è diventato parte del mio modo di parlare. In più, abitavo a due passi dal mercato del Capo e lì, andando dal fruttivendolo, al salumiere, dal pescivendolo al macellaio, ho completato la mia “formazione dialettale”. Di conseguenza, scegliere di infarcire i dialoghi del romanzo con il dialetto, è stato naturale, soprattutto perché i miei personaggi sono di estrazione popolare, Mancuso poi è abbastanza ignorante, e l’ho dosato come doso le spezie quando cucino etnico: si devono sentire, ma non devono coprire il gusto degli ingredienti principali.

Ci sono degli autori, dei romanzi, a cui ti sei ispirata per la stesura di Rosanero?

In quel periodo ero in piena e assoluta balìa e malìa dei romanzi di Camilleri, è l’unico autore che mi viene in mente e che avrebbe potuto condizionare la mia voglia/esigenza di sicilianità narrativa.

Questa è la tua ultima opera letteraria, hai altre pubblicazioni all’attivo e tanto altro ancora: ma se dovessi raccontarci chi è Maria Tronca in poche righe, cosa ci diresti?

Mi piace pensare di essere una cantastorie, mi affascina da morire questa figura ormai scomparsa, perché oltre a scrivere, adoro raccontare oralmente, quasi recitare, storie di tutti i tipi, vere o inventate. E siccome sono anche appassionata di cucina, sono la Cuciniera narrante. Ti piace?

Dal tuo romanzo è stato tratto un film (Sky Original) per la regia di Andrea Porporati con Salvatore Esposito: l’uscita del film con il libro edito da Baldini+Castoldi è stata quasi contemporanea. Ma c’è una storia dietro, che ha radici un po’ più lontane. Ce la racconti? Insomma come, quando e perché il tuo libro è diventato film?

Rosanero è stato pubblicato per la prima volta 12 anni fa, da Baldini Castoldi e Dalai, e la casa di produzione 11 marzo ha subito opzionato i diritti, continuando a farlo per 10 anni, nel tentativo di trovare un produttore esecutivo. Alla fine Sky ha detto di sì, e finalmente è stato girato il film.

Il film però è molto diverso, prende spunto assai “liberamente” dal tuo libro, a cominciare dalla location che fa da sfondo alla storia di Calogero e Rosellina. Da questo punto di vista, ritieni che il film abbia conservato lo spirito originario del libro?

Secondo la mia opinione, no. Per me il libro, a tratti divertente, è abbastanza drammatico, a volte fa ridere ma non è una farsa. La sfumatura di comicità non è quasi mai del tutto casuale, spesso serve per smorzare i toni di quella che è una vera tragedia, il dovere necessariamente calare la testa davanti alle minacce degli esattori della mafia. Il terrore di mettere a repentaglio la vita di chi ami, la frustrazione, che si trasforma in disperazione, di non poter fare nulla. O paghi o soccombi. Nel film tutto questo non c’è, è una commedia comica, con alcune situazioni abbastanza simili a quelle del mio romanzo, ma senza nessuna sfumatura di drammaticità. Sono molto contenta che il film stia riscuotendo un bel successo e spero che tutti coloro che lo hanno visto, si incuriosiscano e comprino il libro. D’altronde si fa sempre così, no?

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