Pentesilea

racconto inedito di Francesco Scarrone

 

Non piangere, Achille, arresta le tue lacrime, non uccidere due volte Pentesilea. Il tuo dolore diventa il mio e raddoppia la mia pena. Smettila, adesso. Ora, che le bianche mie membra stringi, singhiozzando, tale un infante, mentre la vita mia scivola dalla ferita che sul collo mi hai, con la lancia tremenda, inciso; e si allarga in una pozza scura ai miei piedi, e tu disperato, mi serri, cullando e gemendo, e bagni di lacrime sacre la corvina nera mia chioma. Eccola lì, guardala, la vita mia. Tutta riassunta in quella pozza di sangue. È poca cosa, vero? Pensa a quante emozioni, a quante risa, a quanti pianti, stanno in quel sangue. Pare incredibile che una vita intera stia tutta lì dentro.

Andiamo, smettila, ti dico. Smettila, con quelle mani di cercar di rimettermi il sangue nella ferita. Non vedi che non serve a nulla? Resta qui, piuttosto, appoggiato a me, e fa che i tuoi occhi siano l’ultima cosa che possa vedere prima di chiudere i miei per sempre. Achille. Non sei stato tu a togliermi la vita, ma è la vita che è una malattia troppo tremenda a cui non v’è rimedio.

Sei arrivato troppo tardi.

Semplicemente

È sempre troppo tardi.

Ormai ero già condannata.

Piuttosto abbracciami. E guardami. Dammi i tuoi occhi, scivolami dentro, e amami. Fai che, con l’amore, possiamo sconfiggere la morte. Ti giuro che non è colpa tua. Per avere il mio amore avresti dovuto sconfiggermi, e se non mi avessi sconfitto, non avresti mai avuto il mio amore. Come vedi, non c’era soluzione. Non c’è mai stata, soluzione. Siamo condannati, tutti, da sempre e per sempre, a vivere nella tragedia.

Tragedia è la vita stessa.

Ma adesso stringimi, Achille, stringi il mio petto che era di guerriera. E guardalo, questo petto mio forte, resistente al ferro ma orfano di un seno: poiché a noi amazzoni, per meglio tendere l’arco, quello destro, da giovinette, le nostre madri amputavano. Così, vedi, io, priva di quell’interezza che faceva di me una donna completa, mi ero convinta che non lo fossi che a metà. Che forza e coraggio non dovessero addomesticarsi con dolcezze e carezze. Che tenerezza fosse una fessura pericolosa in cui un granello di pietà si sarebbe potuto infilare per spaccare in due la mia anima. Non mostrare debolezza, Pentesilea, mai alcuna, mi ripeteva mia madre, tenendomi, bambina, traballante sulle sua ginocchia. E così fu che amore e sentimento, per me, non divennero che parole afone e prive di senso. Suonavano, balbettando sulla lingua, ma non articolavano significato alcuno. Rimanevano staccate dal reale delle cose, come le ombre, che son ben altro dagli oggetti che le producono. Ecco, amore, per me, era un’ombra. E lo era stata per tutta la vita, fino a quando, dalle pianure centrali del Caucaso, laddove sono le nostre belle città dagli alti templi e dalle mura dorate, non calammo per dar battaglia ai più coraggiosi guerrieri che, sapevamo, si stavano sfidando da lunghi anni nella piana tra il Simoenta e lo Scamandro, sotto le mura di Troia; dargli battaglia, e gettarli nella polvere, il nostro sandalo sulla loro nuca, e poi catene, e corone di fiori per  legarli a noi coi riti sacri delle nostre madri, affinché la razza delle amazzoni potesse crescere e prosperare più forte e gloriosa che mai.

E io discesi, quel giorno, sul campo di battaglia, decisa a piegare il più valoroso dei guerrieri e farlo mio sposo, mio amante e, infine, io, sua vedova. Perché nessun uomo, secondo le nostre leggi, può sopravvivere alla stirpe delle figlie del cielo. Eppure, quando già riecheggiava la battaglia, e il mio braccio forte, più di un nemico, aveva atterrato, cui subito, i ceppi, venivano apposti, e lui trascinato via in catene, nella polvere della mischia furiosa io ti vidi, Achille. Rifletteva il sole, il tuo scudo, e un secondo sole apparivi tu. Da te ogni forza irradiava, e fulmine strappato al temporale era la tua lancia che inseguiva atterrando i nemici che mai, piedi abbastanza veloci, avevano per sfuggirle. Fu lì che conobbi quel dolore acuto che mai m’aveva traversata. Quella fitta tra lo stomaco e il sesso, che mi fece stupire alla ricerca d’un pugno d’aria in fondo ai polmoni. Dov’è finita, l’aria, pensavo, e intanto mi era scivolata via anche la forza. Mi tramortisti, tu, con una sensazione completa di infinito. Di farne parte, di generarlo ed esserne generata. Sentii che da una molecola di me può nascere l’universo. Capii, per la prima volta, l’amore e la vita stessa. L’esistere. Di cosa siamo fatti. Il fatto di far parte di stelle, e soli, e galassie che ci esplodono dentro e intorno, tra mondi che vorticano nel buio e io, Pentesilea, galleggiante in mezzo a tutto questo splendore di esplosioni e artifici del cielo, e in fondo a quel cielo, al centro di quel cielo, te, Achille meraviglioso.

Mi prese brutale la smania improvvisa di essere conquistata. Divenire preda, mansueta ai tuoi piedi. Se debbo essere d’un uomo, pensai, che io sia di quel Dio o di nessun altro. In quel momento sarei stata pronta a seguirti ovunque, a rinunciare a ogni cosa per te. Il mio regno, la mia discendenza, la mia stirpe, la mia razza, il mio orgoglio. E tutto, e solo, perché avevo visto te, Divinità fecondatrice, braccio predatore!

Ma conoscevo le leggi delle nostre madri: solo chi ci sconfigge ci può avere.

Per questo mi feci largo nella lotta, abbattendo, uno dopo l’altro, con fendenti dritti e sicuri, coloro che mi separavan da te. E sentivo le urla, dei tuoi, che fuggivano terrorizzati gridando, Pentesilea è una cagna assetata di sangue, salvaci Achille, solo tu puoi fermarla!

E così mi venisti incontro, e ti piantasti me davanti, maestoso. Orgoglioso come un Dio. E allora io ristetti, decisa, come non mai, a battermi per essere conquistata, fiera del mio orgoglio di amazzone. Non arrendermi deponendo le armi, ma con le armi in pugno, volevo mi piegassi ed esercitassi su di me la tua forza tremenda. Costretta, essere, a inginocchiarmi. Sentirmi vinta. E allora piegami, Achille. Piegami, e tua sarò per sempre! Imparerò ad accompagnare, alla mia forza, dolcezza e tenerezza. Cesserò di appartenere a questa razza di dominatrici. Cesserò di dover, per dovere, rinunciare al pianto, al riso, all’emozione; strapperò la mia maschera di impassibilità e io, da sempre donna a metà, donna completa sarò per sempre. Dove sta scritto che la mano che colpisce non sappia anche carezzare? Perché la forza dovrebbe escludere la gentilezza? Non può, forse, l’ape dal pungiglione acuto, produrre anche il dolce miele? Ma prima, Achille, prima di tutto questo, prima devi sconfiggermi. Non umiliarmi con parole d’amore, ma piega il mio orgoglio, ora che il mio cuore hai già piegato.

Questo mormorai in un respiro. E poi, grido tremendo scagliai contro di te, che ne tremò la pianura tutta e Ade stesso ne fu perturbato, e col grido, su di te si abbatté, roboante come tuono, il primo mio colpo, e si scheggiò il tuo scudo sicuro: le tue armi vittoriose, forgiate da un Dio, che nessuno mai era riuscito a scalfire, io sola ferii! E per la prima volta, eroe invitto, apparve l’orrore nei tuoi occhi. L’orrore che genera paura che genera furia. L’orrore di una donna che può strapparti la vita. E allora, come la muta di cani, rilasciati dal cacciatore terrorizzato, si getta sul leone senza pensare che ne potrebbe morire o rovinare la preziosa pelle, così la tua furia su di me si avventò. E i colpi si susseguirono ai colpi, e il mio desiderio divenne la tua rabbia, e la tua rabbia accendeva in me il desiderio. E poi accadde. Che il mio colpo trovò il tuo sangue nel fianco. E tu, incredulo, ritraesti, rossa e viscosa, la mano, e la fissasti, e poi guardasti me, e poi di nuovo la mano coperta del tuo sangue immortale, e allora d’improvviso tu non fosti più tu. Si spalancarono, le tue pupille, si coprì di nero il bianco, si allargò la tua schiena a riempire il cielo e la mandibola si fece enorme, e la bocca cacciò un grido di bestia, e tu fosti tutto in quel grido, diventasti bocca, diventasti denti, lingua, dolore, e niente più di umano risuonava in te. Niente più di umano, e sollevasti la spada e la abbattesti nel cielo. Il primo colpo andò a vuoto. Il secondo fece tremare la terra. Ma il terzo, il terzo colpo si schiantò su di me e, in due, tagliò di netto il mio scudo. Caddero, le due metà, e risuonò, nella polvere, il bronzo tremendo. Quel suono congelò ogni cosa. Si fermarono il vento, e l’aria, e la corsa dei pianeti, e l’incedere del tempo, e la vita tutta. E ogni cosa rimase immota. E immota rimasi io: senza protezione né scampo. Ero sconfitta. Vinta e felice di esserlo.

Ma la furia che si accende come un incendio, che rende sordi, e ciechi, e pazzi, non si può, con un soffio, spegnere; così come i cani non si placano una volta raggiunta la preda, ma eccitati, dall’odore del sangue, prima piccoli morsi, e poi brandelli più grandi, staccano dalla sua carne, e sempre di più quell’odore e quella vista ne eccita il potere e la forza, e ringhiando, ne smembrano il corpo, così, quando ero io oramai piegata ai tuoi piedi, pronta a darmi completamente a te senza vergogna, e piegando il capo e feci per slacciarmi l’elmo in segno di resa, fu allora che la punta affilata della tua lancia mi aprì uno squarcio di stupore nel collo.

Primo fu il colpo, non il dolore. Quello venne dopo. Subito fu come se, per un lungo attimo, la carne avesse conservato memoria di sé e non si fosse accorta dello sgarbo; ma l’urto mi spinse indietro e caddi con tonfo potente che incollò le mie spalle alla terra. Si alzò la polvere me tutt’attorno. Dopo, fu il caldo del sangue che usciva, e tirava via, dal collo, col caldo, la vita, mentre fredda entrava la morte. Solo allora, in ultimo, arrivò il dolore e fu lanciante e brutale. Inarcai il corpo e lanciai un lungo latrato come bestia ferita a morte.

Fu lì, Achille, lì che ti risvegliasti dalla tua furia tremenda. La furia che ti stava lasciando, la vedevo abbandonarti le spalle. Marte ti lasciò nelle mani di Eros. E tu vedesti, per la prima volta, Pentesilea che, la bocca piena di sangue, gorgogliava ancora parole dolcissime implorando un tuo bacio. Allora sentii le tue mani su di me. Le tue mani che slacciavano la mia armatura. La mia armatura che veniva buttata a terra. Mi prendesti tra le braccia e mi facesti bere dell’acqua dal tuo elmo che avevi riempito delle onde dello Scamandro. Fu lì che mi baciasti. E io vidi, come mi baciasti. Piangendo, piccolo eroico Achille. Vidi la tua bocca diventare rossa del sangue che la mia aveva tutta invasa. E poi gridasti anche tu, come una bestia impazzita, tutto l’orrore e tutta la pena della guerra. Tutta la pena e tutto l’orrore del non capire perché si debba uccidere per dover amare. Perché si debba distruggere ogni cosa che si desidera. Perché si debba aver bisogno di un cuore che si ferma per sentire il proprio che batte.

Quanto dolore evitabile, Achille. Quante carezze perdute. Quante occasioni sprecate. Risparmiamo sui sentimenti, ma non sono monete che puoi mettere da parte. Vorrei abbracciarti, adesso, e piangere assieme a te e dirti che non fa poi tanto male, che sono felice di averti conosciuto, ma dalla mia bocca non escono più parole. Prendimi la mano, stringimela. Così, più forte, Achille. Tienimi stretta. Di più. È notte. Ho tanta paura.

Biografia

Francesco Scarrone ha scritto per il teatro e per il cinema. Ha sceneggiato The Repairman per la regia di Paolo Mitton e 1978, Vai piano ma Vinci (Nomination David di Donatello 2018) per la regia di Alice Filippi, Fuori Onda (Regia Nicoletta Polledro) e SIC (Regia di Alice Filippi, di prossima uscita su Sky cinema). Arno Klein e Il Mulino di Amleto hanno rappresentato molte delle sue opere teatrali. Ha scritto Ecuba – ovvero il banchetto dei morti per Franca Nuti. Ha rivisitato Alice nel Paese delle Meraviglie per la regia di Marco Lorenzi in una produzione del Teatro Stabile di Torino. Ha scritto inoltre tre libri, Di lama e d’ocarina, edito dalla Gorilla Sapiens edizioni, Dublino 90 per la Rogas Edizioni e LAllestimento, pubblicato dalla Vogliono Editrice.

CINEMA

The Repairman, regia di Paolo Mitton, 2013

’78, Va piano ma Vinci, regia di Alice Filippi, 2017 (nominato ai David di Donatello 2018)

Fuori Onda, regia di Nicoletta Polledro, 2018

SIC, regia di Alice Filippi, 2021

TEATRO

Seguendo il sentiero dei nidi di ragno, Arno Klein, 2008

Fleurs, Arno Klein, 2009

Roma Criminale, Il Mulino di Amleto, 2009

Per Ecuba, ovvero il banchetto dei morti, Il Mulino di Amleto, con Franca Nuti, 2010

Storie Nascoste, Arno Klein, 2010

Goodnight Ladies, Il Mulino d’Amleto, 2011

Un destino dispettoso, Arno Klein, 2011

Un’isola affollata, Arno Klein, 2011

Il più grande tanguero della Pampa, Mamagre e Elena Griseri, 2013

Quel tetto maestoso di fuochi dorati, Il Mulino di Amleto, Planetario di Torino, 2016

L’allestimento, Elena Griseri, 2017

Alice nel Paese delle Meraviglie, Teatro Stabile di Torino, 2018

BEA, di Mick Gordon, Mulino ad Arte, 2019 (TRADUZIONE)

Fioretto o Merletto, Les Chevaliers des Roches Rouges (testo in Francese e in Italiano), 2019

NARRATIVA

Di lama e d’ocarina, Ed. Gorilla Sapiens, 2012

Dublino 90, Ed. Rogas, 2017

Di lama e d’ocarina, (Edizione aggiornata con l’aggiunta di 8 testi inediti), Ed. Rogas, 2020

LAllestimento e Per Ecuba, Ed. Voglino, 2021

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