“Vite prese a calci”. Letteratura e altre catastrofi: dialogo con Francesco Scarrone

 di Ivana Margarese

 

* immagine in copertina di Jacek Malczewski

 


Francesco Scarrone è uno scrittore di teatro e cinema e ha pubblicato quattro romanzi. Vite prese a calci è l’ultima sua pubblicazione. Vive da parecchi anni in Francia, a Saorge, un paesino delle Alpi Marittime francesi abbarbicato alla montagne. Qua lavora in ex convento francescano che è diventato una residenza per scrittori. Poeti, traduttori, scrittori, filosofi, romanzieri, drammaturghi, vengono a scrivere, lavorare, e creare al monastero di Saorge.
Lo abbiamo intervistato per “Morel voci dall’isola” per conoscere qualcosa in più sulla sua passione letteraria e sull’incantevole luogo in cui abita.


“Vite prese a calci” è una raccolta di racconti. Volevo chiederti del titolo. Come è nato? Lo hai avuto in mente da subito?

I racconti non sono nati con l’intento iniziale di comporre un libro, ma brani che venivano settimanalmente pubblicati via internet su alcuni siti specializzati come Crampi Sportivi, Le storie del Boskov o Fooutball is not Ballet. Solo in un secondo momento il materiale è stato raggruppato per formare una raccolta. Soltanto a quel punto ho pensato al titolo.
Nel riesaminare il materiale mi sono reso conto che c’era un filo conduttore tra i diversi racconti. O meglio, tra i diversi personaggi. Si trattava di perdenti. Un esercito di sconfitti. Cosa in realtà non inusuale nelle mie opere. Per deformazione emotiva sono sempre dalla parte dei sottoproletari, dei lumpen. Di quelle persone che la vita ha preso a calci. E mi sembrava una bella immagine quella per cui quelle persone che per vivere prendono a calci un pallone, siano a loro volta presi a calci dalla vita. Perché quando pensiamo ai calciatori immaginiamo quelli ricchi, famosi, celebri. Quelli che girano in auto sportiva. Ma, come dico nel libro, per uno che gira in Ferrari, ce ne sono mille che girano in autobus. Perché in fondo questo libro non parla di calcio, parla di tutti noi. Di noi tutti che siamo eterni rimandati a settembre, eterni bocciati, eterni sconfitti in tutti gli ambiti della vita. Ho usato il mondo del pallone come avrei potuto usare il mondo dei musicisti, degli attori, degli artigiani o dei ricercatori universitari. Il calcio è una scusa.

Nel libro parli anche della tua personale passione per il gioco del calcio o per il ruolo dello sport in genere?

 Non credo di avere una passione smodata per il gioco del calcio. Vi ho giocato come tutti, da bambino, ma non sono un tifoso sfegatato e non guardo le partite. Anzi, per essere onesto, io da bambino facevo danza classica. Cosa abbastanza inusuale per un maschio. Però penso che il calcio, e lo sport in generale, abbia il merito di mettere sotto pressione il corpo. E in assenza di lucidità la natura della persona viene fuori più chiara. E’ come se l’intensità sportiva avvitasse l’uomo alla vita. Per questo mi pare una bella metafora. Nello sport, come in tutti quegli ambiti in cui l’adrenalina si mette in moto e ti spinge ad agire, tutto diventa istinto e naturalezza. Mi piace osservare le persone in quel momento in cui non possono fare altro che agire come hanno agito. C’è un qualcosa da tragedia greca, dietro a tutto questo.

Nella tua scrittura, come accadde talvolta nella vita quotidiana, le gioie sono piccole pause che i vari personaggi si autorizzano a prendere, nonostante tutto: un mazzo di fiori regalato di istinto a fine giornata, una chiacchierata surreale, un abbraccio e così via.

La vita è piena di poesia. E la poesia arriva attraverso piccoli gesti che spesso non siamo neppure in grado di decriptare, troppo presi da un’assurda frenesia. Ma quando questa si ferma e il tuo respiro torna ad essere quello del mondo, per così dire, allora la poesia trova spazio e un piccolo gesto diventa come una sorta di tregua con la sofferenza. Un piccolo momento di pace in cui è come se tutto si sospendesse. Il dolore, la pena, le difficoltà. E spesso questo non avviene attraverso gesti eclatanti, ma piccoli movimenti dell’animo. Un mazzo di fiori regalato. La proposta di un caffé. Un raggio di sole che ha attraversato tutto l’universo per venire a depositarsi sul tavolo della tua cucina.

Ho notato nei tuoi personaggi una tendenza a spendersi fino in fondo. Vorrei chiederti cosa pensi del ”sacrificio”, che così grande parte gioca nella nostra cultura e educazione.

Non credo che questo corrisponda alla media della popolazione umana. Ma non scrivo trattati di sociologia. La scrittura è demiurgica, è una forma di onnipotenza divina. Puoi fare accadere tutto quello che vuoi. Tom Waits diceva che scriviamo perché la vita non ci soddisfa, così possiamo creare questi piccoli luoghi in cui spostare personaggi, cambiargli il nome, il destino, e cambiare un po’ il corso delle cose. Quindi, io non so se le cose vadano veramente così. Non so se veramente le persone si diano fino in fondo. Però trovo nel sacrificio un movimento dell’animo poetico che mi commuove. Nel mio romanzo Dublino 90, i personaggi continuano a perdere, ma, come i fili d’erba, non smettono ostinatamente di alzare la testa. Perché è quello che facciamo ogni giorno. Il fatto di aver subito mille delusioni d’amore non ci impedirà di innamorarci un’altra volta, irragionevolmente, ancora. Poi lo so che oggigiorno il concetto di sacrificio può suonare desueto. Ma se volessi essere uno alla moda scriverei altre cose. In fondo, avere successo non è poi così difficile. Basta essere d’accordo con la maggioranza delle persone.

Questo libro è preceduto da diversi lavori in ambiti disparati. Se dovessi scegliere, tra questi, di quale potresti raccontarci in particolare?

E’ vero che i miei lavori possono parere eterogenei. Cos’ha a che vedere una raccolta di racconti sul tango con un romanzo che si svolge a Dublino, un film su Marco Simoncelli o l’allestimento teatrale di Alice nel Paese delle Meraviglie? Bè, credo che il tratto comune sia la mia sensibilità. Quando scrivo io cerco di emozionarmi. Quando ti emozioni nello scrivere si emozionerà anche il lettore nel leggere. O almeno questa è la speranza. Se uno leggesse tutto quello che ho scritto, guardasse le opere teatrali, o i film nei quali ho lavorato, credo che potrebbe trovare un filo conduttore. Il tentativo di trovare le debolezze dell’essere umano. Anche nel vincitore, anche nel forte, andare a scavare e cavarne fuori la sua vulnerabilità. La pietà e la compassione per i perdenti. Quando ho scritto il riadattamento dell’Alice nel paese delle Meraviglie per lo Stabile di Torino ho completamente rivoluzionato la storia trasformandola nella perdita di fantasia e di immaginazione da parte degli adulti. Nel film su Simoncelli, che avrebbe potuto rischiare diventare qualcosa di celebrativo, ho puntato il faro sulla crisi che lo scosse nella sua peggiore stagione. Credo che vedere la vulnerabilità nei personaggi ce li renda umani. Ed ogni accenno di umanità ci porta a capire le ragioni, le emozioni e i sentimenti di una persona. Uno dei grandi problemi della vita è che non ascoltiamo abbastanza gli altri. Siamo troppo impegnati a sentire noi stessi. E spesso ci sentiamo pure male. Un po’ più di attenzione per gli altri potrebbe aiutare. Ecco, io, nella scrittura, cerco di dare voce a personaggi che nessuno si prenderebbe il tempo di stare ad ascoltare. Cerco di renderceli un po’ più vicini. Di amarli un po’ di più.

Tu vivi e lavori in Francia in un luogo un po’ particolare. Vorrei ci parlassi del luogo in cui abiti.

Saorge è un paesino delle Alpi Marittime francesi abbarbicato alla montagne. Trecento anime che vivono sulle pendici del monte. Un paese molto particolare. Pieno di personaggi incredibili. Gente che ha attraversato mille vite e che si ritrova oggi qui per un motivo o per un altro. Una sorta di rifugium peccatorum. Ci sono musicisti, cineasti, pittori, scrittori, attori, o semplici pazzi che abitano in questo paese verticale. Ma ovviamente non bisogna fantasticare di un Eden artistico. Sono personalità difficili, spesso inclini all’autodistruzione, al consumo di droghe e di alcol. Personalità combattute. Eppure capaci, accanto ai loro profondi abissi, di raggiungere altissime vette. Poi, ovviamente, accanto a questi, ci sono persone comuni, che conducono una vita normale. Per quanto normale possa essere una vita da queste parti quando, per andare in farmacia, devi farti cinquanta minuti di macchina. Nel paese c’è anche un ex convento francescano che è diventato una residenza per scrittori. Poeti, traduttori, scrittori, filosofi, romanzieri, drammaturghi, vengono a scrivere, lavorare, e creare al monastero di Saorge.

Quali sono i tuoi progetti di scrittura futuri?

Dopo l’uscita di questo libro ho scritto un brano per il Festival di Musica Antica di Saorge, ispirato ai cicli cavallereschi dell’Orlando Furioso. Sto lavorando su un altro libro e sono su un progetto ancora in nuce di una serie televisiva. Insomma, di scrivere, come di vivere, non si smette mai.

Infine mi piacerebbe conoscere le tue passioni letterarie o cinematografiche. Quali autori ritieni che abbiano maggiormente influenzato il tuo percorso?

Parlare delle influenze che posso avere subito, o per meglio dire, della mia formazione, con riferimento ai soli scrittori sarebbe, probabilmente, limitante. Uno scrittore, come qualsiasi essere umano, è un kaleidoscopio. La sua personalità è la somma di studi, letture, esperienze di vita. Penso che la mia scrittura, specchio e riflesso della mia persona, trovi innanzitutto radice nelle canzoni di Fabrizio de André. Non tanto per lo stile, inarrivabile, quanto per le tematiche e l’attenzione verso un certo spaccato di mondo. Poi, sicuramente, c’è la letteratura. Individuare un solo autore, o un pugno ristretto di scrittori, sarebbe difficile. Sono sicuramente debitore di Shakespeare che resta, a mio avviso, il più grande scrittore di tutti i tempi. Colui che ha saputo conciliare la forma più raffinata coi contenuti più appassionanti. Potrei passare tutta la vita e leggere nient’altro che le sue opere. Ma ve ne sono altri. Steinbeck, per esempio, di cui leggerei persino la lista della spesa. Tra gli autori italiani, covo una passione per quell’onda culturale degli anni cinquanta che va da Elio Vittorini a Ignazio Silone, passando per Giovanni Arpino sino a Pavese, Fenoglio- di cui “Una questione privata” è, a mio avviso, probabilmente una delle vette della nostra letteratura- per giungere al padre di noi tutti piccoli scrittori: Italo Calvino. Ovviamente, poi c’è l’ottocento francese. Ci sono i russi. Gli autori del novecento americano. Su tutti John Fante, il già citato Steinbeck, il più visionario Faulkner, Bukowski, Carver. Poi, per uno che ha vissuto così tanto tempo a Dublino come me, ovviamente la letteratura irlandese. Uno dei miei due libri preferiti è Gente di Dublino di Joyce (l’altro è Lo Straniero di Camus). Trovo entrambi spettacolari perché raggiungono quel livello in cui la narrativa smette di raccontare e comincia a emozionare. Trasmettere l’emozione di un personaggio al posto che descriverla credo che sia l’obiettivo che tutti gli scrittori dovrebbero porsi (show, don’t tell, si dice nelle scuole di scrittura americane). Per quanto concerne, invece, la raccolta specifica, ci sono diverse influenze, ma la scintilla è scattata leggendo Osvaldo Soriano, un autore argentino che ha vissuto per molti anni esule a Parigi durante la dittatura militare nel suo Paese. Era un grande appassionato di calcio, Soriano, e ci regalò quelli che sono, a mio modesto parere, tra i più bei racconti di calcio mai scritti. Quando leggevo le sue storie, di questo calcio perso in paesini della Pampa ai confini del mondo, le vicende mi parevano così strampalate e folli che non riuscivo a capire se fossero vere o invenzioni letterarie. Così ho pensato di giocare allo stesso gioco. Creare un mondo di pura immaginazione, ma descriverlo con uno stile secco, quasi giornalistico, per cercare di ricreare quella sensazione di confusione in cui non si capisse dove si piazzasse il confine tra realtà e fantasia, tra reale e fantastico. La più grande vittoria è stata quando mi hanno domandato se fossero storie vere. No, non lo sono. Ma avrebbero potuto esserlo. Perché quello che conta non è la verità, ma il verosimile, nella letteratura come in ogni altra forma di narrazione. Non ci importa che esistano o meno le navi spaziali. Nel mondo di Guerre Stellari esistono, e tanto ci basta perché la storia sia verosimile e ne possiamo fruire e godere. Sicuramente, nel corso dell’elaborazione di questi brani- che ha toccato un arco di circa tre anni- ci sono state molte influenze. Stilistiche o di contenuto. Certi finali malinconici sono sicuramente ispirati ai racconti di Carver e Bukowski. C’è un racconto su di un giocatore che si è recentemente ritirato dal calcio e non sa cosa fare delle proprie giornate vuote, che ho scritto dopo aver letto la biografia di Roy Keane scritta da Roddy Doyle (uno dei miei autori irlandesi preferiti). Un certo sottostrato di calcio dei quartieri poveri l’ho pescato nel pugilato dilettantistico di Fat City, il bellissimo film di John Huston (in italiano “Città amara”) in cui mise in scena il meraviglioso romanzo di Leonard Gardner. Poi, ovviamente, tutto questo si è amalgamato in me di maniera che alla fine diventa difficile riuscire a trovare dove inizi una cosa e dove finisca un’altra. Perché poi, in fondo, tutto si mischia col fango della terra. Dio ci sputa sopra. E ne nasce l’uomo.


Biografia

Francesco Scarrone ha scritto per il teatro e per il cinema. Ha sceneggiato The Repairman per la regia di Paolo Mitton e 1978, Vai piano ma Vinci (Nomination David di Donatello 2018) per la regia di Alice Filippi, Fuori Onda (Regia Nicoletta Polledro) e SIC (Regia di Alice Filippi, per Sky Documentary). Arno Klein e Il Mulino di Amleto hanno rappresentato molte delle sue opere teatrali. Ha scritto Ecuba – ovvero il banchetto dei morti per Franca Nuti. Ha rivisitato Alice nel Paese delle Meraviglie per la regia di Marco Lorenzi in una produzione del Teatro Stabile di Torino. Ha scritto inoltre quattro libri, Di lama e d’ocarina, edito dalla Gorilla Sapiens edizioni e ristampato dalla Rogas edizioni, Dublino 90 per la Rogas Edizioni, L’Allestimento, pubblicato dalla Vogliono Editrice e Vite prese a calci per la Ultra Edizioni.

CINEMA

The Repairman, regia di Paolo Mitton, 2013

’78, Va piano ma Vinci, regia di Alice Filippi, 2017 (nominato ai David di Donatello 2018)

Fuori Onda, regia di Nicoletta Polledro, 2018

SIC, regia di Alice Filippi, 2021

TEATRO

Seguendo il sentiero dei nidi di ragno, Arno Klein, 2008

Fleurs, Arno Klein, 2009

Roma Criminale, Il Mulino di Amleto, 2009

Per Ecuba, ovvero il banchetto dei morti, Il Mulino di Amleto, con Franca Nuti, 2010

Storie Nascoste, Arno Klein, 2010

Goodnight Ladies, Il Mulino d’Amleto, 2011

Un destino dispettoso, Arno Klein, 2011

Un’isola affollata, Arno Klein, 2011

Il più grande tanguero della Pampa, Mamagre e Elena Griseri, 2013

Quel tetto maestoso di fuochi dorati, Il Mulino di Amleto, Planetario di Torino, 2016

L’allestimento, Elena Griseri, 2017

Alice nel Paese delle Meraviglie, Teatro Stabile di Torino, 2018

BEA, di Mick Gordon, Mulino ad Arte, 2019 (TRADUZIONE)

Fioretto o Merletto, Les Chevaliers des Roches Rouges (testo in Francese e in Italiano), 2019

NARRATIVA

Di lama e d’ocarina, Ed. Gorilla Sapiens, 2012

Dublino 90, Ed. Rogas, 2017

Di lama e d’ocarina, (Edizione aggiornata con l’aggiunta di 8 testi inediti), Ed. Rogas, 2020

L’Allestimento e Per Ecuba, Ed. Voglino, 2021

Vite prese a calci, Ed. Ultra, 2022

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