Quella pistola non doveva sparare (un racconto tutto sbagliato)

racconto inedito di Silvia Roncucci

 

 

Appena ho udito rumore di passi, ho capito subito che si trattava dei suoi tacchi vertiginosi. Acquattato dietro al divano con l’attizzatoio in mano, sudato fradicio, sento un brivido di terrore scorrere lungo la schiena (oltre a un forte dolore alle ginocchia: a quarant’anni suonati bisogna che cominci ad accucciarmi un po’ di meno). Il cuore mi batte a mille, davvero all’impazzata, e anche Luna, accanto a me, trema. Come una foglia.

Nel mio passato burrascoso da gangster di periferia darsela a gambe era all’ordine del giorno, però ormai da tempo avevo cancellato quel periodo oscuro con una spugna e la mia vita aveva cambiato rotta per amore. Quando l’avevo incontrata, bella e dannata, era stato un vero un colpo di fulmine. Era inutile che tutti mi dicessero “lasciala perdere, non vedi che è la classica dark lady da storia trita e ritrita”, ormai mi ero intestardito. Finché non mi sono reso conto di quanto fosse pericolosa e sono stato costretto a scappare via veloce come il vento, anche senza il becco di un quattrino in tasca.

Immaginavo che rifugiarmi in una ridente e pittoresca cittadina di montagna, con dei montanari inconsapevoli della malvagità che regna in una metropoli tentacolare, sarebbe stato un modo perfetto per togliermela dalla testa. Quando sono arrivato, a essere sincero, non potevo dire come fosse quella località: fuori c’era una pioggia a catinelle e una nebbia che si tagliava con il coltello.

“Benvenuto”, ha detto con tono simpatico la proprietaria della locanda, una vecchietta arzilla dalla pelle incartapecorita. “Spero che tu abbia fatto buon viaggio nonostante il tempo. Fuori c’è una pioggia a catinelle e una nebbia che si taglia con il coltello, nevvero?”.

“Eh già”, ho risposto battendo i denti dal freddo. Erano giorni che non parlavo con nessuno ed ero felice di quel vivace scambio di battute.

Per fortuna la stanza che mi aveva riservato era calda e accogliente, anche se mi era costata un occhio della testa. Appena è uscita mi sono seduto sul letto e ho aperto una bottiglia di whisky; volevo essere ubriaco fradicio di lì a breve, alzare il gomito mi avrebbe aiutato a dimenticare: mi congratulai con me stesso per l’originalità dell’idea. Tuttavia poco dopo ho sentito bussare alla porta. Una voce melodiosa ha chiesto permesso, e una ragazza bianca come il latte ha fatto capolino nella stanza. Sono saltato giù dal letto e, sebbene fossi già un po’ fuori di testa, ho visto che aveva proprio l’aspetto di una giovane acqua e sapone.

“Le ho portato degli asciugamani puliti, posso entrare?”, ha chiesto gentilmente.

“È già sulla porta” ho risposto, forse un po’ troppo bruscamente. Mi era passata la voglia di parlare e francamente avrei fatto volentieri una doccia per togliermi la stanchezza di dosso velocemente.

“Faccia come fosse a casa sua”, ha aggiunto lei cordialmente.

“Be’, casa mia non è calda e accogliente come questa locanda, veramente”, ho osservato sorridendo. Lei è rimasta in silenzio. Finché non ho detto: “Vorrei tanto continuare questo dialogo, ma sinceramente non mi vengono altri avverbi… in mente.” Abbiamo fatto una grassa risata e ci siamo dati la buonanotte, ripromettendoci di consultare il vocabolario l’indomani per trovarne altri.

Il giorno dopo la luce che filtrava dagli scuri mi ha svegliato di buon’ora. L’alcol aveva fatto il suo dovere e avevo dormito come un sasso. La pioggia incessante era finita. Era troppo presto per fare colazione e per ammazzare il tempo ho deciso di sgranchirmi le gambe con una passeggiata nella neve; anche se era un po’ pericoloso, perché la pioggia l’aveva disciolta e il freddo della notte l’aveva trasformata in ghiaccio (e io, con le ginocchia che mi ritrovo, avrei fatto meglio a non avventurarmi). Mentre passeggiavo ho sentito il suolo sotto le mie scarpe talmente duro e freddo che mi ha ricordato il cuore di lei nella città lontana. Alzare i tacchi era stata la decisione giusta, però sapevo di avere il petto ancora in guazzabuglio per quella donna. Mi ripetevo che non c’era niente da fare: dovevo cercare una grossa pietra da metterci sopra. Perciò mi sono messo a rovistare tra l’erba, ma all’improvviso ho sentito un rumore provenire da un cespuglio e mi sono nascosto dietro a un albero. Sarà stata solo un’impressione? Sarà stato un animale? Un essere umano? O qualcosa di peggio? Per fortuna non sono stato costretto a usare altri punti interrogativi perché, un istante dopo, ha fatto capolino lei: la ragazza dalla pelle di neve. Mi ha salutato con la sua vocina dolce come il miele e subito ho sentito le farfalle nello stomaco. Quando si è avvicinata e mi ha guardato con i suoi occhi da cerbiatta, le mie gambe hanno ceduto all’emozione (e forse anche un po’ al terreno che si era fatto scivoloso).

“Sei… già sveglio?”, ha detto con tono perspicace, guardandomi con sguardo sognante.

“Ehm… sì”, ho risposto con tono gentile, cercando di ignorare la mia pancia che protestava a gran voce (ho il sospetto di non avere neanche più l’età per bere whisky a stomaco vuoto, o forse era colpa delle farfalle?).

“Se vuoi… ti porto… la colazione”, ha detto con tono accogliente.

“Sì… grazie”, ho risposto con tono sempre cortese. “Che ragazza d’oro”, ho pensato tra me e me, “ha capito subito che avevo una fame da lupi”. Non mi è venuto il sospetto che fosse un po’ troppo scontato imbattersi nella donna dei tuoi sogni subito dopo esser scappato via da una dannata mangiauomini, quindi mi sono incamminato con lei verso la locanda. Mentre preparava la colazione, di punto in bianco, ha fatto, con tono preoccupato: “Tanto lo so che stai scappando da qualcuno… che per caso… hai la polizia alle calcagna?”.

“No, niente polizia. Quei tempi ormai sono lontani. Diciamo che… alle calcagna ho qualcun altro …”, ho risposto mettendo più puntini di sospensione del dovuto per creare senso di attesa e guardando verso la finestra con aria misteriosa, come se quel qualcuno fosse sul punto di arrivare.

“Come sei misterioso!”, ha esclamato (appunto) Luna. E subito si è gettata tra le mie braccia. Il fuoco intanto scoppiettava nel camino.

“Cos’è stato?”, ha chiesto poi sobbalzando.

“Cosa?”, le ho risposto.

“Questo rumore… uno scoppiettio. Sarà il camino?”.

L’ho tranquillizzata dicendo che doveva dipendere da qualcosa di magico che era scoccato tra di noi e così abbiamo fatto l’amore, per ore per ore per ore. Finché il mio telefono non ha squillato, mostrando sul display un numero privato.

“Chi è?”, ha chiesto Luna coprendosi.

“Non lo so”, ho risposto, non avendo la palla di vetro.

Un istante dopo ho sentito la sua voce. “So dove ti trovi”, ha detto. “E mi vendicherò”. Poi ha riagganciato.

Il sangue mi si è ghiacciato nelle vene e ho deglutito come se in gola avessi un uovo sodo.

“Che succede?”, ha domandato Luna. “Sembra che stia per strozzarti, fammi vedere”, ha detto, mentre i suoi occhi, come uno specchio, rimandavano la mia immagine.

“Non è niente”, le ho risposto, e a quel punto le ho raccontato tutto su Margot. Appena finita la storia mi ha stretto in un caldo e tenero abbraccio e abbiamo ricominciato a fare l’amore; ma per poco perché, proprio sul più bello, è arrivato un altro messaggio. “Sono qua”, diceva.

Ho detto a Luna di rivestirsi, ho afferrato l’attizzatoio e ci siamo appostati dietro al divano. Conosco abbastanza bene Margot da sapere fin dove si potrebbe spingere.

Eccoci ancora qui accucciati. Avrei quasi voglia di fare di nuovo l’amore con Luna, per ore per ore per ore, ma devo resistere (anche perché dovremmo trovare una posizione che non mi dilani le rotule). I tacchi di Margot si sono fermati. Deve essere proprio davanti a noi.

“Dove sei?! Esci fuori, maledetto bastardo!”, grida Margot.

Faccio segno a Luna di rimanere al sicuro ed esco, nascondendo l’attizzatoio dietro la schiena.

“Eccomi qua, mi volevi?!”.

“Sì. Altrimenti perché sarei venuta?!”.

“In effetti… insomma, cosa vuoi?!”.

“Lo sai cosa voglio!!!” esclama Margot, in un impeto esclamatorio. Lo sai che il nostro legame è indissolubile, che ti amo da impazzire, che il mio sogno nel cassetto è avere dei figli con te, Luke, lo sai benissimo che insieme abbiamo toccato il cielo con un dito, ma dopo che te ne sei andato sono caduta dalle stelle alle stalle e ho cominciato a brancolare nel buio. Perché non torni con me? Ti ricordi quella volta che siamo stati in vacanza e tu mi hai confessato che avevi quel problema e poi abbiamo incontrato il tuo amico che ci ha raccontato delle difficoltà che avevi da bambino, sì, quando balbettavi, e quindi da questo sono nate tutte le tue turbe psichiche e poi…”.

“Sì, ma cosa c’entra, qui, in questo dialogo. Non dovrebbe avere a un ritmo più serrato?”.

“E va bene Luke, voglio solo questo da te: torna, torna da me!”. Mentre parlava i miei occhi erano attratti irresistibilmente dal vestito rosso che calzava come un guanto al suo corpo da fotomodella, con tutte le curve al posto giusto, le scarpe con il tacco dodici (comodissime, per altro, con il ghiaccio), il seno esuberante, le natiche rotonde (dal davanti non le vedevo, ma me le ricordavo bene): insomma, il suo fisico perfetto.

“Margot, sai benissimo che sei arrivata nella mia vita come un ciclone, però è inutile che tu ti arrampichi sugli specchi, il nostro rapporto ormai fa acqua da tutte le parti. Ti ricordi quando hai cominciato a farmi il terzo grado, a dare in escandescenze, a comportarti come una matta da legare, e alla fine mi sono sentito come un animale in gabbia, e soprattutto la pistola, cazzo, Margot, ti ricordi che per gelosia hai tirato fuori una pistola e mi volevi sparare perché avevo salutato la vicina di casa, che peraltro è una vecchia che non si scoperebbe manco un cieco?”, ho domandato. Che ero un fascio di nervi neanche sto a dirlo.

Margot è rimasta a bocca aperta. Poi mi ha guardato, gli occhi indagatori iniettati di sangue, ed è stato allora che l’ha tirata di nuovo fuori: la pistola.

“Vedo che vuoi costringermi a passare alle maniere forti. Allora crepa, bastardo!”, ha gridato più a squarciagola che poteva. Ha riso con la sua risata diabolica e poi ha premuto il grilletto.

Del resto non ricordo niente. Luna mi tiene di nuovo nel suo caldo e tenero abbraccio e mi accarezza la testa dicendo che sono bianco come un lenzuolo, freddo come il ghiaccio, che me la sono vista brutta, che ha trascorso qualche secondo con il cuore in gola, e che ancora non riesce a credere che la nonna, la dolce nonnina sorridente con la pelle incartapecorita, sia arrivata fulminea, in men che non si dica, correndo a perdifiato (c’è da meravigliarsi che non abbia tirato le cuoia) e abbia rivolto il fucile da caccia del suo defunto marito verso Margot, facendola passare a miglior vita.

“Luke, il minuto che hai trascorso qui a terra mi è sembrato un’eternità. Sei ferito a una spalla, ma è una lesione superficiale. Te la caverai”, dice Luna. E quando mi stringe nel suo caldo e tenero abbraccio, esclamo: “E che diamine, stai attenta!”, perché il dolore alla spalla è lancinante e si aggiunge a quello che già ho alle ginocchia. “Luna, anche io ho avuto paura, ma ora, almeno, mi sono alleggerito l’animo da un peso. Ma tu, così pura, sei proprio certa di volere un uomo tormentato come me? Con qualcuno sempre alle calcagna? Ma soprattutto: pensi davvero che sia un personaggio credibile per una storia? Insomma a me comincia a venire qualche dubbio pure sull’originalità della nonnina con la pelle incartapecorita…”.

“Luke, è da quando ero bambina che sogno un uomo come te. Appena ti ho visto ho avuto una fitta al cuore. Sai, quando ti sei nascosto dietro a quell’albero che aveva piantato mio padre morto quando avevo cinque anni perché mio nonno gli aveva detto che un giorno avrebbe fatto…”.

“Basta spiegoni. Baciami!”.

Luna mi bacia, poi mi abbraccia di nuovo (piano) mentre la nonnina mette uno specchietto sulla bocca di Margot per controllare se è crepata, e sì: è crepata.

Anche la vecchietta ride a crepapelle. “Tutto è bene quel che finisce bene”, dice.

Io e Luna intanto guardiamo verso la finestra. Fuori il tramonto cremisi si diffonde sulle cose mentre Luna e io, siamo stanchi, tanto stanchi. Ma felici.

 

Biografia

Silvia Roncucci (Siena, 1979) si divide tra il lavoro di insegnante e quello di guida turistica. Ha frequentato corsi di scrittura con Giulio Mozzi, Rossana Campo e Marco Rossari. Alcuni dei suoi racconti sono stati pubblicati su Offline, Malgrado le mosche, Il foglio letterario, Lorem Ipsum, Belleville news, Pastrengo, Neutopia e Rivista Blam. Combatte quotidianamente con la dipendenza dalla crema di pistacchio, una figlia testarda, un marito polistrumentista e un gatto che adora saltare sulla tastiera del computer mentre scrive.

 

 

 

 

 

 

 

 

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