Onda su onda

 

di Maria Tronca

 

Immagini di Llewelyn Lloyd


Ho abitato in diverse città italiane, sia quando stavo con i miei che da adulta, e in tutti i ricordi che porto dentro di me, c’è sempre un filo conduttore: il cibo. Probabilmente anche perché mio padre era un ottimo cuoco, oltre che una buonissima forchetta, e mi ha trasmesso la sua passione per la cucina. Dai 2 ai 6 anni, ho vissuto ad Agrigento e in seconda elementare, andavo a scuola di pomeriggio, cosa che odiavo terribilmente, entrare con la luce del giorno e, ora dopo ora, vedere calare le ombre della sera, mi metteva una tristezza infinita. Però c’era una cosa che rendeva meno orribili quegli interminabili e mesti pomeriggi in classe, il pensiero che all’uscita mia madre mi avrebbe portato al Bar delle Vittorie e avrei fatto merenda con la tortina Savoia. Man mano che si avvicinava la fine delle lezioni, cominciavo a pregustare quella delizia di cioccolato e mi veniva l’acquolina in bocca. Quando finalmente suonava la campana dell’uscita, ormai quasi sbavavo e il pensiero di quella dolce abitudine pomeridiana riusciva quasi a farmi dimenticare che fuori era già buio e mi ero persa buona parte della TV dei Ragazzi.
Le domeniche a pranzo andavamo quasi sempre a mangiare al ristorante e nella mia memoria ci sono due posto marcati a fuoco: La lucciola e Don Ciccio.
Il primo era un ristorante di cucina tipica emiliana, il secondo una trattoria con piatti casalinghi sicilianissimi ed entrambi stavano appena fuori città. Non dimenticherò mai il sapore delle lasagne verdi alla bolognese della Lucciola, uno dei due piatti che prendevo regolarmente, l’altro erano i tortellini in brodo, rigorosamente di cappone. Non riesco a non sorridere quando ci penso, a risentirne l’odore e il sapore, intenso e avvolgente, cosi familiare e consolatorio. Un vero abbraccio profumato e succulento.

A fine pasto mia madre prendeva un decaffeinato e mio padre una sambuca con ghiaccio e tre “mosche”: una per me, una per mio fratello e una per lui. E la consistenza granulosa, leggermente sabbiosa, del chicco di caffè sotto i denti era la ciliegina sulla torta, il degno epilogo di uno dei momenti più più belli della mia giovanissima vita. Peccato che a fine giornata, cominciavo a pensare al lunedì pomeriggio e mi veniva il magone, spesso il mal di stomaco, e spesso neanche il pensiero della tortina Savoia riusciva a farmi stare meglio, ma rendeva il mio “sacrificio” più tollerabile.

Da Don Ciccio ci andavamo solo se faceva bello, perché la conditio sine qua non che rendeva il pasto ancora più godurioso, era consumarlo nella corte interna di quella che era una casetta di campagna trasformata in trattoria. Attraversato il cancelletto bianco, mezzo arrugginito, c’era un piccolo sentiero di pietrisco e subito a destra tre scalini che portavano nella famosa corte dove troneggiavano dei lunghi tavoli di legno. Tutto attorno c’erano dei sedili di pietra bianca e mio fratello e io ci ricorrevamo, salivamo e scendevano dalle panche e arrivavamo a tavola accaldati e affamatissimi.
La specialità di don Ciccio erano le penne all’arrabbiata che, nonostante fossero piccantine, conquistavano anche il palato dei bambini. Ma molto tempo dopo ho scoperto che la cuoca, la moglie di don Ciccio, non metteva il peperoncino nel sugo destinato ai palati più delicati e la sensazione di leggero bruciore era soltanto una suggestione, un po’ data dal nome, un po’ dalla voglia di essere già grandi ed essere in grado di mangiare un piatto piccante. Don Ciccio era abbastanza avanti negli anni ma era dritto come un fuso, aveva la pelata con una fascia di capelli candidi e ricci che gli ricopriva la nuca, da orecchio a orecchio, e gli occhi azzurri. Le sue penne all’arrabbiata erano famose e lui diceva con orgoglio che il segreto della loro bontà erano i pomodori del suo orto che, secondo la sua ricetta: “S’annu a cucinari cu tutta a buccia”.

Tutte le volte che preparo la pasta all’arrabbiata, naturalmente sempre e solo penne, ripenso a quella frase e, come in un flash, rivedo don Cicco portare sei piatti di pasta contemporanemenete, con un sorriso furbo stampato sulla bella faccia cotta dal sole e increspata come una pergamena millenaria.

Come al solito, alla fine del pasto, ci toccava una delle “mosche” della Sambuca di papà, subito dopo tornavamo a correre e a rincorrerci, a volte anche con i figli di qualche altro cliente, e a sperare che mamma e papà ci chiamassero il più tardi possibile.

Ma anche dopo quelle ore meravigliose, il maledetto magone domenicale, causato dal pensiero delle ore scolastiche pomeridiane, mi assaliva e mi intristivo. Ma sapevo che la tortina Savoia sarebbe stata lì, ad aspettarmi.

 

Biografia

Maria Tronca è nata a Palermo dove vive e scrive. Nel 2010 ha pubblicato Rosanero, con Baldini Castoldi e Dalai e nel 2011 L’amante delle sedie volanti, sempre con BCD. Nel 2018 è uscito Le fate di Palermo, nel 2020 L’ultima punitrice e nel 2022 P come Fiori, tutti con Les flâneurs edizioni. Dal suo primo romanzo, Rosanero, ripubblicato nel luglio 2022 da B+C, è stato realizzato il film omonimo con Salvatore Esposito, il Genny Savastano di Gomorra, per Sky Cinema.

No Comments

Post A Comment