“O d’amarti o morire”. Cantafavola

Dialogo con Francesca Guercio a cura di Ivana Margarese

 

Immagini di Enrico Lionne (pseudonimo di Enrico Della Leonessa, Napoli 1865-1921)

 

 

“O d’amarti o morire” è il romanzo di esordio di Francesca Guercio, edito da Alessandro Polidoro Editore. Un testo originale, ironico e al contempo profondo, in cui l’autrice compone, con attenzione e intelligenza, temi universali come il sentimento di amore e morte.
Eros e Thanatos, congiunti insieme in un gioco di specchi e rimandi, parlano attraverso la voce della protagonista e dei personaggi che lei osserva direttamente al lettore. Guercio, novella Socrate, interpella con ironia la vita di tutti noi e dà spazio a un dialogo intimo capace di farci sorridere con benevolenza persino di noi stessi.

Inizio dal titolo “O damarti o morire”. Da cosa nasce? Lo avevi in mente da subito o si è fatto presente man mano?


Da subito ho avuto chiaro che avrei attinto il titolo dai madrigali di Carlo Gesualdo. La parure Eros-Thanatos è un grande classico del corredo umano e ricorre in moltissime opere d’arte, del resto. Eppure, l’armonia di cui la riveste il principe di Venosa è per me sempre estremamente incantatrice. Forse perché lo scarto tra l’altezza spirituale delle sue composizioni e la volgare ferocia dell’uxoricidio di cui si è macchiato mostra con interessante evidenza come la natura composita dell’anima umana possa facilmente diventare polifonia o stridore. Quanto alla composizione di riferimento, dapprincipio continuavo a pensare a Io tacerò, poi gli ultimi due versi di “Dolcissima mia vita” mi sono sembrati la sintesi perfetta. Qualche amico a cui avevo fatto leggere il romanzo mi aveva detto che nessun editore avrebbe accettato un titolo da nerd appassionata di musica corale ma il mio editor Antonio Esposito non ha battuto ciglio. Sono stata davvero fortunata a pubblicare con Polidoro.

Vorrei capire meglio cosa intendi per cantafavola.


La cantafavola è un genere di composizione letteraria che prevede l’alternanza di poesia e prosa. Ogni capitolo, in prosa, è preceduto da una sintesi dei contenuti, espressi in versi. Dall’unico esemplare arrivato fino a noi – Alcassino e Nicoletta, composto in Francia nel XII secolo – deriviamo che la tematica doveva essere amorosa, gli scenari fantastici anche se sostenuti da elementi realistici, l’impianto popolare, la scrittura prevalentemente mimetica piuttosto che diegetica, lo stile comico, il finale lieto. Mi sono divertita a ricrearne una versione contemporanea. Anche in O d’amarti o morire i versi all’inizio di ogni capitolo “raccontano” il contenuto delle pagine successive, anche se lo fanno per metafora.

L’uomo di cui la protagonista si innamora è presentato come un evento funesto. Esiste un prima di Lui e un dopo di Lui: “Almeno fino a prima di conoscere Lui. Dopo ero diventata così fragile, sempre in tensione, in allarme per qualcosa che sarebbe potuto succedere, in afflizione per qualcosa che non succedeva mai, con un senso endogeno di mancanza daria a causa di tutto quello che non potevo esprimere, degli slanci affettuosi che dovevo ricacciare indietro, delle delusioni che collezionavo nel tentativo di attirare la sua attenzione”.

Lui appare in qualche modo come un uomo mediocre, solo, impacciato e in fuga da se stesso. Ha una moglie, Eliana, che tradisce e che non lascerà mai, un figlio che diventa appiglio e orgoglio, un lavoro da attore spesso in viaggio e numerosi flirt. Così come Lui fugge da ogni cosa la lei protagonista del romanzo fa costante appello alla sua invisibilità: da viva contava poco per gli uomini che le piacevano, da morta è costretta a un’esistenza fantasmatica.

“Va da sé che, dal momento che Lui non mi amava, niente di ciò che avevo fatto per rimanere aperta e disponibile al flusso della sua esistenza assumendone la forma senza interferire, come acqua in un contenitore, era servito a ottenere lo scopo di non farlo allontanare da me”. Il riferimento alla non visibilità della protagonista, il suo non volere interferire con la vita degli altri, si lega a un blocco, a una immobilità dettata da paure e angosce. Quanto c’è in questo ritratto della tua esperienza personale e lavorativa?


Ci sono paure, come dici tu, ma anche forme di comprensione e rispetto. La delicatezza d’animo della protagonista, la sua estrema permeabilità agli stati d’animo altrui, quella fragilità di foglia d’autunno direi rispetto agli scarponi della quotidianità e la tendenza a trasformare le interferenze energetiche “pesanti” in disagi del corpo ne fanno una donna poco combattiva e tuttavia non passiva, non paralizzata dall’angoscia, non incapace di provare ribellione. La sua mente e la sua psiche sono vigili, reattive. Magari se fosse stata un personaggio anodino o una depressa non si sarebbe fatta consumare così tanto dalle prove a cui la sottopone il continuo sottrarsi di Lui. Lei continuamente si mette in moto e poi deve ringoiare la carica: a forza di accendersi e spegnersi, accendersi e spegnersi il suo motore è andato in tilt. E… sì, mi è capitato di ritrovarmi con le batterie da buttare per averle caricate e scaricate a vuoto quando non dipendeva (soltanto) da me poter usarne l’alimentazione.

 

C’è nel romanzo un’altra figura femminile che come la protagonista si condanna a restare dentro una relazione in cui non è amata o realmente presa in considerazione dal suo amico-amante (che poi è sempre Lui). Da cosa nasce questa attenzione verso figure femminili forti, pazienti, ma al contempo così poco capaci di gratificare se stesse?

Sono stata circondata da figure di questo tipo. Ne avevo intorno talmente tante che a stento riconoscevo un ruolo alternativo, un modo di manifestazione della “donnitudine” che non passasse attraverso la forza, la pazienza e la rinuncia. Nella mia famiglia chi si sottraeva a questa formula era una specie di aliena. Per carità, veniva rispettata ma come si rispetta il portatore di una cultura esotica di cui non si ravvisano tracce nel proprio mondo e che pertanto risulta sorprendente e incomprensibile. Il bello è che c’era uno scarto incolmabile tra la teoria e la prassi. Fin da preadolescente ho avuto accesso a libri come Il secondo sesso o Dalla parte delle bambine della Gianini Belotti, che la mamma leggeva, e quando ero più piccola in auto si intonavano coretti con Siamo in tante siam più della metà del movimento femminista romano o La favola di Maria della Ombretta Colli; però poi a quella vocazione intellettuale – diciamo così – non faceva seguito alcuna pratica rivoluzionaria. Di sicuro non c’era invidia nei confronti delle aliene piuttosto c’era – o almeno io credevo di intuire che ci fosse – una sorta di orgoglio nell’essere capaci di “tenere botta”. Quasi fosse un modo di esprimere la propria saldezza e la propria superiorità sulla cedevole tempra maschile. Un modo molto perverso e autolesionista, come si può vedere.

Infine mi piacerebbe chiederti dei ringraziamenti. Li ho trovati infatti perfettamente in dialogo con il libro che seppure ha una sola voce narrante sembra raccogliere attraverso di lei più voci, più intensità e intrecciare le varie solitudini che racconti nel tuo romanzo.

È così. Grazie per averlo detto! Li ho scritti con gli occhi gonfi di lacrime e ogni volta che mi ci imbatto ancora mi commuovo. Tra quelle righe c’è tanta vita che la morte è appena un cambio di timbro nel medesimo discorso musicale. La solitudine è la condizione essenziale dell’individuo, la nostra più grande libertà. Quando la riconosciamo, possiamo sintonizzarci con le voci meglio consonanti alla melodia che componiamo abitando con intelligenza e sentimento i nostri giorni.

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