Un amore per Colapesce

racconto inedito di Flavia Catena

 

Nicola si era innamorato due volte: la prima del mare e la seconda di Luisa. Ma se alle braccia delle onde aveva sempre concesso il proprio corpo leggero di ragazzo, a quelle di lei non era mai riuscito ad avvicinarsi, non senza sentirsi pesante e sgraziato.

Erano nati con poche ore di distanza l’uno dall’altra, lei alle cinque del mattino, lui alle dieci. Mentre il pianto di Luisa aveva fatto da sveglia all’intero paese, quello di Nicola, debole e intermittente, era finito coperto dai rumori del mondo. Ancora fra le braccia della balia, il padre lo aveva visto boccheggiare per qualche istante come una sardina tirata fuori dall’acqua. Da qui il nomignolo di Colapesce che gli rimase addosso contro ogni suo volere.

E come insieme erano nati, insieme erano cresciuti intrecciando reti da pesca e costruendo castelli di sabbia. Proprio lì, da dietro quelle maglie e quelle merlature imperfette, Luisa gli aveva sorriso ancora senza denti e lui aveva fatto altrettanto tuffandosi dagli scogli come una freccia scagliata nella luce.

C’è chi ama del mare le sue sfumature di colore, chi il timbro dei suoi umori, chi l’apertura che concede allo sguardo; Nicola, invece, amava ciò che si nasconde sotto la sua superficie, le sue creature, i ricordi strappati alle mani degli uomini e quelli che gli uomini scelgono di dimenticare.

«Se vedessi che tesori meravigliosi ci sono laggiù!» diceva spesso a Luisa, spaventata alla sola idea di mettere la testa sott’acqua e trattenere il fiato per un secondo.

«Non puoi portarmeli qui?» gli domandava lei.

Nicola scuoteva la testa, difendendo il suo ruolo di osservatore rispettoso, eppure, ogni tanto, cedeva alle sue richieste accontentandola. Aveva dieci anni quando le regalò la conchiglia più grande mai trovata in una grotta sottomarina, undici quando con le antiche monete rubate dalla tana di un polpo fece per lei una collana; dodici quando le mise in mano una squama di sirena, insistendo sul fatto di averne vista una mentre pescava in barca con suo padre.

Luisa era la sola che credeva alle sue storie fantastiche, e un giorno, vedendo l’amico che danzava con un ventaglio di coralli in mano, disse:

«Voglio venire con te. Voglio vedere con i miei occhi tutto ciò di cui mi racconti.»

Quella notte, disteso sul letto, Nicola versò la sua prima lacrima di felicità, e al risveglio vide che sul cuscino brillava una piccolissima perla.

Si era ripetuto quella scena nella mente più e più volte, come una poesia da imparare. Ogni dettaglio era un verso; le forme, i colori, perfettamente visualizzati, erano le rime.

Luisa nuotava veloce controcorrente; il suo vestito bianco, quello della domenica, le aderiva alle gambe unendole a formare una lunga coda. Nicola la precedeva, per assicurarsi che non ci fossero meduse, trigoni o tracine nei paraggi, tutte creature da cui sapeva per esperienza che bisognava stare lontani. Emergevano insieme per prendere fiato, e insieme risalivano gli scogli più alti dove asciugare il loro corpo bianco di salsedine. «Devo tornare a casa». A quelle parole di lei seguiva un suo bacio. La rima più bella era usata a conclusione della scena.

Il mattino scelto per l’immersione, Luisa arrivò in spiaggia in ritardo.

«Non sono sicura di farcela», disse all’amico. Aveva le mani giunte che lui strinse d’istinto.

Fu lei, allora, che lo baciò sulla guancia. E per lo stupore, Nicola quasi non se ne rese conto. La sua pelle era diventata insensibile, i suoi occhi erano lucidi e velati. Dovette dirle qualcosa per convincerla a seguirlo, ma non sentì neanche le sue stesse parole. Un attimo dopo, era Luisa a precederlo nuotando. La sabbia raccolta tra le dita sfumava in una nube leggera, i suoi capelli bagnati si intrecciavano alle alghe cambiando colore. Riusciva a trattenere il fiato per pochi secondi; una spinta verso il basso, e poi emergeva. Nicola, invece, non ne aveva bisogno: il mare lo trasformava, lo rendeva più forte e in qualche modo meno umano.

L’obiettivo che si erano prefissati era di raggiungere l’isola del faro. Là, sotto il molo, c’era una grotta, e nella grotta dormiva Celeste, una statua di marmo bianco dai cui occhi cavi venivano fuori grandi e cavallucci marini, e dalle cui mani sbocciavano anemoni e margherite di mare.

Presa Luisa per mano, i due giovani nuotarono l’uno accanto all’altra come se fossero la stessa creatura, figlia delle onde e della luce. Avevano quasi raggiunto la grotta, quando un vortice improvviso li divise e la ragazza venne ingoiata dal buio. In quel momento, Nicola si trasformò in pesce. E fu manta, fu balena, fu un animale diverso per ogni emozione provata, mostro abissale e mammifero straziato.

Proprio come Celeste, il corpo di Luisa finì riverso sulla sabbia, immobile. Non appena l’ebbe raggiunta, Nicola la strinse a sé e la riportò in superficie. Là sentì di soffocare per la prima volta. Salvarla non fu sufficiente a restituirgli tutta l’aria perduta.

«Nicola!» lo chiamò a lungo Luisa.

Cercò l’amico per mesi setacciando ogni spiaggia della costa, ogni baia, risalendo fiumi e sentieri, anche quelli che si spingevano per chilometri lontano dal mare, ma Nicola non rispose più né a lei né alle grida disperate di suo padre e ai pianti di sua madre.

Gli anni passarono, e morti i suoi genitori il ragazzo venne dimenticato. Solo Luisa pensava ancora a lui. Talvolta, in sogno, ne rivedeva gli occhi neri, i ricci mossi dallo scirocco, le labbra spaccate dal sole, e al momento del risveglio, ne sentiva la voce.

«Luisa, dove sei? Luisa…» la chiamava, senza chiarirle dove fosse.

Un mattino, sentendolo più distintamente del solito, si vestì in fretta e scese in spiaggia. Il buio già si concentrava alle estremità del cielo e il mare appariva calmo, di un azzurro chiarissimo. Un improvviso desiderio di bagnarsi la spinse fino alla battigia. Dal giorno dell’incidente, non aveva più nuotato. Tremava, strisciando i piedi sulla sabbia fredda, ma come se fosse stata sotto un incantesimo non riusciva a fermarsi.

Aveva quasi raggiunto l’acqua, quando un’onda si alzò a qualche metro da terra e Luisa vide l’amico al suo interno, il viso d’uomo e il corpo lucente di squame.

«Sei tu, sei Nicola?» gli domandò, non perché incerta ma per sentirlo parlare di nuovo.

«Chiamami Colapesce», disse lui.

Poi, senza dire altro, le sorrise. Era vicino e distante, come un sogno. Del sogno, nel momento in cui lo si ricorda, aveva la stessa consistenza.

Luisa gli sorrise, e quando l’onda, infrangendosi ai suoi piedi, lo nascose di nuovo alla sua vista, lei trovò il coraggio di tuffarsi. Fu allora che vide le meduse che brillavano intorno a lui, i delfini che spingevano il muso contro il suo petto, aspettando una carezza, le mante che gli offrivano il dorso perché si lasciasse trasportare lontano. E lo guardò costruire castelli con la sabbia del fondale, riparare gli strappi delle reti affondate, chiuderne i buchi, dormire con la testa poggiata su un cuscino di spugne, danzare intorno a Celeste, insieme ai cavallucci marini e ai granchi che uscivano dai suoi occhi cavi.

 

Biografia:

Flavia Catena è una fotografa professionista nata in Sicilia e da diversi anni residente a Londra, in Inghilterra. Ha conseguito una laurea in Editoria e Scrittura presso l’Università Sapienza di Roma e un Master in fotografia giornalistica. Oltre a raccontare attraverso le immagini che scatta, scrive storie, molte delle quali continua a tenere nascoste. Ha lavorato come traduttrice e collaborato con alcune riviste di critica letteraria, di viaggio e di fotografia. Alcuni suoi racconti sono comparsi su “Lunario”, “Spaghetti Writers” e antologie letterarie, altri usciranno a breve su “La Seppia” e “Rivista Piegami”.

 

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