Il nome degli uccelli

racconto inedito di Stefania Marongiu

fotografia in copertina di Monica Taverna

 

– Stamattina ho visto un’ upupa– dice Alice. – Ero seduta alla fermata dell’autobus e si poggiata sul marciapiede. E mi ha guardata!–. Lorenza sputa il fumo in aria e fa come uno sbuffo, perché le è venuto da ridere. Alice le rivolge un sorriso tremolante, non ha nulla di divertito. Non le piace che qualcuno si prenda gioco delle sue storie ingenue, come le chiamo io. La prima volta che ho usato questa espressione l’ho guardata con timore, perché non volevo offenderla e perché lei diventa livorosa, quando qualcuno non la prende sul serio. – La piccola divinità del malumore– Francesco la chiama così, uno dei tanti soprannomi che usa per blandirla e riconquistarla, ancora e ancora, ogni volta che l’abbandona. Francesco, che stiamo aspettando sedute al tavolo di un bar, e lui come al solito non arriverà, anche se le ha dato un appuntamento, anche se le ha assicurato che non mancherà a questo film. O un concerto, o una cena, o una festa. Lei è già turbata, ha bevuto due bicchieri di rosso che le hanno acceso le guance e velato gli occhi. Prevede che lui non apparirà, eppure continua a immaginarselo. I vestiti, il sorriso, quel tic di massaggiarsi il braccio sinistro.

– Ma poi– esclama Lorenza, seria e pedante – Com’è un’upupa? Cosa ne sai?–. La provoca; le attese di Alice, il suo sfacelo e il suo fastidio, la sfiniscono. Alice ci chiede spesso di accompagnarla, quando esce con lui, come se volesse dei testimoni, perché non sa raccontare a parole l’inganno che lui riesce a personificare. I nomignoli e il non arrivare mai, i complimenti e il telefono spento per ore.

– Lo so cos’è– dice lei, i capelli che le ondeggiano attorno alla testa, sinuosi come alghe nelle onde – Ho cercato su internet–. Allunga il braccio verso di noi, brandendo il cellulare, e rovescia un bicchiere, che si frantuma sul lastricato in cocci luccicanti. Le persone accanto a noi per un attimo hanno un sussulto. Lei si guarda intorno, imbarazzata. Lorenza afferra il telefono e dice, per farsi perdonare – Come si spaventano per un bicchiere rotto– e le fa un mezzo sorriso, per consolarla. Vado a prendere scopa e paletta, il barista lo conosco. Quando torno loro due hanno le teste vicine, osservano la foto di un uccello con una cresta arancione a macchie castane. Ha l’occhio nero come una biglia piena di inchiostro. Il becco sottile, adatto a infilzare insetti. – Qui si sta mangiando una crisalide– dice Lorenza, fissandomi negli occhi. Succede spesso; Alice comincia a parlare di una cosa che non sembra avere alcun interesse, ma poi le sue parole si intrecciano rapide come un filo battuto a macchina. Lei parla e fa schioccare la lingua, muove sempre più velocemente le dita e gli occhi e l’ago della sua voce punge la nostra attenzione, finché la sua storia diventa uno strano canto, qualcosa che non conosciamo ma che improvvisamente ci ricorda qualcosa, oppure l’annuncia.

Succede anche adesso che legge la voce di Wikipedia con il dito alzato verso il cielo, che sta diventando blu scuro, il sole scompare dietro ai tetti – In Europa centrale le upupe vengono considerate uccelli ladri al pari delle gazze, mentre in Scandinavia l’avvistamento di un’upupa era associato a una guerra imminente, a causa dell’associazione del verso di questi uccelli col grido di guerra Hip hip. Nei Paesi baltici, l’upupa viene considerata in grado di stabilire un contatto fra il regno dei vivi e quello dei morti, ed udirne il canto è presagio di morte di uomini o animali. Anche in numerosi altri Paesi sentire il canto dell’upupa al tramonto è considerato un presagio di sventura–. La parola “sventura” le fa girare lo sguardo verso la strada, là dove Francesco non appare. Beve un altro sorso di vino. Siamo ossessionate dai segni, che si sparpagliano davanti ai nostri occhi. Casualmente, senza significato se non per chi sappia interpretarli. È solo un modo per sperare, un pensiero magico che ci dia buonumore nelle giornate che paiono non avere niente da raccontare. Ma a volte il gioco dei segni del destino non ha niente di promettente. Infatti Francesco non arriva, la sera si è tramutata in notte, i nostri piedi sono diventati gelati a furia di stare sedute al tavolo fuori dal bar, che nel frattempo si è riempito di gente che fa tintinnare i bicchieri e non bada più se qualcuno ne fa cadere uno. Vorrei andare a letto, tornare nella mia stanza calda, ho l’impressione che la serata non porterà niente di luminoso. Lorenza ha acceso un’altra sigaretta, si guarda intorno infastidita; lei la malinconia data dall’insoddisfazione la sostituisce con il disprezzo per le persone, che la maggior parte delle volte paiono solo annoiarla. Alice si è alzata ed è andata a salutare i compagni di corso, proprio quella gente che Lorenza sta osservando con stizza.

Per sottrarmi alla fatica che mi suscitano l’allegria strascicata di una e la noia crescente dell’altra, continuo a leggere la voce di Wikipedia, perché il pennuto dal becco crudele sembra essere un approdo, anche se infausto, nel gelo che la notte sta portando – Nella mitologia greca e latina l’upupa è invece ritenuta un essere spregevole: nelle Metamorfosi di Ovidio, ad esempio, il re di Tracia Tereo quando la moglie Procne (venuta a conoscenza dello stupro della sorella Filomela da parte del marito) gli serve delle pietanze cucinate con la carne del loro figlio Iti, tenta di ucciderla e viene tramutato in upupa, mentre Procne diviene una rondine e Filomela un usignolo. La scelta dell’upupa da parte degli dei avviene in quanto la cresta di questo uccello indica la regalità, mentre il becco lungo e appuntito richiama la natura violenta di re Tereo–. Alzo lo sguardo verso Alice, ferma in piedi accanto a un tizio rasato che le porge un accendino. Ma i suoi occhi seguono qualcosa che si muove oltre le mie spalle e che ora anche Lorenza guarda, seduta di fronte a me. Giro il collo. Su una bici, curvo sul manubrio, con i lampioni che lo illuminano di una luce rapida, Francesco sfreccia di fronte alla calca e non si ferma.

– Dio santo Alice, che sarà mai– Lorenza inveisce verso la strada deserta, ora che ci siamo allontanate dal bar, in direzione di un luogo che non abbiamo ancora deciso.  Non la guarda e lei non parla, non reagisce, ogni tanto scuote appena la testa. Allora accompagniamo il suo silenzio e nella quiete della via dritta, punteggiata solo di finestre con le luci accese, io mi rigiro in testa la storia di Filomela e di Procne – Filomela, mitica figlia di Pandione, re di Atene, sorella di Procne. Il re trace Tereo, marito di Procne, dopo aver comunicato la falsa notizia della morte di questa, chiede in moglie Filomela; ottenutala, la conduce in una stalla e la violenta, poi le taglia la lingua perché non possa accusarlo. Filomela però, abile tessitrice, riproduce la triste storia in un ricamo, mandandolo a Procne e questa per vendetta, con l’aiuto di Filomela stessa, uccide il figlioletto Iti per poi darlo in pasto al marito–. C’è un quadro, di una pittrice americana, che ritrae le due sorelle, dove le due si guardano dritte negli occhi, senza offrire il loro sguardo a nessun altro, chiuse dentro fronde di alberi e cespugli fioriti. In un altro dipinto, stavolta di un uomo, entrambe hanno le facce sfigurate dal delirio, e una, probabilmente Procne, stringe la testa mozzata del figlio di fronte allo sguardo folle del marito. Anche Artemisia Gentileschi ha dipinto la stessa scena: il caos riempie lo spazio, vasi e scudi si accasciano gli uni sugli altri come se la terra stesse tremando, le due donne sono avvolte in drappi solidi che paiono scolpiti nell’aria, i visi sono inespressivi. Tereo, alla vista del bambino ucciso, si copre gli occhi, vigliacco.

– Alice, non puoi pretendere di cambiarlo. Sei tu che devi capire, che devi rompere questo meccanismo tossico– prosegue Lorenza. Ha deciso, stasera, di illuminarla, di farle un discorso che la faccia ragionare. A questa cattiva intenzione, costellata di buoni propositi, Alice continua a opporre il silenzio di labbra strette. Lorenza ci rinuncia. La lingua mozzata di Filomela, ha osservato qualche accademico, è simbolo di castrazione: Filomela è privata della voce e quindi insieme alla sorella decide di strappare a Tereo la sua potenza maschile, personificata nel figlio, che garantisce la successione.

Continuiamo a camminare. La città pare essersi svuotata, ma è solo un’illusione; al di là delle strade strette che si incuneano nel buio, la massa polverosa e ubriaca si sta accalcando nelle piazze e fuori dai locali, pronta a lanciare strida fino all’alba. In una serata diversa, ci saremmo infilate anche noi in quella ressa, per scaldarci, ma adesso, solo al pensiero, abbiamo tutte e tre una sensazione di claustrofobia. Eppure questa storia non riguarda né me, né Lorenza, ma solo Alice che, con le spalle rattrappite e il passo breve e isterico, non cessa di far riverberare onde liquide di furia, cancellando qualsiasi desiderio frivolo. Attraversiamo una piazza dove le radici degli alberi hanno frantumato l’asfalto. Nelle crepe si sono depositate bacche e foglie e infine sono cresciute piante sbilenche, indifferenti alla mancanza di acqua e terra. Alice si ferma e anche noi ci arrestiamo, d’altronde non abbiamo ancora deciso dove andare, e di tornare a casa non se ne parla. Lei però osserva Lorenza, con uno sguardo che pare attraversarla, come se non la stesse davvero guardando, come se fosse di fronte a uno specchio o a un vetro. All’improvviso comincia a parlare, una voce rauca e affaticata. Racconta di lei e Francesco a una festa dove noi non eravamo presenti. Di una serata in un locale sotto terra dove erano andati insieme e lui era sparito all’improvviso, con un’altra tizia. Di messaggi e di telefonate, nel cuore della notte. Trenta, quaranta messaggi. Venti, trenta chiamate, in una notte. Di una sera in cui due passanti si erano dovuti mettere in mezzo e lei era scappata a casa, sola, e si era infilata a letto strizzando gli occhi e dicendosi – Dormi, dormi, adesso dormi–. Di altre ragazze che apparivano e intorno tutti i suoi amici che sapevano e lui alzava le spalle o le intimava di non fare scenate. Di quello che le diceva quando era nuda. Di alcune volte in cui lei  aveva pianto. E di quanto ci avesse provato, senza sapere nemmeno lei perché. Alla fine, le parole si impastano con singhiozzi incontrollabili, che raschiano come unghie su un tessuto, e rimbalzano sugli alberi, fino a che uno stormo di uccelli, si sveglia e si alza in volo, frulla impazzito. Solleviamo gli occhi al cielo, sbattendo le palpebre per quel movimento intermittente.

Il locale è in cima a un sentiero di asfalto, che si tuffa nella salita della collina. Si ha l’impressione di non essere più in città, con il silenzio gravido del prato antistante all’ingresso che assedia le voci ridanciane di chi aspetta di entrare. La musica tracima fuori, bassa e pulsante. Ci siamo arrivate attraversando il ponte, il fiume sembrava una colata di petrolio, innervato di barbagli dorati, come pesci. Gettiamo uno sguardo sulla folla che ondeggia sulla pista con movimenti concentrici. In terra ci sono già cubetti di ghiaccio sciolti e cannucce calpestate. Qualcuno inciampa e ride. Ci immergiamo nell’aria calda e dolciastra, trattenendo il respiro. Qualche tizio ci passa accanto fissandoci negli occhi e mormorando saluti, che però non sentiamo per via del casino. Uno di questi mi sfiora il collo.

Francesco appare e scompare in mezzo ai movimenti casuali della gente, qualcuno alza un braccio e lo copre, qualcun altro si sposta e lui è proprio là dietro, dove prima un gruppo di gente ne impediva la vista. Fa finta di non vederci, improvvisa due battute con qualche amico, si copre gli occhi con la mano e scuote la testa, e poi gira le spalle. Alice ci rivolge un’occhiata, ora ha gli occhi puliti e luminosi come il fondo di un bicchiere. Andiamo al bar a prendere un gin tonic, appoggiamo i gomiti al bancone, senza dire niente, il corpo sfibrato ma teso. Poiché non partecipiamo alla festa, possiamo vedere come muta, man mano che le ore passano. Gli sguardi si fanno più vuoti oppure più larghi e accesi, c’è chi si annoia e si mette a braccia conserte, chi balla molleggiando sulle ginocchia e chiudendo gli occhi. Ragazzi e ragazze che si guardano, parlandosi vicini e l’attimo dopo si stanno baciando, alcuni a lungo, abbandonati gli uni sugli altri per dimenticare l’imbarazzo e l’emozione che fa passare la sbronza, altri brevemente, subito dopo ridacchiano, si guardano in giro, poco convinti. Qualcun altro osserva i baci degli altri da lontano, con partecipazione o addirittura con sgomento, si vedono le traiettorie che legano a casaccio persone nella stessa stanza. Intanto il vociare e la musica diventano un rombo, slabbrano i confini delle cose e del tempo e del sentire, tutto si fa liquido e appuntito, intenso e significativo, come se le persone qui dentro stessero capendo tutte qualcosa, nello spazio di un istante. Allora ballano più forte, ridono più forte, stringono le braccia degli amici e degli sconosciuti. Lorenza mi prende la mano e la scuote, all’improvviso sento un risucchio, il rumore brulicante di quelle epifanie non ancora comprese si ritrae, il sibilo che proviene dagli occhi spalancati della mia amica è un richiamo, una sirena. Alice si è già incamminata, bagnata dalla luce blu che fa diventare fosforescenti la maglia bianca, le sclere e i denti. La seguiamo.

Si infila nel corridoio dietro la console, piastrellato di nero, e poco più avanti a lei c’è Francesco, che si strizza il braccio, il suo tic nervoso amplificato da tutta la roba che si è pippato. Lei lo segue fino al bagno. Entriamo anche noi, ma lei è veloce, sembra che corra, ed è già dietro di lui, minuta e nascosta dietro la sua schiena di fronte all’orinatoio. Nessuno si accorge della nostra presenza, ma Lorenza mi schiaccia contro il muro come se dovesse nascondermi, io la guardo sorpresa – Che cazzo fai?– mi scappa anche un po’ da ridere, all’improvviso tutto mi sembra buffo, ma il suo sguardo è concentrato e serio, e la risata mi muore tra le labbra. Lei allora allenta la presa e cingendomi ancora tra le braccia mi fa sporgere oltre la parete di legno lurida. Con un gesto mi indica Alice. Gli si è aggrappata addosso come se stessero facendo l’amore, forse è così che l’ha convinto, mentendo. Lui è molle, abbandonato, torchiato dal corpo di lei, nonostante sia così piccola. Pare avvinghiata, fibrosa e stretta come una corda e lo bacia facendo un rumore melmoso e gorgogliante.

Adesso è Lorenza che inizia a ridere, ride a gola spiegata, e rido anche io, anche se non so perché rido; intercettiamo lo sguardo di Francesco, annebbiato ma scoppiettante di panico. Alice lo morde, forte, gli fa uscire il sangue e lui è sorpreso. Lei dallo specchio ci guarda, allarga la bocca, divertita e lui si spaventa. Lei ha uno scintillio negli occhi che pare provenire da chissà dove. Allora Francesco fa un rantolo, come di un cane picchiato.

Si strappa i capelli scomposti, come se fosse in lutto, si percuote in lacrime le braccia e tendendo le mani, grida: Io stessa racconterò le tue gesta; se concesso mi sarà, andrò tra la gente; se prigioniera sarò tenuta nei boschi, lo griderò ai boschi e i sassi chiamerò a testimoni. Il cielo udrà la mia voce e l’udranno gli dei!

Quando usciamo, è quasi l’alba. Siamo lucide come se fossimo appena sveglie, l’aria è fredda e celeste. Alice non ha nemmeno una macchia addosso. Nel cielo zigzagano uccelli; li guardiamo per un po’, ma sono già troppo lontani per poter dare loro un nome.

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