Paesaggio – Un’autobiografia. 2022. Sirio Ansaldi (Verona, 1948). Olio su Tela. Collezione privata

Paesaggio – Un’autobiografia. 2022. Sirio Ansaldi (Verona, 1948). Olio su Tela. Collezione privata

 

di Stefano Marino

 

Trovarsi davanti la tela bianca rimane la sensazione più bella e terrorizzante che io riesca a provare nella mia vita. La guardo e vedo il vuoto. Un vuoto che, per definizione, va riempito e violato. È da un po’ che ho in testa quest’idea: un paesaggio, il mio paesaggio. Impresso sulla tela in modo classico, quasi anacronistico, come non si fa più. Non voglio ritrarre proprio un paesaggio interiore, è qualcosa di diverso: è un’autobiografia fatta a paesaggio. Io sono un pittore e per scrivere la mia autobiografia devo dipingere, ma non dipingere un autoritratto – non mi basta e non è quello che voglio – voglio rappresentare il paesaggio della mia vita in tutta la sua vastità. La mia nascita, nel marzo del 1948, è lo specchio di un fiume in mezzo a un prato, verde, rigoglioso, con l’impeto di una primavera appena sgorgata ma già inscalfibile. Una Nascita di Venere in un bosco, con l’acqua dolce al posto di quella salata, e senza Venere né conchiglia, solo natura. Parto dalla sinistra della tela a spennellare. Voglio essere didascalico, ovvio, leggibile da sinistra verso destra, come qualsiasi storia occidentale e questa è la mia, di storia. La mia infanzia fu felice. Tanto. Crebbi a Verona in anni in cui tutto sembrava possibile, c’era mia madre, donna bellissima, casalinga da dopoguerra tempestata di sorrisi: cespugli di peonie intorno al letto del mio fiume. Poi mio padre, avvocato, che della guerra non volle mai parlare. Austero, burbero, presente come lo erano i padri di quella generazione: nell’ombra ma a cui non sfuggiva niente e niente faceva mancare. È lo sparviero che tutto vede e vola su di noi, sopra il fiume, sopra la vegetazione, sopra le peonie, si abbatte in picchiata per proteggerci da ogni cosa possa minacciarci e, prima ancora di poterlo ringraziare, è già tornato in cielo, irraggiungibile e schermato. Nel 1961 iniziai il liceo artistico: mi era già chiaro che la mia felicità potesse essere solo lì, tra i colori, i disegni, il bianco del foglio. Le lotte studentesche dovevano ancora arrivare, in quegli anni ci sentivamo tutti uguali, ugualmente felici e liberi di fare ciò in cui credevamo. Per me, l’adolescenza non fu un periodo turbolento. Non vedo nessuna turbolenza nel provare i primi fremiti d’amore, di eccitazione e ribellione. Vista con i miei occhi di anziano quella non è turbolenza ma bellezza, bellezza rigogliosa, come un prato infestato da faggi, dove crescono porcini pregni di rugiada che cola dalle cappelle e così grossi che anche mentre li disegno mi sembra di sentirne l’odore. I funghi della domenica a pranzo, nel sugo rosso che accompagnava la polenta e che mangiavo, ingozzandomi, per uscire di casa il prima possibile per andare a giocare a pallone, fumare e ammirare le ragazze, cercando il coraggio di dir loro tutte quelle frasi che erano semplici solo nei miei sogni. Furono anni indimenticabili e spensierati.

 Nel 1970, mentre muovevo i primi passi nel mondo dell’arte, trasferitomi a Milano, dopo aver scelto di non continuare gli studi a diploma conseguito, i miei genitori morirono in un incidente stradale. Quel periodo per me è confuso: vivevo in una condizione altalenante tra il dolore e un dolore ancora più grande; non c’era mai tregua, tanto che il normale dolore, quello che non ti fa dormire né respirare, sembrava quasi essere un sollievo. Ricordo benissimo il loro funerale: era una giornata tersa di rara bellezza, di quelle che non andrebbero bene per girare la scena di un funerale in un film. All’orizzonte nessuna nuvola, solo l’azzurro e la luce tutt’intorno. C’era tanta gente – troppa, mi sembrò. Sul momento fui scocciato da tutta quella partecipazione, avrei preferito stare solo col mio dolore e le loro bare, ma poi, con gli anni, ho iniziato a esserne fiero. Fiero che la morte dei miei avesse richiamato così tante persone, come se tutte quelle presenze fossero un attestato di quanto di buono loro avessero fatto in vita. Sulla mia tela, quell’evento è un temporale nella brughiera, proprio quel temporale che quel giorno non c’era e avrei tanto desiderato vi fosse, anche solo per far rimanere a casa più persone possibile. Sul quadro inizia a esserci una schizofrenia climatica, con quella faggeta luminosa che va a immettersi nella brughiera più oscura. L’effetto mi convince.

Riuscire a mantenermi come pittore fu la sfida più difficile che dovetti affrontare, capii di avercela fatta nel 1978 quando mi licenziai dal lavoro in tipografia a causa della vendita di tre mie opere. Da quel momento avevo capito di potermi mantenere con l’arte. Fu una sorta di scalata ma arrivare in vetta fu una delle più grandi emozioni della mia vita. Ricordo l’epifania di quel giorno, quando incassai l’assegno. Ero diventato veramente un artista, ora potevo farlo scrivere sulla carta d’identità, risponderlo alla domanda “che lavoro fai?”. Mi sentivo finalmente legittimato. Questa mia autobiografia paesaggistica, dicevamo, è didascalica e lampante. È il paesaggio di un’intera esistenza di alti e bassi, come quella di qualsiasi essere umano: e a un alto corrisponde una montagna. La vetta della mia vita, la mia montagna scalata. Una montagna senza neve dove sulla cima batte un fascio di luce, come in quelle rappresentazioni religiose della chiamata di Dio. Un fascio di luce che è il mio diventare ufficialmente un artista ma, soprattutto, il mio aver conosciuto Linda, la donna che comprò quei tre quadri e che divenne mia compagna di vita. Linda è il mio vero momento di maggior vicinanza al cielo e al divino. Lei è quel bagliore che investe e dice: “tra tutti ho scelto proprio te”. Una montagna ha una salita e una discesa, nelle rappresentazioni stilizzate fanciullesche è un triangolo isoscele. Nei miei anni con Linda, però, non vi fu mai discesa ma solo cima. Pertanto da quella prima montagna faccio partire una catena montuosa, con una vetta dietro l’altra. L’Himalaya della mia storia d’amore con Linda: sempre in alto e vicini a Dio. Rimanemmo insieme quarant’anni, io e lei, soli, isolati dal mondo, bastandoci l’uno all’altro. Non avemmo mai figli e non so neanche spiegare il perché. Non fu né una scelta consapevole né altro. C’eravamo semplicemente solo io e lei, in opposizione al mondo e in concorrenza con il divino. Due anni fa le hanno diagnosticato il morbo di Alzheimer. Linda, ora, non mi riconosce più. Le rare volte che mi chiama, lo fa usando il nome di suo padre. Dal momento di quella maledetta diagnosi, la mia catena montuosa si interrompe e inizia a scendere verso il livello del mare: la disegno incidendo la tela con la matita, come un grossolano imitatore di Fontana. Poi le pennellate isteriche, per ricongiungere il fianco della montagna con la terra. L’inizio del mio Himalaya era dipinto in modo realistico, particolareggiato, avevo addirittura fatto attenzione alla tipologia di flora che vi andavo a inserire. La fine, invece, è espressionismo, surrealismo, colori che poco hanno a che fare con la montagna e tanto con la disperazione. Dove la montagna si ricongiunge con la terra, uso il bianco. Come se il freddo e la neve fossero in basso, non ad alta quota, è un bianco composto da più linee sgangherate, quasi un’acromia manzoniana. Nel punto in cui la montagna tocca terra, faccio iniziare il mare, che si perde a vista d’occhio fino a raggiungere il limite destro della tela. Quel mare sono io, ora. Ora che mi sento di aver dato tutto, di aver completato il percorso di vita per me stabilito e ne sono felice. Non ho rimpianti: rifarei tutto nella stessa maniera. Il mare sono io adesso, quindi la fine. Guardo la tela piena del paesaggio della mia vita e ne sono soddisfatto. Ci vedo tutto quello che sono stato e per me è riconoscibile. È la mia vita come meglio non avrei potuto rappresentarla. Manca solo un’ultima cosa: ogni fiume deve sgorgare in mare. Collego l’estrema sinistra della tela con la destra: lo specchio d’acqua della mia nascita, con il mare del mio ora. Nascita. Morte. E in mezzo qualche vetta che solca la tempesta. È tutto qua.

 

Biografia

Stefano Marino nasce a Cuneo nel 1988, per mantenersi fa l’architetto ma, quando gira bene, scrive. Ha scritto per: Nazione Indiana, Doppiozero, Narrandom, L’Indiependente e The Vision.

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