Isola

racconto inedito di Margherita Ortolani

“Se un giorno scoprissi – mi chiese all’improvviso il vecchio filosofo – che una statua meravigliosa conserva la sua intatta bellezza giacendo sul fondo del mare, preferiresti vagheggiarla irraggiungibile negli abissi, o la faresti affiorare in superficie per poter toccare ciò che presto scomparirà per sempre?” Era aprile, o meglio quel che restava di aprile da quando i confini erano scomparsi. Così pare avesse deciso la Legge: di metterci l’orizzonte dentro agli occhi, due linee, una per parte, a forma di domani che chiudessero un paesaggio sempre immenso e inconcludente. “Questione di welfare” – dicevano gli esperti – a noi tutto quello che restava da sapere era che presto o tardi le cose sarebbero finite, ma non potevamo intuire quando; molto peggio, non riuscivamo più neppure ad immaginarlo e questo ci attaccava addosso una specie di malinconia da sirene, una vaghezza d’amore senza coito.
Dunque, aprile. Dopo un febbraio e marzo senza fine, un aprile anche questo senza inizio e senza fine, dentro cui galleggiavo, come sempre affacciato alla finestra, tra il profumo della zagara e del gelsomino. “Paesaggi tipici” – questa volta erano gli antenati ad esprimersi da tomi di vecchi volumi polverosi accumulati alle nostre spalle dal tempo – qualsiasi cosa potesse voler dire “tipico” in un mondo senza distinzioni, ma poi anche “volume”, o “polveroso”, oppure “tempo”, suoni sagomati in uno spazio immenso che non avevano per me significato, come in fondo era normale per l’adolescente che ero, affacciato alla finestra, attaccato alla sonnolenza dei dodici anni e con due righe di traiettoria infinita in fondo agli occhi, a cancellare in anticipo qualsiasi ambizione alla speranza più vera, ovverosia quella disperata. “Se però non fosse – aggiunse l’istitutore all’improvviso, o quello che sembrò improvviso al mio sogno lento e un po’appiccicoso di ragazzo – che al giorno d’oggi essere fuori posto è diventato terribilmente fuori moda”. Il vecchio era cieco. Da tempo. Forse da sempre. Nessuno sapeva se in fondo agli occhi conservasse ancora le antiche pozze della fine, profonde e nere, nessuno osava chiederlo, nessuno osava nemmeno fare uscire la domanda dal buco. Si diceva che fosse un filosofo, uno che giocava con le stelle fino a perdersi nell’impossibile, mio padre, sentivo con tutto le corde del cuore senza veramente capirlo, me lo aveva messo accanto come ultimo atto di ribellione prima di morire. Che questa vita che andava avanti senza increspature, senza rischio, che finiva senza preavviso come uno scalino invisibile sul nulla, non continuasse imperterrita ed arrogante nel suo seme, senza dare spiegazioni a nessuno; ed il vecchio mi faceva tante domande. Dal niente dei suoi occhi affioravano immagini su immagini, a volte timide, a volte un po’ infreddolite, a volte potenti e sensuali eppure viscide come certe alghe che vanno a marcire. Il vecchio le lanciava dalla bocca sdentata e loro si infilzavano tutto intorno al mare infinito che mi avevano messo davanti agli occhi. Il risultato fu che cominciai a sanguinare. Il rosso, mescolandosi al colore del mare, ne cambiò la forma e così, quando mi affacciai alla finestra, girandomi a sinistra per quella che era la linea del mio braccio, non vidi il nulla, ma un promontorio con golfi e insenature e gobbette, a destra una scogliera che girava a gomito e davanti a me, sul fondo, dove prima cominciava la linea senza fine, una sagoma lontana e massiccia, “che cos’è?” – chiesi al vecchio – “un’isola” – mi rispose sputacchiando. Da quel giorno era passato un po’ di tempo e l’isola mi aveva scavato dentro. Tante altre piccole isole salivano in superficie ed ogni volta con quella sensazione, insieme di sconfitta e di vittoria, di fiato che manca dopo una corsa libera e pazza. Anche il mare acquistava in me sempre più potenza. Guardai il vecchio. Volevo dirgli: “lo sai, vecchio, che una balena può vivere dai 50 ai 75 anni e può sostenere con la sola decomposizione del suo corpo una comunità di organismi per 50 – 75 anni dopo la sua morte?”. Mi sembrava una cosa interessante da dire a un vecchio. Soprattutto a un vecchio filosofo. Ma il vecchio dormiva. Il suo silenzio era così profondo che mi sembrò che uno spiffero mi gelasse l’anima. Quando mi portarono via dalla stanza, chiusero la finestra. Seguendo l’antichissima tradizione dei filosofi un po’ matti, il vecchio aveva lasciato dei suoi scritti da leggere ai posteri. Chiese di essere sepolto in fondo al mare, “quel mare – scriveva – che custodisce la bellezza, eppure tante volte la rende irraggiungibile”. Io non ho pianto. Per la prima volta nella mia vita fui postero, e, forse, per la prima volta fui anche uomo. Non ho più aperto quella finestra, ma mi tuffo spesso, esploro la costa, nuoto, cerco ogni giorno di raggiungere “l’isola”. Sono colui che gli antichi tomi definirebbero “esiliato”. Quando mi immergo penso alle domande del vecchio filosofo e allora scendo più in fondo. E rischio. Fino a quando non mi finisce il fiato.

Biografia

Margherita Ortolani, attrice/regista/drammaturga. Scrive drammaturgie e testi per il teatro che ricevono diversi riconoscimenti tra cui: il bando REACT Santarcangelo, il Bando Indigeni PIM OFF 2015, menzione speciale al Premio Extrême Contemporain (2021). Nel 2011 è semifinalista al PREMIO SCENARIO. Nel 2016, è tra i cinque drammaturghi finalisti del bando NDN – nuova drammaturgia nuova. Diverse le collaborazioni teatrali: Giuseppe Massa (Suttascupa), Phoebe Zeitgeist (MI), Nuovo Teatro Sanità (Na). Nel 2019, traduce dal francese M’appelle Mohamed Ali/Chiamami Mohamed Ali , testo del drammaturgo congolese Dieudonné Niangouna. Il suo testo “La bellezza del giorno” è edito da Zerosismico edizioni (Giugno 2016). Il testo
“Trash. Disinfettato, sterilizzato, asettico”, è pubblicato su PERLASCENA_non periodico per una drammaturgia dell’oggi, N.11, Nov .2018.

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