“Nessuno lo sa”. La poesia allo specchio. Dialogo con Roberto Crinò

di Giorgio Galli

 

Immagini di Ikenaga Yasunari

 

“kintsugi (金継ぎ) o kintsukuroi (金繕い), letteralmente ‘riparare con l’oro’, è una pratica giapponese, consistente nell’uso di oro o argento liquido per la riparazione di oggetti in ceramica. L’impiego del prezioso metallo per saldare assieme i frammenti, permette di ottenere degli oggetti di valore sia dal punto di vista economico, sia da quello artistico: ogni ceramica riparata presenta un diverso intreccio di linee dorate unico ed irripetibile per via della casualità con cui la ceramica può frantumarsi. La pratica nasce dall’idea che dall’imperfezione e da una ferita possa nascere una forma ancora maggiore di perfezione estetica e interiore. L’arte del kintsugi viene spesso utilizzata come simbolo e metafora di resilienza”. In questa nota a piè di pagina, Roberto Crinò sembra fare una dichiarazione di poetica: la sua poesia, pare dirci, muove da una frattura dell’esistere e cerca di ricostruire la bellezza proprio dal punto in cui è stata infranta. L’esperienza da cui prende le mosse Verrà ottobre (Eretica, 2021) è quella della pandemia. Il titolo fa riferimento al mese di ottobre 2021,  termine inizialmente fissato per lo stato d’emergenza -un termine ormai superato dai fatti.

Formalmente, la raccolta si caratterizza per la grande eterogeneità nelle scelte di versificazione e nella lunghezza delle poesie -che vanno dall’haiku al poemetto- e al tempo stesso per un’unità stilistica garantita dall’adozione di un linguaggio stratificato, irto di preziosismi, ma qua e là affacciato sulla gergalità del parlare comune. Un linguaggio artificioso, innaturale come innaturali sono le esperienze cui la pandemia ha dato vita -il distanziamento sociale ecc. Traspare un’idea di letteratura calata nella cronaca, ma senza i toni accesi o solenni tipici della poesia civile tradizionale: al contrario, prevale un barocco funereo che sembra avere come antecedente illustre la poesia civile di Pasolini.

La tua raccolta, sebbene abbia come filo conduttore il tema del tempo di pandemia e delle sue implicazioni antropologiche, affronta una vasta gamma di situazioni umane, anche le più oscure (penso alla poesia dedicata a Primo Levi, che fa chiaramente riferimento all’esperienza dei lager nazisti). È come se tu volessi dire che c’è una cesura fra tutto il prima e tutto il dopo di questa pandemia. La mia domanda vuol essere provocatoria: non ti sembra di esagerare? Perché l’esperienza pandemica avrebbe inciso così a fondo sul nostro modo di concepire noi stessi e il mondo, da poter essere messa accanto a spartiacque assoluti della storia?

Ma no! La mia, corre proprio il caso di dirlo, è solo una provocazione. Che evidentemente coglie nel segno, se suscita, a tua volta, la tua “provocatoria” domanda, che in fondo trovo lecita. Lasciami citare Pessoa, che diceva: Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente”. Il dolore per la pandemia, per la chiusura, per la lontananza forzata, lo shock per un’esperienza priva di precedenti, almeno per chi è nato abbondantemente dopo la seconda guerra mondiale in questa parte di mondo, la paura o almeno il timore iniziale dovuto all’incertezza su tutto, mi ha colpito, ci ha colpiti davvero. Si pensava all’inizio potesse anche segnarci, e chissà che in qualche modo non sia così, anche se non è dato a noi saperlo, ma di ciò sapranno dirci meglio i nostri posteri. Ammettiamolo, sinceramente, la prima chiusura, quella che ci ha negato la primavera del 2020 ci ha spiazzati e sgomentati, poi, giacché l’essere umano, per fortuna, per spirito di sopravvivenza, si abitua a tutto, abbiamo cominciato a convivere più o meno fatalisticamente, più o meno scientificamente (nel senso etimologico del termine, avendo conosciuto meglio il problema e avendo approntato dei vaccini potenzialmente efficaci) e più o meno desensibilizzati con il virus e soprattutto con la sua narrazione. Queste poesie si riferiscono alla prima ondata di pandemia, alla più ignota e per questo più dannosa, anche psicologicamente. Si pensava, o almeno questa era la mia sensazione, ma non ero l’unico, che questa pandemia rischiasse di essere davvero uno spartiacque temporale. Per fortuna non è stato così, o purtroppo… a seconda della prospettiva con cui leggiamo i fatti. Forse potremmo anche aver perso un’occasione per essere migliori, ma c’è ancora, per chi vuole, spazio per la speranza… “ottobre”, ovvero quella stagione di matura e consapevole rinascita, deve ancora venire.

Tu usi spesso un lessico arcaizzante, ami le paronomasie e il tuo lavoro si caratterizza per una certa ricercatezza, al limite dell’artificio. Ci spieghi il perché di queste scelte? Hanno a che fare con il tuo modo di intendere complessivamente la poesia o il loro senso va trovato in relazione alla tematica che affronti?

Si tratta soltanto di una sorta di ludus, vedi! Anche qui, forse, mostro la mia, non voluta, tendenza arcaizzante, come hai notato tu. Mi viene spontaneo l’uso del termine latino in vece di “gioco”. Ma la sostanza non cambia. È indubbio che, da insegnante di italiano e latino al liceo, abbia una sorta di “deformazione professionale” e insieme una significativa “aderenza identitaria e professionale” con le discipline che insegno e con le atmosfere che queste evocano. Vorrei però sottolineare quanto, fatta salva l’importanza dei modelli classici, dei canoni, dei paradigmi stilistici e lessicali, mi sia del tutto chiara, e nella teoria e nella prassi, la necessità di ricondursi al proprio tempo. Intendo dire, che quel “vezzo arcaizzante e artificioso” che tu ravvisi nel mio lessico e che tanto a me piace, oltre ad essere una mia cifra stilistica, a cui per altro tengo, oltre a essere un gioco, dal quale più o meno volontariamente e spontaneamente scaturiscono paronomasie, metonimie, sinestesie, anafore e quant’altro proprio dell’apparato tradizionale, è talvolta frutto di un voluto e stridente atto di protesta verso una certa modernità anonima, frammentata, priva di identità e “anti-poetica”. D’altronde è anche vero ed evidente che, seppur il mio universo di riferimento sia quello classico, di certo non assolutamente classici sono i risultati cui approda la mia poesia, intrisa di elementi lessicali arcaici sì, ma scevra da una versificazione e da una sintassi canonica. Credo si possa ben dire che nel mio stile cerco di trovare un punto di equilibrio, un “centro di gravità permanente”, che poi è la stessa cosa cui miro nella mia vita. Ecco quindi, quale penso possa essere il modo in cui intendo la poesia: necessità di scrivere, di esternare le voci di dentro, che tramite un processo di “incorporazione” si manifestano e necessità al contempo di armonizzare tutto in modo equilibrato ed equidistante, in una via mediana tra antico e moderno, dove un senso della misura di cogente urgenza dia senso all’esistenza del verso e a quella di chi lo crea. Non c’è nulla di artificioso o ampolloso, almeno questo è ciò a cui miro. Poi, se nella pratica ci riesco, non sta a me dirlo, io posso solo cercare di evolvermi, di non restare fisso a nulla, a nessun dogma o certezza. Mi piace il gioco di suono che si può creare con le parole, sperando che non sia stucchevole, cerco di attagliarlo al contesto, ma la tematica che affronto non è sempre vincolante.

“Tu eri vicolo cieco. / Eri notte senza stelle. / Eri miraggio nel deserto. / Tu, arsura d’assetato. / Tu, rancido cibo. / Tu eri maschera d’inganno gaudente. / Tu eri il nulla in trionfo. / Tu, maga della penuria. / Seme sterile. / Idolo muto, vuoto. / Assistente di schianti. / Maîtresse di veleni. / Eri tu.” Nella tua poesia troviamo spesso il capovolgimento ironico di topoi tradizionali. Nel componimento che ho citato, in particolare, trovi accenti quasi baudelairiani -e Baudelaire era il poeta che rifiutava in toto il suo tempo. In un’altra poesia, intitolata Cont’agio, scrivi: “Vera malattia / del nostro tempo / è l’ottusa fede / nella bella stagione / tutto l’anno, patologica religione / dell’ebete sorriso ottimista, / del vacuo, ignorante turista, / l’uomo consumatore, qualunquista”. Mi è ben chiara la tu condanna integrale di un’epoca che ritieni sbagliata. Ma cosa si salva? 

Si salva intanto la capacità e la possibilità dell’attenta osservazione e critica di tutto ciò che ci circonda e che è decisamente brutto, sbagliato, inaccettabile. Non voglio fare facile retorica, né pontificare, ma credo sia sotto gli occhi di qualunque persona di buon senso, di chiunque viva la letteratura, l’arte, la poesia, la musica, come irrinunciabili potenti mezzi di espressione artistica, quanto l’annichilimento, l’abbrutimento, l’imborghesimento retrivo e anestetizzante dei nostri tempi appiattiti su un pernicioso “presente social e cortilesco”, che già Baudelaire a suo tempo denunciava, dato che lo citi e contro cui Peppino Impastato ha speso la propria vita (infatti cos’altro è la barbarie mafiosa, se non bruttezza, errore, annichilimento, rassegnazione), stiano deprivando tutti noi della capacità discernente, di osservazione critica, di partecipazione empatica, di umanità. Io desidero nostalgicamente un mondo diverso, che probabilmente, anzi certamente, non è mai esistito, con buona pace di tutti i miti dell’oro e del buon tempo antico. Io guardo indietro ad un passato idealizzato nella sua semplicità (che era anche ferocia), nella sua genuinità (che era anche cinismo) per poter continuare a sperare in un futuro dove ci siano semplicità senza ferocia e genuinità senza cinismo. Pura utopia, ne sono consapevole, ma da esseri umani, non credo abbiamo altre alternative, se vogliamo tenerci sull’antica strada maestra dell’umanità, quella da cui proveniamo. Ciò che si salva e che va salvato è dunque la nostra potente capacità di indignarci, di sbeffeggiare, di irridere, di sperare e se ci pensi tutto ciò non è altro che quella “miscela esplosiva” dell’animo umano che, in ogni tempo e in ogni luogo, ha dato vita alla creazione artistica. C’è poesia lì dove non ci sono rassegnazione e indifferenza.

La speranza, in molte tue poesie, si identifica col ritorno al passato, con un azzeramento del tempo. Sembra sia all’opera una dinamica età dell’oro-decadenza tipica del pessimismo europeo novecentesco. È così?

Sì, è così. Anche se non mi piace chiamarlo pessimismo. Considero pessimista colui o quella idea che nega la possibilità di qualcosa di meglio a fronte della patente presenza e possibilità di ciò che è effettivamente meglio. Ma quando il miglioramento è di là da venire, nebuloso, incerto, non scontato, né automatico nei suoi esiti, quando questo ancora non c’è, non è palpabile, né tanto meno possibile pensarlo, allora la critica e la condanna di un presente oscuro e tragico, malato e decadente non è pessimismo, ma realismo, doveroso, puro, onesto, coraggioso realismo. Carl Gustav Jung ci mostra come fintanto che l’individuo non riconosce e non è consapevole di stare male, non può iniziare il suo processo di guarigione. Se non discendiamo nei “nostri inferi”, non possiamo sperare in una risalita. Ora, per riconoscere che abbiamo un problema (ma in realtà ne abbiamo tanti, più di uno), ci vogliono coraggio e onestà, due qualità che, credo, manchino agli “attori” dei nostri tempi. Non si tratta di essere Cassandre, ma di guardare coraggiosamente in faccia il “mostro” e riconoscere in lui, con amarezza certo, ma anche desidero (titanico?) di riscatto, noi stessi. Solo così si può, io ritengo, iniziare un percorso di risalita. Non pessimismo dunque, ma coraggioso realismo, ovvero l’insegnamento di Leopardi.

Dalle tue parole sembra trapelare, rispetto all’approccio adottato in tutto il mondo alla pandemia, una posizione simile a quella del filosofo Giorgio Agamben: la pandemia come occasione per una rinuncia mondiale all’identità. In una poesia paragoni la liberazione dalle misure pandemiche alla Liberazione. Su quali fondamenti poggia questa tua convinzione?

Nelle mie poesie ci sono poche certezze. In quelle poche liriche in cui sembro mostrare una posizione certa, sicura, priva di dubbi, che poi sono quelle poesie di condanna e di critica sociale, rivendico semplicemente il diritto alla ὕβϱις, hýbris, che per sua natura è momentanea, passeggera, del dissenso. Passata questa ebbrezza della reazione immediata a ciò che ci offende, ci vincola e ci limita, torno a quella ricerca di equilibrio, di quel senso della misura, di quella via mediana, di cui parlavo prima, che è la sola possibilità di mantenimento di un dialogo col mondo, l’unica sincera e vincente scelta umana che abbiamo. È chiaro che la Liberazione che si celebra il 25 aprile, è ben altra e più importante cosa rispetto alla tanto agognata liberazione dai limiti imposti dai vari DPCM, che abbiamo avvertito tutti nel periodo della chiusura forzata. Lo dicevo però prima, in occasione della mia risposta alla prima domanda, il dolore per la pandemia, per la chiusura, per la lontananza forzata, lo shock per un’esperienza priva di precedenti, almeno per chi è nato abbondantemente dopo la seconda guerra mondiale in questa parte di mondo, la paura o almeno il timore iniziale dovuto all’incertezza su tutto, ci hanno colpiti davvero. Io direi però che, più che un paragone tra misure di contrasto alla pandemia, almeno nella primissima esperienza della primavera del 2020, cui per altro parte di queste liriche si riferiscono, e oppressione dell’invasore straniero, ciò che era mio intento mettere a confronto tra i due eventi storici, seppur nelle loro significative e evidenti differenze di contesto e situazione (dove quella della guerra è ovviamente peggiore) è il sentimento di cupa oppressione, di repentina privazione della propria libertà di movimento, l’impossibilità di delimitare questa condizione di sospensione dei propri diritti. Ribadisco che quanto accaduto con la prima chiusura della primavera del 2020 non ha precedenti nella nostra storia post-bellica. Pertanto il paragone più aderente, almeno rispetto alla mia sensibilità, è quello relativo al concetto e all’essenza del Resistere. Resistere contro questa chiusura forzata, come contro un nemico invisibile e assediante già fuori dalla porta di casa; resistere contro la distanza sociale e l’impossibilità di contatti; resistere contro l’alienazione da reclusione; resistere… dove però è chiaro che farlo su un divano è ben altra cosa che farlo dietro un filo spinato. Penso tuttavia che, per il periodo successivo di questa pandemia, che dopo due anni, non è comunque finita, fosse necessario spostare il focus del problema e rimodulare le azioni di contenimento ad esso. Penso sia di vitale importanza liberarsi da psicosi e paure smodate, quindi tornare sempre sulla “strada maestra di un sano senso della misura equidistante dagli estremi accecanti”.

 

Verrà ottobre

e sarà fragranza

di tempi lenti

e buoni venti,

la cicala ancora canterà,

mentre gli ulivi,

carichi di antichità,

riveleranno consapevoli verità.

Verrà ottobre

e avrà del canto

eburneo manto,

foglie rosse vino

di pace e sincerità

riposeranno,

gravida vitalità,

e la luce lieve

notti afose disperderà.

Verrà ottobre

e saprà di quiete,

matura onesta requie,

dopo rancorose

canicole e immobilità

d’onuste stagioni

d’accecante aridità,

ritorneranno

raccolti di nuova intimità.

*

Nessuno lo sa,

lo sapessero almeno i pollini

nel loro disperdersi col vento,

porterebbero la forza

dei sospiri inconfessati

alla luce dei nostri giorni.

Nessuno lo sa,

lo sapessero almeno gli stormi,

che veloci e ordinati in cielo

attraversano i continenti,

canterebbero ardenti

la verità di segrete ore.

Nessuno lo sa,

lo sapessero almeno le candele,

su torte di compleanni storti,

tra coda e capo di anni avvolti,

in coltri di lussureggiante

porpora e organza di baci.

*

Nostalgia di giorni

appesi su fili di

biancheria al sole,

caldo tepore di

brezze e leggerezze

d’istanti distanti,

nel tempo remoto

d’erose risa rosate,

di vini veri avìti,

effluvi d’ore a venire,

non ancora avute,

come succo spremute.

Resta una sete d’attimi

a colmare arsure di

giorni senza ritorni.

 

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