Una zattera india

di Emiliano Sabadello

Il libro Kon-Tiki di Thor Heyerdahl racconto, come recita il sottotitolo della bella edizione italiana del 1950 a opera della Aldo Martello editore, corredata di molte foto originali della spedizione e di due mappe, di 4000 miglia su una zattera attraverso il Pacifico, non dovrebbe avere bisogno di particolari presentazioni, anche in relazione all’uscita del film omonimo di Joachim Rønning nel 2012.

L’impresa dei sei membri dell’equipaggio1 valse innanzitutto la prova che la Polinesia fu colonizzata da Est, da Tiki, uomo-dio misterioso, le cui origini si perdono nel mito, con un diretto collegamento fra essa, l’Isola di Pasqua e il Perù; consentì al documentario ricavato dalle riprese fatte dalla zattera di vincere il premio Oscar nel 1952; portò un successo planetario al libro, con la vendita di diverse milioni di copie.

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In questa sede, si cercherà più di insistere su aspetti particolari del racconto che sui suoi significati generali, che sono comunque importanti per le nuove generazioni, anche se il modo in cui è scritto non sempre è all’altezza della letteratura di avventura alla quale si richiama. Ma, questo, non è davvero un problema, perché il libro si legge tutto d’un fiato, anche in una traduzione che, per alcuni aspetti, non è più attuale2. Infatti, Kon-Tiki difetta di suspense. Il suo meglio, però, si trova nell’approccio in qualche modo investigativo a una materia, l’etnografia, che non era considerata (a torto) appassionante. E difatti, quando Heyerdahl comincia a cercare i finanziamenti per la sua impresa e si trova a parlare con un “pezzo da novanta” di un grosso museo di New York, quello non gli fa neanche esporre la sua teoria sulla Polinesia, sbottando: “Non crederà di trattare questioni etnografiche coi metodi di un poliziotto?”3.

Ma è proprio qui che sta la novità dell’impianto di Heyerdahl: quello di non procedere nel regno della “scienza pura”4, ma di cercare, in una sorta di conferma galileiana, di confutare quello che è davvero un «preconcetto»: che cioè all’affermarsi degli Incas la civiltà che li precedeva semplicemente sparì, senza lasciare nessun indizio. Heyerdahl rintracciò quella civiltà nella parole di un vecchio polinesiano (uomo primitivo e pensoso) e le seguì nelle saghe inca intorno al Dio del Sole, il cui nome pre-incaico era Kon-Tiki, o Illa-Tiki, avendo a che fare appunto con il sole o con il fuoco. Indizi polizieschi di un’indagine in divenire.

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Alcuni degli aspetti più interessanti del libro risiedono proprio nei momenti preparatori del viaggio, definiti “giorni drammatici dei preparativi”5, che occupano circa un terzo del resoconto di Heyerdahl. È il Perù a tenere banco, un Perù ancora abbastanza lontano dalla modernità, nel 1947, praticamente lo stesso che incontrerà, in maniera fatale, Ernesto Guevara de la Serna, il cui viaggio attraverso l’America Latina, insieme all’amico Alberto Granado, avverrà soltanto quattro anni più tardi, viaggio terragno, ma non meno avventuroso6. Quel Perù reso arcigno dalla corrente di Humboldt, che gli desertifica la quasi totalità delle coste e che le rende praticamente inospitali. Il Perù povero e accogliente dell’entroterra dimenticato, minerario e contadino, che impose nuovi pensieri a chi lo percorreva e che iniziò a far nascere il Che. Ma, qui, soprattutto c’è Lima che, secondo il titolo di una monografia a essa dedicata, è un camaleonte tra due specchi7. È questo Perù, adesso, a richiedere la nostra attenzione.

“Lima, situata in una piana verdeggiante ai piedi delle solitudini montane, è una città moderna con mezzo milione di abitanti. Negli edifici, e particolarmente nei pubblici giardini e nel complesso topografico, è una delle più belle capitali del mondo; un lembo di moderna Riviera o di California, con un tratto di architettura spagnola”8. Così Heyerdahl nel 1947 descriveva l’impatto che Lima offriva a un viaggiatore che ancora aveva, probabilmente, la Polinesia negli occhi e che forse non aveva avuto il tempo di cogliere la città nel suo complesso. Dopo cinquantanove anni, Juan Manuel Chávez scrive: “Lima sta per raggiungere i dieci milioni di abitanti e ciò merita un applauso, poiché, malgrado le sue deboli fondamenta, sa ancora resistere all’assedio dei sommessi terremoti di marzo e all’eterno battere di tacchi dei più snervanti balli tradizionali del Perù”9. Sparito ogni commento sulla bellezza, nelle parole di Chávez si indovina una realtà in divenire e contraddittoria: l’enorme massa umana che ha allargato i confini della città, pueblo dopo pueblo, oggi ne suddivide il territorio in zone di diversa natura, che vanno dalla concreta umanità interpersonale al valore davvero basso dato alla vita. Nel deserto che confina con Lima, uomini e donne senza niente fondano i propri pueblos, dapprima con case fatte da pareti di canne e poi da mattoni di fango, guadagnandosi infine i servizi essenziali, dopo circa due anni di dura vita.

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E così, come dice Chávez, Lima resta un’eterna promessa, come in qualche modo aveva già compreso Che Guevara: “Lima è una bella città che ha ormai sepolto i suoi trascorsi coloniali (per lo meno dopo aver visto il Cuzco), sotto nuove costruzioni. Non giustifica la fama di splendida città, però i quartieri residenziali sono senz’altro accoglienti”10. Lima, nella considerazione del Che, non riesce a stare al passo né con Cuzco, né con Macchu Picchu: la “città dei vicerè” comincia ad apparire già ambivalente. “Come città, Lima non mantiene quel che promette la sua lunga tradizione […], ma in cambio i suoi quartieri residenziali sono gradevoli e ampi come le sue strade nuove”11. Lima, e il porto di Callao, sono il punto di partenza della spedizione di Heyerdahl e anche uno dei punti di interesse per uno sguardo curioso e anticonvenzionale. Dalla terra, passiamo quindi al mare.

I sei membri della spedizione, aiutati da diverse persone, costruiscono una zattera con il legno di balsa, proprio come fece Tiki e così, praticamente a pelo dell’acqua, navigano verso ovest. Sono talmente vicini alla superficie che i pesci saltano in continuo a bordo, infilandosi nei sacchi a pelo e finendo la propria vita sul legno della zattera. Fra questi ospiti inaspettati, una notte viene ritrovato un raro esemplare di pesce-serpente, il Gempylus, che sale in superficie di notte e che di norma vive fra i 200 e i 600 metri di profondità: “Il pesce, lungo un metro, era flessuoso come un serpente, aveva grandi occhi neri, muso aguzzo e bocca rapace, fitta di lunghi denti taglienti come lama di coltello, ribaltabili sul palato nell’atto di deglutire”12. Pesce osseo e poco interessante per la pesca, il Gempylus era di conseguenza poco conosciuto e ancora oggi mantiene un’aura di mistero, condensata nella battuta di uno dei naviganti: “Macché, una bestia simile non esiste”13. Secondo Heyerdahl furono anzi loro sei i primi a vedere il pesce vivo e intero, mentre gli altri avvistamenti si erano limitati a un paio di scheletri arenati.

La navigazione dei sei, anche se un po’ più tecnologica di quella dei loro antichi predecessori, era comunque qualcosa di confrontabile, potendo far comprendere che si poteva anche viaggiare con poche scorte alimentari, tanto generoso era l’oceano: “Gli antichi indigeni conoscevano bene il ripiego – al quale molti naufraghi ricorsero durante la guerra – di masticare un pezzo di pesce crudo, come dissetante”14. Per l’acqua certo si doveva attendere la pioggia, ma nel complesso la traversata si poteva fare, anche ai tempi di Tiki: ed era questo che Heyerdahl voleva dimostrare.

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L’occhio investigativo dell’autore cade poi sul plankton. Tanti uomini, dice l’autore, erano morti di fame in mare per assenza di grandi pesci, non conoscendo il valore nutritivo del plankton, valore che le balene non ignorano. I sei della spedizione della Kon-Tiki, invece, ne pescarono a chili (soprattutto dove la corrente di Humboldt piegava a occidente), saziandosi sia del suo cattivo odore, sia del sapore che poteva essere ravvicinato a quello dei crostacei, per non parlare delle forme che assumeva, sia sulla superficie dell’acqua, sia fuori: “nel mondo del plankton non c’era limite alle sbrigliate invenzioni della natura: qui anche un pittore surrealista si sarebbe sentito superato”15.

Ma l’accenno più interessante è un altro: “chissà che un giorno gli uomini non si decidano a raccogliere plankton nel mare, come fanno col grano in terra!”16. C’è, qui, un vago sentore fantascientifico, che infatti tornerà alla superficie nel romanzo distopico Largo! Largo! di Harry Harrison (1966), che ispirerà il film 2022 I sopravvissuti: “Un sottomarino atomico trasformato in laboratorio, procede in mare come se fosse una balena, aspirando il plancton, quei microscopici organismi di cui (ti meraviglierà saperlo) la balena si nutre. Voglio dire le tre balene rimaste ancora al mondo. I più piccoli organismi esistenti, che fanno vivere i più grossi. Bel simbolo, non trovi? Comunque, il plancton viene aspirato sino a un setaccio, l’acqua è risputata fuori, e il plancton viene pressato in piccole mattonelle e stivato nel sottomarino fino a carico completo, dopodiché torna a terra, lo scaricano, poi ti manipolano quelle mattonelle di plancton e viene fuori l’Ener-Gi-A”17. Poi, in realtà, si verrà a scoprire che il plancton è finito, o non è mai esistito, e le mattonelle del cibo sono in realtà fatte di carne umana proveniente dai cadaveri.

Insomma, come si vede, il resoconto di viaggio di Heyerdahl è qualcosa che ha rapporti multiformi, che richiama ambiti culturali davvero disparati, chiamando in causa anche il cinema18. Ed è su questa nota di modernità che chiudiamo il discorso, che d’altronde era indirizzato proprio a voler restituire sia la complessità di un viaggio avventuroso come quello di Heyerdahl e dei suoi compagni di viaggio, sia la sua assoluta freschezza, che decidono della sua possibilità di continuare a parlare al lettore odierno.

Note

1 Oltre all’autore, Thor Heyerdahl, parteciparono all’impresa: Knut Haugland, Bengt Danielsson, Erich Hesselberg, Torstein Raaby e Hermann Watzinger.

2 La traduzione che qui si usa è di Benedetto Galbiati, fatta appunto per Aldo Martello editore. Oggi, il libro è stato riedito da Robin edizioni, con la traduzione di A. Aare.

3 Thor Heyerdahl, Kon-Tiki, pag. 20, trad. it. di Bendetto Galbiati, Aldo Martello editore, Milano, 1950.

4 Ibidem.

5 Thor Heyerdahl, Op. cit., pag. 65.

6 Cfr. Ernesto Che Guevara e Alberto Granado, Latinoamericana, trad. it. di Pino Cacucci, Gloria Corica, Roberto Massari, Feltrinelli, Milano, 1993. Vedi, per un confronto, Thor Heyerdahl, Op. cit., pagg. 50 e seguenti.

7 Juan Manuel Chávez, Lima. Un camaleonte tra due specchi, trad. it. di Gabriella De Fina, Donzelli, Roma, 2006.

8 Thor Heyerdahl, Op. cit., pag. 61.

9 Juan Manuel Chávez, Op. cit., pag. 19.

10 Ernesto Che Guevara e Alberto Granado, Op. cit., pag. 99.

11 Ernesto Che Guevara e Alberto Granado, Op. cit., pag. 103. La grande contrapposizione che si trova nel bellissimo film del 2004 I diari della motocicletta, tratto dai resoconti di Guevara e Granado, fra Lima a Macchu Picchu, nel testo di Guevara è semplicemente accennata. Si tratta pertanto di un bell’espediente di Walter Salles e di José Rivera, regista e sceneggiatore della pellicola. La grandezza del film si misura anche con la pochezza delle recensioni borghesi che tendono a sminuirlo.

12 Thor Heyerdahl, Op. cit., pag. 93.

13 Ibidem.

14 Thor Heyerdahl, Op. cit., pag. 105. 15 Thor Heyerdahl, Op. cit., pag. 111. 16 Ibidem.

17 Harry Harrison, Largo! Largo!, trad. it. di Paulette Peroni, Editrice Nord, Milano, 1972.

18 Un’ultima suggestione che proponiamo ha a che fare con Rapa-Nui, anche qui accoppiata romanzo-film niente male. Cfr. Thor Heyerdahl, Op. cit., pag. 148.

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